sabato 26 settembre 2009
Call me Ishmael
Che le balene volino non è certo un mistero. Che somiglino ai dirigibili, nemmeno. Il ventre imbottito di elio, le atmosfere, l'alluminio: in una balena tutto, davvero tutto fa pensare a un dirigibile. Perciò le balene galleggiano sulle nostre teste - ma come gabbiani, portate dal vento, senza muovere un muscolo. Planano dalla ionosfera fino al nostro cielo, così basso, e vengono per noi. E noi a vederle piangiamo a dirotto, perché ci sembrano la pace.
Ma ciò che più ci intenerisce è la loro sbalorditiva somiglianza ai morti. E non mi riferisco solo alla coda, o alla pinne, ma a questa mania di spiaggiarsi, di finire il fiato. Così, oggi, nessuno saprebbe distinguere il canto di una megattera da quello di un morto.
Non è un caso, infatti, che gli antenati delle balene fossero mammiferi, e che venissero sulla terra per partorire. Alcuni cuccioli scavarono tunnel fino al centro della terra, e col tempo divennero placche tettoniche. Altri restarono sulle rive, ed ora sono scogli. Noi stessi siamo i discendenti dei primi cetacei, sfuggiti al riflusso delle acque, alle cieche mosse delle testuggini avviate al mare. Non siamo enormi, è vero, ma siamo stanchi, e la stanchezza è un esito dell'enormità.
Le balene sono, si capisce, animali acquatici. Le spugne cicliche che emergono con uno scoppio, un risucchio verticale. Una parabola, un monito: “noi abbiamo portato l'acqua sulla terra; e cosa possiamo sperare se non che evapori?”. Il Vangelo secondo Moby Dick.
Per noi uomini una balena può essere Avalon o Atlantide, indifferentemente. In ogni caso un'isola, un continente primordiale e immacolato, la placenta sciolta della Pangea. Un capodoglio che si morde la coda. Un eterno ritorno impacciato, l'esatta forma del cosmo.
Quel che importa davvero delle balene, comunque, non è il nome. (Questo vale, invece, per i gatti). Quel che importa è che su di loro grava il silenzio immane del sangue. Sono creature agoniche, stremate da una tenerezza terminale. Tutti gli uomini muoiono in un solo modo: di morte. Le balene, invece, muoiono di peso. Per questo precipiteremo tutti - o, se preferite, coleremo a picco: per il loro peso, in bilico tra gli oceani e i nostri tetti. Una curiosa “fedeltà alla terra”, un tributo alla gravità, la grancassa sfondata degli inizi. L'addome liquido di Dagon, dagli abissi. Tutto è vanità e un rincorrere il vento, certo, ma l'ago della bilancia trema ancora. E sui piatti non troviamo un soffio nel dio, ma un peso di balena, il tracollo delle acque. Le sacche del diluvio pronte a esplodere, l'eredità dei nostri padri che precipita il perdono e ci scorta con la sua mole smisurata, ci tende la sua pinna caudale. Il Leviatano addomesticato.
Infine: è plausibile che le balene si radunino sulla luna con una certa frequenza, assieme a tutti gli altri oggetti. Dall'Oceano Pacifico al Mare della Tranquillità, in un tonfo di sonno. E così spieghiamo le maree: quando le balene nuotano sulla luna le acque si ritirano, per poi alzarsi al loro ritorno.
Per questo motivo le balene sono davvero palloni aerostatici, mongolfiere lunari, palpebre allagate di stanchezza. E si fanno carico del nostro sonno. Poiché il sonno di una balena è sempre spaiato, sacrificato ai polmoni, al respiro volontario. Una veglia inesausta, lo stillicidio dei sommersi. Giacchè nel sonno non c'è peso. Come nel mare, come sulla luna.
Questo, signori, è quanto ho visto delle balene, almeno per oggi. Come direbbe il buon Claudio, nessuno ha mai visto una balena, perché nessuno ha occhi abbastanza grandi. Già Agostino, d'altronde, ha spiegato quanto sia vano tentare di mettere una balena intera in una buca. E noi, nelle nostre credenze, non abbiamo che cucchiaini. Buoni per il thè, per lo zucchero e i dosaggi.
A noi resta la consolazione che, fino a quando esisteranno animali immensi, avremo un'ombra sotto cui nasconderci, un rifugio.
Anche se ora non sembra. Anche se ora, nonostante le balene e i dinosauri e gli elefanti, siamo solo brutti, e moriamo di sete.
Anche se domani – lo sappiamo bene - è il peggior domani di oggi.
mercoledì 23 settembre 2009
Una principesca chiaccherata
(In questo abisso
di parole, manca
l'aria)
Era una mia abitudine,
ricordo chiaramente,
camminare con i re
mentre tutto d'intorno
lievitavano i ruderi
dei vocabolari, i
lemmi arrugginiti.
Sappi che, durante queste
passeggiate, si era soliti
dibattere sull'accanimento
degli insetti ai danni della
plebaglia, sull'inesattezza
del linguaggio.
Credimi, mio caro amico,
non compiemmo errore più
grande che dar gli orologi
in pasto agli orologiai.
lunedì 21 settembre 2009
Fenomenologia di Nayuta, ovvero un discorso intorno alle ceneri di Eichmann
Ad essere sincera, io ci ho pensato svariate volte.
Nayuta
E voi, signori, ci avete mai pensato? Onestamente, noi no. Noi siamo della scuola del suonatore Jones. Torniamo dal ristorante messicano, noi, con cinquanta carte di meno nel portafogli e diverse porcate all'attivo. Senza dimenticare l'ipotetica proboscide del formichiere, che è, insomma, roba da assessore di collegio, per come ce ne racconta Gogol. Noi non siamo amati, e non ci pensiamo. Anche se ci pensassimo, ne scriveremmo male. Siamo piuttosto brutti. Malati e cattivi. La nostra stanzetta, le nostre aspirine, conciliano il sonno. Ci fa male lo stomaco. Siamo anche meno intelligenti di Umberto Eco. Non siamo nemmeno di sinistra. Siamo di destra. Estrema. Una sola moltitudine di falliti, io.
Nayuta è una fangirl. Una fangirl di sè stessa. Ci sono le fangirl di Licia Troisi, ci sono le fangirl di Nayuta. Una: lei. Stessa faccia, stessa razza. Noi vorremmo che Nayuta non fosse mai esistita. Ci rattrista. Crediamo che faccia male al mondo, ai pokèmon di Manuel, al pak dei mobili, a mr. Fudge. Chiudiamo gli occhi, li riapriamo, ma Nayuta è ancora lì. Un sasso, fact fact fact . Finiamo di leggere il Mago di Oz - dimenticando a chi lo leggevamo, un tempo: chiediamo di tornare a casa, ma Nayuta è lì, ci precede. Sbarra l'ingresso, ci inibisce lo spazio, il nostro metro cubo d'aria.
Cerco un paese innocente
Nayuta è peggiore di Eichmann. Eichmann veglia su un dominio, quello del numero, che non è umano. Eichmann è cortese, urbano, resta al suo posto. Non è felice, Eichmann è un fermacarte. Mai scritto nulla, Eichmann. Formalina, una creatura di formalina. È un agente dell'immortalità: per diminuzione, afasia borgesiana, tassidermia. Non ha mai ucciso nessuno. La nostra epoca, signori, ha perso il senso del sacrilego. La nostra epoca è inebriata dal numero, conta le teste. Confonde l'ostia col corpo, priva com'è del segreto fermento della transustanziazione. Nayuta pretende vita, la consuma, impone all'ordine delle cose una traslazione brutale, un'evoluzione accelerata e schizofrenica: dalla cellula all'amore, dal primate a Shakespeare. Così che non si distingua più l'uno dall'altro, così che si debba bruciare la città appestata. Terrorismo dell'inclusività, sessantottismo cosmico. Di fronte a Nayuta, l'unica reazione possibile è lo straniamento dell'agnizione stentata, uncanny valley . In lei compare il marchio mefistofelico di ciò che rivendica l'umano, grida per esserlo, sanguina e piange, ma non lo è. Minotauri e cinoscefali, figli del demonio. Preghiamo Dio perché ci liberi da Nayuta, togliendola dal mondo. Quanto a voi, signori:
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
giovedì 17 settembre 2009
Le Trippe di Poliu Gnorize
Negli anni successivi va confessato che non intrattenni mai particolari rapporti con Poliu Gnorize e anzi, quando il quartiere cominciò a riempirsi di quegli immigrati che tanto ci angustiarono all'epoca e andava degradandosi più di quanto non fosse già degradato prima, persi ogni contatto con lui in quanto mi trasferii, come altri, con i miei. Lo ritrovai soltanto una quindicina d'anni dopo, quando tornai nel rione prendendo ad abitare questo mio piccolo appartamento e a dire il vero fummo piuttosto felici di ritrovarci, come possono essere felici due sopravvissuti ad un'epoca accomunati esclusivamente da ciò. Mi resi conto che la maturità non era stata clemente con Poliu, ora alto ed incurvato come se la sua gracilità gli impedisse di ergersi correttamente. Parimenti il viso era lungo e scavato ed era imbruttito da un pizzetto ispido e lungo che egli si ostinava a far crescere. Chiacchierando venne fuori che non solo l'aspetto di Poliu Gnorize era peggiorato. La sua scarsa oculatezza nei confronti del denaro e degli affari era diventata quasi proverbiale nella zona ed egli non era oggetto di continue truffe soltanto perché non aveva i soldi per cui essere truffato. Una volta mi trovai a passare per la sua abitazione e da allora raramente oso lamentarmi per il cattivo stato del mio appartamento. Poliu abitava in una stanza seminterrata, umida, sporca e con solo due sottilissime finestre. Nella stanza si trovavano un materasso con qualche coperta adagiati per terra su un due assi di legno, un basso tavolinetto tarlato con sopra un fornelletto a gas e qualche rimasuglio di cibo. Posata a terra si trovava anche una lampada, sempre a gas, in quanto durante gli ultimi lavori nel palazzo la stanza di Poliu era malauguratamente rimasta tagliata fuori dalla rete eletrica. Infine, per tutta la stanza, lungo le pareti ed in mezzo sul pavimento, c'erano accatastate innumerevoli ed altissime pile di giornali a fumetti di ogni foggia e pubblicazione, catalogati con insospettata perizia. Poliu Gnorize, ebbi modo di concludere, non era assolutamente cambiato dai tempi della sua infanzia.
Fu la conoscenza così profonda di questi aspetti per cui mi stupii sommamente quando, incontrato lo Gnorize al mercato dietro un carretto di trippa, chiacchierando mi disse che era lui il proprietario di quell'attività. Poliu Gnorize impiegato nelle trippe? Poliu Gnorize investitore? Che avesse tenuto nascosto al mondo intero per tutti quegli anni di come anche lui in realtà fosse capace di ricavare un reddito durevole? Di dove si era procurato il denaro per mettere in piedi un' attività? Si, pur modesta come può essere il gestire un carretto di trippe, ma pur sempre un'attività. Non riuscendo a trattenere la mia curiosità chiesi informazioni al riguardo allo stesso Poliu. Lo trovai molto felice della domanda, e mi diede appuntamento per quel pomeriggio in un bar del rione promettendomi spiegazioni.
Ecco dunque giungere il pomeriggio e ritrovo Poliu Gnorize effettivamente seduto ad un tavolino del bar indicatomi, intento ad ordinare al garzone qualcosa di fresco da bere. Che capovolgimento! Mai, davvero, mi sarei aspettato di vedere un giorno il povero Poliu seduto ad un cafè per bersi qualcosa e chiacchierare. Ruppi gli indugi e mi feci dunque avanti.
“Poliu, Poliu! - salutai – Eccomi qui, infine!”
“Oh, mio carissimo e speciale amico, accomodati, allora, ti prego!”
E dopo esserci abbracciati ci sedemmo. Chiacchierammo piacevolmente di cortesie ed io mi feci portare un'acqua tonica per rinfrescarmi, tanto era lieta l'atmosfera. Venimmo poi, sempre assai lietamente, al dunque.
“Poliu, piuttosto, dimmi un po' allora com'è che sei finito a tirare quel carretto di trippe che t'ho visto al mercato.”
“Ah, gran cosa questa, Aristandro, gran cosa davvero!”
“Dimmi, dimmi, ti sarai fatto prestare i soldi da qualcuno, un fortunato ritrovamento?”
“No, no...”
“Un amante, allora! Hai incontrato qualcuna che ti sostiene?”
“Nemmeno, nemmeno”
“E cosa, allora, Poliu? Non riesco proprio ad immaginare! Quale meraviglia...”
“Lagrime, Aristandro, proprio una meraviglia: lagrime!”
“Lagrime?”
“Lagrime! Ascoltami che ti racconto. Eccomi l'altro giorno che passeggio per i giardini e ad un certo punto mi capita di sottecchi un giornale, aperto sulla pagina della cronaca mortuaria.”
“I morti?”
“Si, i morti. Allora per curiosità mi metto a leggerlo ed ecco che chi ti vedo? Morto Perone Discene, per fame. Capisci? Perone morto per fame!”
“Non lo conosco, chi fu questo Perone?”
“Ci dividevo la stanza! Non m'ero nemmeno accorto che fosse morto! Venni poi a sapere che l'avevano portato via gli altri condomini mentre io dormivo. Ogni giorno lo vedevo buttato li, accasciato contro le pareti e mi limitavo a dirgli il buongiorno e la buona sera, ed ecco che lui mi muore! Lì per lì non me ne importa gran che, poi però rifletto sull'argomento e mi rendo conto che anche io conduco la stessa vita di Perone. "Forse che anche io morirò di fame come lui" mi dico? Vengo colto così da un'indicibile angoscia e corro a casa per piangere. E piango, Aristandro, piango disperato e proprio piangendo ecco che mi viene incontro la salvezza!”
“Quale salvezza?”
“Le mie lagrime, le lagrime di cui ti dicevo! Cadendo a terra, esse si trasformavano in trippa!”
Ero sbalordito, dunque le trippe che vendeva Poliu al mercato erano frutto delle sue lagrime? Incredibile, riusciva financo a venderle!
“Ecco dunque che mi sono sistemato, vendo le trippe e mi tengo da parte qualcosa, poi mi mangio il rimanente. Ah, come sono felice!”
Ed era davvero felice. Era così felice che mi spiacque davvero molo dover dire ciò che dissi. Ecco dunque le mie parole.
“Poliu, quello che dici è molto bello, ma devi renderti conto di un fatto. Ora che sei felice, non piangerai più, e se non piangi per la disperazione non potrai più avere le tue trippe”
Era vero, e anche Poliu Gnorize se ne rese conto. Lo lasciai che, scioccato dalla scoperta, ancora piangeva a dirotto.
mercoledì 16 settembre 2009
I gechi nel cranio
PierCarl, allegro, arrivò a scuola, dove incontrò i suoi migliori amici, che lo salutarono affettuosamente. Però, PierCarl vide che al banco davanti al suo, era seduto Giorgio, un ragazzo che a PierCarl stava molto antipatico, perchè andava molto d'accordo con Sansòne, la ragazza di cui PierCarl era innamorato. Sansòne, o, come la chiamavano gli amichetti, Sànsone, però,
era a sua volta innamorata di PierCarl, e sperava solo che lui la notasse. PierCarl seguì con grande attenzione la lezione di geografia, però quel giorno c'era solo matematica. Allora la maestra, molto arrabbiata, pose una domanda a PierCarl, ma erano ormai due secoli che il calamaro gigante magnetico non si allontanava dalla sua tana negli abissi marini.
PierCarl era molto interessato alla questione, per cui andò a chiedergli il motivo di tutto questo. Nonostante i buoni propositi di PierCarl, il calamaro gigante magnetico era restio a rispondere, in quanto viveva sott'acqua, e d'altronde i calamari giganti magnetici non sono muniti di branchie nè di pinne dorsali. Bastarono comunque pochi bicchieri di farina di riso a far cantare il calamaro gigante magnetico, che disse di essere intrappolato, per motivi sconosciuti a lui stesso, in una posizione verticale. PierCarl, essendo molto intelligente, capì che era per via del suo rimorso nei confronti di sua sorella, che egli stesso aveva ucciso, molti anni dopo, che era trattenuto in quel luogo, e in quel tempo. Il calamaro gigante magnetico, ringraziato il suo nuovo amico, potè passare ad una posizione diagonale, e provò, felice, ad emergere dal vulcano, ma proprio in quel momento...! E così la squadra vinse il campionato grazie a PierCarl. PierCarl si era allenato
duramente per la sua causa, andando tutte le notti per svariate ore nel parco, che era a quell'ora pericoloso, vista la gente che ci girava, fra cui c'era anche un ragazzo, di nome Sam, che andava sempre in giro indossando un buffo cappello, il quale divertiva molto PierCarl, nonostante il fisico del ragazzo, che andava tutti i giorni in palestra ad allenarsi, facendo degli esercizi che erano molto complessi e difficili, non che PierCarl non avesse provato, essendo stata sua nonna a chiederglielo, e, diciamocelo, PierCarl era molto affezionato alla sua nonna, che, sin dall'infanzia di PierCarl aveva sostituito la madre di PierCarl, che nessuno conobbe mai, e, essendo tutti gli altri genitori, zii, e nonni paterni morti, dovette prendersi lei cura di Piercarl, nella sua piccola casetta di montagna, dove viveva da sola, vivendo solo dei frutti del suo vigneto, e della pelliccia di alcune volpi che passano per i boschi giù in città, dove lei non andava quasi mai, se non per procurarsi la pelliccia delle volpi, di cui viveva, e che, onestamente, non era mai andata a genio a PierCarl,
il quale si cibava per lo più di quello che poteva comprare con i soldi che gli davano i suoi amici, ovvero tozzi di pane e alcuni mucchietti di sabbia, ma proprio in quel momento...! E, con questo, il maniaco era ormai dietro la porta, mentre PierCarl stava sudando impaurito, nascosto sopra al divano. Ma del resto, PierCarl non aveva mai amato come prima, e si baciò.
Quello che questa breve storia ci insegna, è che l'amore risolve tutti i problemi, e che con la forza dell'amicizia possiamo superare ogni ostacolo.
lunedì 14 settembre 2009
Schadenfreude
neque detestari, sed intelligere.
a non piangerne, a non odiarle, ma a comprenderle.)
Ora, i pozzi letterari sono da lungo tempo avvelenati.
L'untore ignoto, anzi, è stato tanto avveduto da infettare la falda acquifera con demiurgica onnipotenza, sommo Amore. Un intruglio porfirico, dall'odore riconoscibile ai più, assale le narici di chiunque beva da queste fontane. Una miscela velenosa, minerale e antica quanto il logos - e anzi vegetale, estratta dalle radici della pianta dell'immortalità, immortalità, se mai qualcuno ha creduto alla favola di Ziusudra.
Una verdure assolutamente ricercata, come dire che there was good sport in his making. Concediamogli dunque vita e autocoscienza, un'identità e un sesso, e il gioco è fatto.
E no, non parleremo di ossa o di topi in questa sede. Negheremo noi stessi, un paio di volte, ma niente topi.
I sintomi di questa intossicazione paraletteraria, dunque. Sono facilmente riconoscibili, specialmente dopo un'esposizione prolungata e senza il sostegno di amici e familiari che possano fornire una base sicura per il beccheggio febbrile del cervello paziente: malessere psicologico, allucinazioni, deliri imaginifici e, talvolta, una dialettica del dolore oscillante tra masochismo e sadismo. Una prematura e affrettata esposizione alle lettere sembra ridurre le possibilità di guarigione: è anzi probabile che l'ossessione si tramuti in una vera e propria monomania, nei casi più precoci.
Noia e gusto del dolore sono in realtà un'unica entità bifronte: alla profanazione di sé stessi non può seguire che una volonta discontinua, ma pulsante, di annullamento.
Qualcuno ricorderà il landolfiano Ottavio di Saint-Vincent, "a cui bastava che una cosa fosse possibile per intenderla come già avvenuta e per giudicare in certo modo inutile che avvenisse". La più pura delle forme di inedia, un oblomovismo dopo ossessiva torrefazione. Passo necessario, per alcuni uno stallo.
Il passo successivo, per taluni, è la decostruzione ludica della realtà, poi lo sfregio distruttivo - e tra le due sponde sono gettati più ponti del necessario.
Ora, sospetto che questo gusto per lo sfregio sia in realtà un frutto immaturo ed ingenuo della sensibilità letteraria. Specchio di una cultura letteraria ormai ridotta a mera funzione-finzione, sussidio esistenziale generato e non creato da qualche centinaio di letture, un lustro di latino e qualche citazione in francese. Una cassetta per gli attezzi, relativamente economica, con cui simulare le cose possibili. Una macchina di Turing un po' raffazzonata, che processa algoritmi esistenziali ed esperienze sensoriali.
Una volta processate le cose del mondo, resta la passione per le tele tagliate e le serigrafie della Monroe. Passione pericolosa, sul filo dell'esondazione. Se non altro perché fuori tempo massimo - come il gel per chi soffre di alopecia (mi scuserete lo shock estetico di un accostamento tanto smaccatamente kitsch: dovevo farmi perdonare per le prime cinque o sei righe, comprenderete).
Ora, la letteratura è un gioco? Se sì, ha le sue regole? Lascio a voi la risposta. Mi limito a credere che gli oggetti non siano per niente tristi. Nè sono gioiosi. Sono in stato di quiete. La rappresentazione letteraria, simbolicamente elaborata e culturalmente traslata, delle cose del mondo ha l'odore dello specchio di Vento-e-Luna. Cosa è preferibile al silenzio?
E poi, di passaggio, mi capita di pensare a Dante, quasi per caso, e di chiedermi se per lui la letteratura fosse cosa tanto terribile. La drammatica potenza del bonaventuriano itinerarium mentis in deum è molto più che un pezzo di bravura straordinario: è un atto fondativo. Costanti antropologiche e giochi linguistici edificano insieme porte sublimi. L'atto di scrivere sulla soglia con il pennarello non aggiunge niente se non la banalità dell'entropia, che crede di scoprire sé stessa.
I cavalli sono persone malvage, dicevamo.
E il letterato non è un architetto. Più che altro opera tra la sfera del senso comune e quella del sapere amministrativo - scienza e filosofia, a seconda dei casi. Ma credo sia ora di dire che l'autarchia iconoclasta del poeta metrosexual sia pronta per la discarica dei frigoriferi. Ci sono finiti Lucano, Carducci, gli epitomi della poesia francese ottocentesca: siamo in buona compagnia. Beviamo dai calici del sidro e attendiamo fiduciosi il ritorno dei fomoriani dal mare, sulle pianure d'Irlanda.
Veille entre les murs
«immergila in acqua, lascia che anneghi»
per una volta lo spoglio del buio
è soltanto un ricalco alla coazione,
un apparente migrare ai confini
dei desideri: sopra, la reazione
che chiude insieme le cose e i bambini,
lucertole alla ricerca dei passi…
fermateli al limite della veglia
tra mani che deflettono; scostate
le semantiche dei luoghi, sorprese
a zampillare per le vie affollate
(ché gli oggi sono dita da lasciare,
una stretta ossuta, un torcersi d’arti
al riparo dai nugoli di bare:
se l’attimo è infinita processione,
ogni tempo rettile un memoriale
compilato di traverso, un programma
per non muoversi al cambio di canale,
cosa troverò alle pause, gradini
o l’attesa di un sudore dei tempi,
la smania di vederti come ieri?)
fermateci al limite della veglia
tra mani che deflettono i pensieri
o nelle bocche delle nostre madri,
acclusi nelle fessure, apparenti
processioni al migrare dei confini
lunedì 7 settembre 2009
Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, ovvero un discorso sulla sconfinata tristezza degli oggetti
Poiché, lo sapete, il mio orsetto – Mr. Fudge, di nome – abita l'armadio come si sta in una sfera di sonno, l'inspiegabile senso teologico delle icone sfigurate. Qualcosa come le salme e il sacro terrore che spandono, così santificate per sottrazione progressiva di organi e vita, fino all'estremo Osiride, fino alla reliquia, il caput mortuum, indizio della Storia e della sua catastrofe. La sua tragedia è quella dell'allegoria fatta cosa, Gesù Cristo e l'oltraggio logico. È la tragedia primordiale della presenza che si desta all'immobilità, del nome che esaurisce i passi misurando la prigionia, e così dispiega una distanza divina e aggiunge al dolore l'incommensurabilità del dolore, una misura sisifea di ripetizione univoca o meglio il kairos, il momento che è per tutti i tempi.
Poiché nessuno soffre come un oggetto, portando nelle piaghe la medesima simmetria. Così la nostra tristezza è l'accadimento delle lacrime, non altro che un molle luogo d'acqua, cui la trafila di esserci ancora oppone dighe. E non spartisce niente con l'assoluto se non il casus belli, la stella orribile che precipita da remote regioni di spazio fino al ciottolo, all'increspatura, al modo tutto nostro – e meschino – di smentire l'assoluto con le algebre, la misura. Quest'immortalità della tristezza, questa redenzione che non ci appartiene, questa è la saga degli oggetti. Gli oggetti nella loro immobilità elencabile, la catacomba enciclopedica istoriata di nomi a distanze uguali – simmetriche – gli oggetti e la loro struggente non-ripetibilità - solo gli uomini reiterano il tempo, abbeverano il futuro di necromanzia. Gli oggetti che piangono un tempo e un luogo e un'assenza assoluta, larvale, una singola lacrima incisa, perché tra la forma oltreumana della tristezza e l'oggetto non v'è differenza che non sia Incarnazione, omousia.
E il mio orsetto – Mr. Fudge, come sapete – generato e non creato, con la mente murata e gli occhi caduti in oblio, non è più distinguibile dall'abbandono né si può dire in altro modo di lui – e non con il racconto dell'abbandono, ma solo con la presenza dell'abbandono, cui io non posso più attingere. Il mio orsetto, vescovo d'un conclave di esseri assoluti che abita gli scaffali, le cattedrali dei mobili, nell'incendio che non termina e non consuma, così fedele all'ortoprassi del dolore da non spostare, nemmeno, da una spalla all'altra la croce.
sabato 5 settembre 2009
Trompe-l'œil
Questi scaffali molli, lubrici,
le mura chine
il marmo:
metabolizzato
dai loro umori sintetici,
disciolto
in sospensioni di schegge
e ore rapprese.
Già incede
tra le linee che si sgretolano
il trionfo delle cuspidi,
le grida
ed io,
e il vacillare delle sagome,
lo strazio dei ritagli
condannati al piano.
venerdì 4 settembre 2009
Grati ai gatti
la garza mite che annoda
e assolve - il timpano, un riflusso di cloro.
Ci basta il fondo, il tifone
spuntato in solaio - lo schianto
delle chiavi, nella toppa. Le città (se le finestre)
come onde di sale, il silicio impennato, le travi
- e non può scendere.
Il piombo vuole prima il punto euclideo, poi la carezza
di un vecchio - infine, sui laghi, distrutto - l'ammaraggio acceso
nel buio, la casa, la fame
annientata – non c'è tregua se chiudi gli occhi
e la stanza non vuole, si muove – se ogni cosa è viva
sulle zampe. (Il patto è sceso qui, tra noi,
in punta di freni).
Perciò ora è una fine, da occhi
di murena: tutto ciò che passa
è buono – se non si ferma - non la velina
sulle colpe, la copia carbone del sangue
schiantato – ma la scorciatoia delle pupille,
una tana di anguilla.
E allora, se le cose cadono, è per colpirci
come divinità cartesiane, un mulino
– poi Epicuro ride, ai bordi - e non smette
da quando è morto.
E' tanto triste: questi giorni, le funi, e nemmeno un gatto
che ci accompagni.
Erebo, Eros, Erine
È solo l’ansia di doversi giustificare, di offrire al mondo Sorella Morte ma con un vestito così bello che la faccia apparire una Signora troppo magra e stilizzata, un tanto al chilo di Art Nouveau; modi affettati ha la Morte e strascichi di aulismi vetusti quale velo da Sposa.
Tutto ciò la rende cosa perfettissima e piacevole da assimilare, la plague, il bacio cieco e sanguinolento, introdotta da così alta eloquenza, libera, addirittura e sicuramente deresponsabilizza.
Così ci si ritrova a passeggiare tra lapidi Spoonriveriane, appena regalate all’italico orecchio provinciale, lontano dalla conoscenza mondana, dove Klimt indora nuovo, perfino.
Anche dove vuol essere dolore questa Morte non porta all’aldilà, le epigrafi assumono una monocromia che le relega a quel luogo, c’è fantasia nei nomi, nelle attitudini, nelle età. Non c’è fantasia, al contrario, nel come si abbandona The Hill (o la Rocca) che basta il nome ad evocarlo, tanto diverso non è, perché non la si lascia ed è dolcezza di ciliegie interiori, nell’estate dei polmoni bucati.
Poi c’è qualcuno che se la gioca a scacchi, ma non è detto che il vincitore altri non sia che lo sconfitto, dipende da cosa c’è in palio, bisognerebbe chiederlo a Bergman ma non era ammesso, lui, alla Rocca.
Ed è quello in fondo l’Ucciardone, il Monte Athos, la fortezza della Roccella, un limbo, il parcheggio delle anime prima del salto ogni tanto affacciati su uno Stige d’asfalto con un Caronte prebellico che traghetta le anime dei dannati violando le regole del mondo, talvolta, in un fugace salto nell’aldiquà.
Così rimane l’Erebo come rappresentazione di quello che sarà, il libro sulla morte dove la morte meno si sente, dove non avviene come una recisione dalla vita ma è data per scontata il sottotesto necessario perché fioriscano mitologia e teologia.
Uno su tre sopravvivrà. C’è qualcosa che suona inquietante nel numero perfetto, una roulette russa tra creature disgregate ed unite dalla stessa sorte, per quanto sia possibile accomunare il dolore, che è solitario per definizione, se non fregandolo con uno Shakespeare oratoriale o mitologia arcadica, tanto per gradire.
La resa non è annunciata, qui siamo oltre la resa, quasi un rammarico se non dovesse avvenire: che sia una resa al contrario, dunque.
E vivere la separazione come una colpa, l’addio alla condizione privilegiata di addolorato che apre vie nuove ma occlude l’unica nota.
Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza e a fermarla al momento giusto.
Erebos, Eros, Erine
Marta è creatura mitologica, metà donna, metà icona, la rappresentazione della fugacità e della rilassatezza di vivere una storia senza implicazioni.
Lei la si ama perché è a tempo determinato gratuito, fa ribrezzo stringere tra le braccia un cadavere anzitempo ma lo si fa per sentirsi vivi e magnanimi una volta che i due colpi della roulette sono stati sparati e rimane necessariamente quello che andrà a vuoto.
Un amore che non è Amore, che è sensualmente afflato di malattia, dolciastro come il sangue, scosso dalla tosse, uno spasmo lunghissimo che squarcia i polmoni, che “è meglio morire amando”, almeno si ha la sensazione che il ricordo verrà perpetrato, l’alternativa sarebbe andarsene assieme ma Caronte non da quasi mai la doppia.
Amore, sempre che sia la verità, e, oltre al danno di quel cognome pesante, la beffa di doverlo tossire via per concessione d’aguzzino.
E poi c’è il rivale, anche tra i tisici succede, anche negli amori a scadenza, ma è la carne anziana, malata d’altra malattia che si interpone autorevolmente in questo valzer tra Montecchi e Capuleti da lazzaretto che tutto vorrebbero tranne che gli si acconsentissero le nozze.
È fuori che dovrebbero riuscire ad incoronasi amanti non nella Rocca, lì sta però il luogo dell’abbraccio, la stretta mortifera che arriva nell’ultimo afflato di vita: verso la Morte per l’una e Resurrezione per l’altro.
La stretta finale è la sciocca illusione di voler perpetrare la vita da un corpo ormai destinato alla decadenza che consentirsi d’amare non può far altro che accompagnare di là.
Sempre che, tutto questo fosse Amore e non una parentesi allo scorrersi della narrazione, tanto Eros e Thanatos sono abituati a sollazzarsi in lenzuola d’ombra tra le pagine scritte.
La seconda ipotesi fa troppo per imporsi, saccente, come al solito.
Così in una cabaletta di parole a memoria, com’era giusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti.
Erebos, Eros, Erine
Per ultima arriva la Vendetta cenciosa come un danse macabre, dicono che abbia sapore dolciastro, come sangue di polmoni, dicono che si appoggi dovunque: sugli stipiti delle porte, sulle lenzuola di una notte d’amore, sulle guance dei bambini, lei è Vendetta dai capelli di serpe e i denti di cagna.
E si dice di come la vendetta più subdola sia quella dell’untore, dell’appestatore, di colui che sanguina miasmi in luogo d’aria, di come si voglia ridiscendere alle altezze della vita attiva giusto per illividire di gelosia.
Si dice che ci fu un uomo che aveva un occhio solo, chiese come dono che tutti gli altri divenissero ciechi. Ma non si dice mai di come egli si sentì in colpa per essere l’unico a vederci ancora nella sua piccola compagnia di orbi.
Così l’unzione, la malattia come alibi al male, diventa tollerabile eticamente e addirittura ricercata, il grido veterotestamentario di muoia Sansone con tutti i Filistei riceve incarnazione qui, nella città sana, concava e pronta per accogliere uno sputo mortale.
Si dice che sia un lavoro da untore anche quello di voler notare a piè di pagina gli intenti di una lingua millimetrica ed altissima,quello di voler comandare le sinapsi di colui che si ferma a leggere queste epigrafi smemorate sul bordo della strada, vanamente illuso che non ricapiti quello che già in vita successe loro: essere dimenticati.
Era stata una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire.
Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine
mercoledì 2 settembre 2009
La ruggine
rotti i legamenti
iniziano a cadere braccia e gambe,
finita la cartilagine
tra i verbi, si inizia
a percepire
lo strofinio dei lemmi.
E si ritorna ad amare
i pettegolezzi dei cani.
martedì 1 settembre 2009
Cime di Bàres, mt. 1820 ca.
non so se le forme pervertono il silenzio
come lo fanno gli attraversamenti dei percorsi,
i sentieri e i loro accumuli di passi;
qui è una sospensione tornante di rocce
passate per i corridoi dei piedi; dicono
di postazioni collassate, di tracce identiche
a quel buio che una volta ha divelto le pietraie;
si percorre la costa tesa dalle piogge, nella conca
consumata dal viaggio che è ancora quello di ieri,
ripreso da verità indenni, da coalescenze
di frammenti nel processo che puntella ogni vallata:
è proprio qui che un dio ha digrignato il suo vuoto,
proteso alle foschie di Bàres, a lambire la distesa
fino a quando è rosso e si scollina; una striscia
uguale a queste pietre per poi sparire, sparire…
giovedì 27 agosto 2009
Lettera sull'estinzione dei dinosauri
mi è sembrato un fantasma. Ora dinosauri a fascicoli
e miniature della X Fretensis – mai dipinte,
nonostante i buoni propositi – sono un invito transitorio
per le anime dei salvati. Ed è un miracolo
che le coperte fino al mento separino
i vivi e i morti - dove altrimenti le mani i piedi
nudi crescerebbero in numero – poi non basterebbe
la stanza.
Tutti abbiamo un materasso, e temiamo
si perda - tra colossi di scaglie e amianto
- nell'epopea scalza
delle orme - temiamo
soprattutto il freddo - come tutte le cose
nella clemenza del rifugio.
Vi dirò del sonno
che è una resina mesozoica
e la resa dei mobili, squamata - poi altro – un canale
della trachea, o una varietà
dell'estinzione.
Probabilmente, la fine di un'era geologica
- la processione di bestie enormi e tristi
e lente – i nostri unici amici – retrivi
e senza più un artiglio.
Dei dinosauri ricordiamo i volti di gorgone,
le corazze intatte - le mandrie curve
nel passaggio della fine. Da allora
sono racchiusi, tutti, in gemme d'ambra
- e capita tornino, soli tra i giganti
per far vacillare gli assi, e la terra.
(Un dinosauro è sempre il rovescio
di una testuggine, il terrore straordinario
che accresce i mansueti)
Le loro code di iguana
frustavano l'aria - ma così immense -
perchè la morte potesse, un giorno
trovarli ovunque.
Così il mercurio nel suo grado - le placche
blindate - e il giorno avanza
tra le pietre e la sabbia
e la mistica manichea, anche - negli spazi liberi
dove i nomi cedono per un pasto
e un passo di rettile sfonda
il torace delle ore.
martedì 25 agosto 2009
Necrologio del necrologio
La morte di Ivan Il'ic è un libro chirurgico. Il preferito, tra i miei Tolstoj. È la storia di un uomo che prima vive un po', e poi muore. Ivan Il'ic è un giudice istruttore: il funzionario, il mandarino, un immortale di carta. Forse, anche, è il personaggio secondario del romanzo russo. Non avrebbe sfigurato ad ammonire Dmitri Karamazov, a smazzar carte al tavolo con Cicikov. Queste creature muoiono, di solito, fuori scena. Come tutti noi. C'è qualcosa di gratuitamente feroce nell'inseguirlo con lo sguardo, mentre arrabbatta una vita elementare. Circumnavigare la tragedia, il viaggio dei semplici. L'infelicità coniugale la sopporta sordamente. Strepita con misura. La volontà di Ivan Il'ic è suturata: non ascolta sonate di Beethoven, del resto, e pare non abbia ucciso nessuno.
Una vita più vera che felice o infelice, e dunque tanto più incapace di recepire la morte: giacché non è esogena, la morte, non è la spada dell'ultimo atto o la vendetta degli usurai; solo il corpo che si sfarina, questa è la morte di Ivan Ili'c. Prende una botta a un fianco, e così risveglia il gemello, il parassita. Si sdoppia, l'uomo vivo e l'uomo morto. Finché resta solo l'uomo morto. La morte di Ivan Ili'c si proclama fin dal titolo. Eppure, nessuno sa nulla. Ivan Ili'c meno di tutti. Così ritorna, strisciando, la tragedia, una vita comune diventa contabilità edipica, progressione aritmetica dell'errore, fino alla catastrofe. Se avesse saputo, avrebbe avuto, Ivan Il'ic il suo nome, una moglie, una forma narrabile? E tu, hypocrite lecteur?
Il libro di Tolstoj è entomologia, un documentario fotografico sulla metamorfosi: la morte che rompe la crisalide della congettura – Caio è mortale – e si posa su Ivan Ili'c. Che la sente, e scaccia i propri familiari. Non è possibile, infatti, alcun discorso tra chi vive e chi muore, solo i morti possono seppellire i propri morti. Non sorprende che l'unico testimone del morire di Ivan Ili'c sia il servo contadino, egli sì, un'anima morta, il prototipo dell'uomo che sa, e quindi l'uomo retroverso, fatto coi rimasugli della fine. Grida per tre giorni, Ivan Ili'c: ogni morte è un assassinio, scriveva Bufalino, e chi non grida è complice.
E poi, il finale. Definirlo edificante, una consolazione, un'agiografia, sarebbe carità bieca, sbrigativa. È facile pensare a Goethe – più luce! - ma è così corporea la luce di Ivan Il'ic, così un'implosione dell'iride. Oppure, dolce sollievo nell'ora in cui si muore: ma il suo commiato dal dolore non è quello di Tamerlano, Ivan Il'ic non si accommiata dalla memoria, ma dalla presenza. Nemmeno la risata di Epicuro, ma solo la tormentosa, spiazzante assenza della morte dalle ultime righe – e la morte? Dov'è? Ecco l'ultimo rintocco: perché ne La morte di Ivan Il'ic non c'è tanto la morte di Ivan Il'ic, quanto la sconfitta della vita, così disarmata di strumenti narrativi, metafore, sillogismi di fronte alla morte. Così incompiuta da finire un attimo prima. Non è un caso che muoia, costui, a metà di un respiro.
lunedì 10 agosto 2009
Conviv(i)o
dei conventi – ma le nevi immobili, le gambe dei vivi, i minuscoli animali
che abitano le nostre stanze
e dalle edere i morti – accorciati e acquatici - ricomposti
dalle fionde ai minerali
il loro equivoco, i lanci pregressi e il tempo a scacchi
nei corridoi
- questo secolo e questo balcone, in mezzo alle strade
fuori.
Nei colli di bottiglia
liquidi, atterriti
uno strabismo di luci
- il mondo fasciato dalle acque
fluviale, nei vetri del riposo
Perciò abbiamo fortezze e solitudini
squilli di tromba
per chiudere i primi cassetti, all'alba, con il solito gesto
nell'aria di pioggia
che sprigiona i reduci
I venti ci troveranno, rapidi – e così le voci,
il soffio del cannone
come un sonno
nel fondo di ghisa, dove tutte le creature dormono
grazie a dio
Poi l'attesa
che avvicina ai morti – le alghe sommerse
i cetacei immensi – la loro supplica
profonda e bassa
sotto i nostri bastioni
ma da settentrione, vi dico, verranno i Tartari
e le grandi piogge, e l'alluvione.
domenica 9 agosto 2009
Farsi degli amici
sabato 1 agosto 2009
Ho cuore chiarissimo, amici
Il bollito di Guna Leuche
A differenza di quel che pensate voi, la cosa è degna di essere riportata poiché il signor Leuche non era un maniaco che la notte si coricava indossando costumi perversi. Il signor Leuche s'era effettivamente trasformato in un coniglio.
Subito l'animale si divincolò dalle vesti oramai inadatte e saltò sulla sedia messa ai piedi del letto, di dove penzolavano un paio di pantaloni e qualche camicia. Il signor Leuche controllò dunque se era vero che i conigli avessero una zona preclusa alla vista innanzi al naso.
Era vero.
Fermo sulla sedia, avvoltolandosi in una delle sue camicie, Guna Leuche affrontava la situazione con insospettata tranquillità. Aveva letto un libro riguardo una situazione somigliante, tempo prima, e d'allora s'aspettava un suo possibile coinvolgimento in una vicenda simile.
Lo stesso non si può dire della donna delle pulizie che trasalì alla vista del coniglio quando entrò nella stanza alle undici e venti circa.
“Non si preoccupi signorina Sorgo, non si preoccupi, si calmi! - esclamò l'uomoniglio – Sono io, il signor Guna, non mi riconosce?”
“Oh, signor Guna, m'ha fatto prendere un bello spavento, sa? Adesso però mi deve fare il favore di scendere dalla sedia, che devo rassettare.”
Guna Leuche fece come gli veniva così cortesemente chiesto e scese dalla sedia. Anzi, fattosi passare un cappello dall'attaccapanni se ne uscì addirittura dalla stanza e andatosene in messo alla strada si mise sornionamente a passeggiare osservando curioso le cose dal suo nuovo punto di vista conigliuto.
“Oh, ma guarda un po', il portiere ha i pantaloni bucati in mezzo alle gambe... Oh, ma guarda un po', il giornalaio in realtà indossa scarpe di un diverso colore... Oh, ma guarda un po' – pensava – il salumiere tiene i capperi direttamente a terra...”
Dopo un po' che gironzolava, Guna Leuche incontrò il suo amico Malacase al quale raccontò divertitp della sua situazione.
Malacase prese allora in braccio Guna Leuche e corse a far vedere la cosa a tutto il circondario: al fruttivendolo, al tabbachino, al lampionaro, alle comari, al pollaiuolo, ai tre portieri dei caseggiati, a tutti i suoi amici e conoscenti che lì abitavano e anche ai pensionati del circolo sociale che avevano piazzato lì sette anni prima.
Si stabilì che se Guna Leuche adesso era un coniglio non aveva più senso trattarlo come una persona, che le sue cose andavano ridistribuite e riassegnate e che anche egli stesso andava ridistribuito e riassegnato, magari alla cacciatora, ma si sarebbero accontentati anche di un bollito con patate.
Rumorosamente Guna Leuche fu portato in tribunale. Ecco un estratto della difesa:
“Il signor Leuche, fino alla scorsa giornata impiegato nelle tubature, ha da sempre svolto un lavro apprezzato e ben eseguito all'interno della nostra comunità. Intratteneva anche numerose relazioni sociali nonostante fosse vedovo ormai da diciassette anni, giovando all'allegria della gete ed alla sua produttività. Il venerdì mi ricordano che rispettava sempre il suo turno di colletta per i vecchi del settimo piano. Inoltre, anche se avvolto adesso da una morbida pelliccia bianca, il signor Leuche non ha perso il suo spirito, come ha dimostrato con le sue simpatiche battute durante il giuramento sulle quali anche la corte ha riso amabilmente.Inoltre, tra pochi giorni sarebbe andato in pensione, il signor Leuche, e se ora è impossibilitato a svolgere il suo lavoro tra due settimane non sarebbe comunque più stato tenuto a farlo. La difesa chiede dunque che il signor Guna Leuche, il quale non certo per sua scelta è diventato coniglio, sia assegnato come mascotte del circolo per i pensionati del suo quartiere.”
La difesa fu molto toccante, tanto che tutto il pubblico che assisteva all'appello si mise commosso a singhiozzare, poi commosso a protestare ed inveire ed infine commosso a picchiare le guardie all'interno dell'aula tra urla molto alte e sempre molto commosse.
L'aula fu fatta sgombrare e dentro rimasero solo i pubblici ministeri e Guna Leuche, che come è ovvio che sia fu poi portato nelle cucine del tribunale e servito bollito con le patate alle sette e mezza in punto.
venerdì 31 luglio 2009
Il vento di Meteomicrone
È un momento molto difficile, il mio, desidero metterti a conoscenza di un segreto che mi porto dietro da molti anni ormai, e che da qualche giorno mi causa particolari e gravissimi problemi. Ti prego dunque di leggere questa mia lettera con la dovuta attenzione.
Devi sapere, caro Aristandro, che i miei piriti bucano i tessuti. È esattamente così, sicuramente non te ne sarai accorto poiché ho avuto molta cura di tenere la cosa nascosta, soprattutto alle persone che più mi stavano a cuore. Non ho dubbi che la cosa possa tuttavia risultarti assai strana, per cui procederò per gradi, ti narrerò innanzitutto di come si manifestò la prima volta in me questa particolarità, poni attenzione.
Ero allora giovane di sedici anni, l'età ormai definibile come lontana quando il primo avanzare dei veri sentimenti li rende imprevedibili, esotici e possenti come le mandrie che corrono in quelle lontane praterie di cui già parlammo talvolta. Anche io, per l'appunto, ero stato travolto dalla carica di queste tenaci emozioni e mi azzardavo per la prima volta a placarle portandole a dissetarsi a quell'abbeveratoio che doveva essere Pressimene, mia dolce amica già dalla tenera infanzia. Avendola dunque già frequentata da parecchio tempo ed essendo molto in confidenza con lei presi rapidamente la decisione ed essendo anche piuttosto, per l'età, inesperto nel daffarsi, decisi parimenti di non perdermi troppo nei corteggiamenti e di presentarmi celere alla fanciulla nella mia vera forma di desiderio.
Ora, quando anche tu certamente ti sarai ritrovato a manifestare per la prima volta il tuo desiderio all'oggetto tuo, ricorderai come avviene una grande emozione, quasi un groppo di varie tonnellate posato sulla schiena che impedisce molto facilmente di spiccicare parola. Ecco, io riuscii a superar l'ostacolo e le cominciai a parlare come ero solito fare, tuttavia mantenendo sia gli intenti che le difficoltà. Ad un certo punto del discorso, mentre sto per decidermi a sbrogliare il nodo, per la forte apprensione veloce ma silenzioso mi sfugge un pirito. Eravamo all'aperto e si passeggiava lungo un vialetto di campagna abbastanza solitario dunque non mi preoccupai più di tanto della cosa, anche perché ero molto concentrato sulle parole da dire quando, per seguire il moto di un uccello in volo, Pressimene si volta indietro e con sorpresa osserva che per terra, dietro di noi, ci sono dei brandelli di stoffa ove poco prima v'era solo polverosa ghiaia!
Non c'è bisogno che t'interroghi, erano si stoffe provenienti dai miei pantaloni, e non ci volle molto perché Pressimene se ne accorgesse, con mia grande sorpresa e ancor mia più grande angoscia. Non ti racconto nei dettagli i momenti successivi, poiché provo ancora una grande vergogna nel ricordarli. Ti basti sapere che da quel giorno ogni mia flatulenza mi è costata un ricambio di biancheria.
Col tempo, già prima di conoscerti, imparai a studiare la frequenza di queste fuoriuscite, la loro aggressività nei confronti dei diversi tessuti e pian piano riuscii ad adattarmi alla cosa. Devi sapere dunque che io sono ben più magro di come mi conosci, poiché indosso infatti costantemente sette mutandoni di lana invernale sotto i pantaloni, e ciò è causa anche di quei “problemi miei di abbondante sudorazione” di cui spesso sono stato costretto a raccontarti mentendo. Non prendermi adesso come un bugiardo degno di disprezzo, era in fondo una cosa piuttosto imbarazzante ed effettivamente non necessaria alla nostra frequentazione. In ogni caso desidero chiederti scusa, anche perché ora vorrei chiudere questa premessa che va dilungandosi anche troppo cascandomi giù da gradini stilistici.
Dopo la spiacevole vicenda avuta con Pressimene non provai più ad avere relazioni approfondite con coloro verso cui nutrivo interesse, un po' per paura ed un po' perché ero preoccupato maggiormente dal problema dei buchi, alla fine mi ritrovai abituato alla situazione mia solitaria. Due giorni fa, in mattinata, mi ritrovai tuttavia ad un appuntamento con una donna molto simpatica da me conosciuta in teatro. Difficilmente potrai conoscerla, si chiama Esticontrona e talvolta recita per diletto in quelle commediuole che gli attori di scarso successo fanno interpretare per mangiare persino ad attori non professionisti come lei. A dire il vero non era la prima volta che mi vedevo con questa signorina, ma era accaduto sempre assieme ad altre persone e da pate mia non v'era mai stato un particolare interesse nei suoi confronti, almeno fino a quando, tre giorni fa, non ricevetti un invito da parte di Esticontrona per vederci, noi due da soli, in mattinata per prendere un caffè, farsi una passeggiata e, soprattutto, farsi quattro chiacchiere e divertirsi un po'. Nonostante non ci fosse nulla di particolarmente sconvolgente fui turbato parecchio da quell'invito (come avrai intuito il mio animo non è abituato affatto nel trovarsi solo al cospetto di una ragazza) e tuttavia accettai, non riuscendo per la restante parte del giorno a far altro che pensieri sempre più approfonditi su Esticontrona, tanto che arrivai all'appuntamento della mattina successiva molto teso ed agitato, indubbiamente pieno d'emozioni.
E ora capisco, ahimè, la causa del mio male! Appena cerca di parlare di qualcosa con Esticontrona eco prorompere dal basso della mia schiena un fragoroso rumore come tuono di temporale, e non come la prima volta, ma stavolta molto intensamente, sento i sette mutandoni di lana e i pantaloni strapparsi uno ad uno come si sfracellano i pontili posti dentro a un nubifragio! Non ho mai vissuto una vergogna simile, fu come se quell'attimo durasse ore, come se il rumore rimbombasse e si riproducesse con echi, ed alla fine eccomi lì, al centro della via di fronte al bar più frequentato con i pantaloni e sette mutande di lana sbrindellate e penzolanti, con ogni singola pupilla puntata su di me!
Anche Esticondrona mi guardava con il viso deformato dallo sgomento, ma subito, sia maledetto il suo essere uno spirito felice, essa non resistette al proprio animo e dalla deformazione dello stupore passò allo stupore della risata ed assieme a lei il viale intero. Fuggii e da quella mattina sono due giorni che sono chiuso in casa senza uscire né vedere nessuno, solo con le mie flatulenze che ora non smettono un solo istante di rumoreggiare tempestosamente. Già quattro volte i vicini sono venuti a bussare curiosi ed io li ho scacciati via malamente, accompagnato dal solito e orribile rombo.
Ora mi ritrovo a scriverti questa mia, Aristandro, perché ho bisogno di prendere una decisione. Aspetterò il prossimo passaggio dei vicini e chiederò loro di imbucare per me questa lettera, dopodiché andrò ad appendere una delle robuste corde che tengo in casa alla trave del mio soffitto e mediterò se sia o meno il caso di porre fine a questa mia sfortunata e ventilata vita. Ti prego dunque, quando avrai ricevuto e letto questa mia missiva, di porre pausa ai tuoi affari e precipitarti qui da me. Se mi sarò cascato giù con la corda appeso, avrò bisogno di qualcuno che mi tiri giù e mi organizzi un modesto funerale, e vorrei chiedere a te d'assumerti questo spiacevole onere. Se invece avrò giudicato cattiva questa idea che ora vengo d' illustrarti, avrò probabilmente bisogno di qualcuno che mi consoli e che mi tenga compagnia recando con se un paio di damigiane di quel buon vino che tu conosci tanto bene.
Grazie,
Tuo Meteomicrone.
giovedì 30 luglio 2009
La pelle dipinta (variazioni su un tema di Pu Songling)
Ai racconti popolari
dobbiamo un tributo:
ci nascondono i vasi da notte
e le risposte, follie.
Ma delle pietre
fanno orologi, dighe;
del sangue, mattini.
Il tuo consiglio è blando,
cauto perorare
"con le ginocchia della mente inchine"
scandagli un vago approdare,
ti dividi in aria.
Guardando dalla finestra della biblioteca, Wang vide un demone terribile, con la faccia verde e i denti affilati, tendere una pelle umana sopra il letto e dipingerla con un pennello. Il demone infine buttò via il pennello, scosse la pelle e se la mise sulle spalle come se fosse un cappotto, ed ecco! Era proprio lui, la ragazza.
Del tuo itinerario
salvo tutto, fuorché il Tempo:
i tuoi secoli non hanno peso,
nè fronde. E' una forma
la tua lanterna, il tuo amuleto,
aria divina.
La ragazza fece a pezzi lo scacciamosche, sfondò la porta e corse verso il letto, dove squartò Wang e ne estrasse il cuore pulsante, con il quale se ne andò. La moglie si mise ad urlare, ed entrarono i servi con una candela; ma Wang era già morto e la sua carcassa costituiva il più miserevole degli spettacoli. Il sangue schizzava ovunque dalla cavità nel suo petto.
Ed è con un lancio di monete
di bronzo, con le ossa di tartaruga
che i tuoi vaticini sospirano,
piovono enigmi e il sogno non collima
si perde, come uno spillo.
domenica 19 luglio 2009
La grattugia di Turi Zampene
Quando questa mattina mi sono svegliato ho subito sentito suonare alla porta. Le malelingue potrebbero asserire che invece io mi sia svegliato proprio perché stava suonando la porta, e che non fosse mattina, ma fossero passate già le quattro del pomeriggio e anche, potrebbero asserire, che quel poveretto che suonava fosse stato li ad aspettare più di mezz'ora. Ma non è vero. In primo luogo, questa gente a cui piace tanto parlare è solita far terminare la mattina alle undici, mentre tutti sanno che essa è di molto più larghi confini. In secondo luogo, colui che suonava dietro la porta non era affatto un poveretto. Era invece Turi Zampene, che la gran parte di voi sicuramente avrà avuto modo di conoscere in qualche sgradevole occasione. Quest'uomo, che si diletta nel commercio dei salumi, dicevo, mi aspettava dietro la porta, e quando gli aprii ancora lo trovai a suonare mollemente il campanello con aria vagamente annoiata.
“Che ti succede, Turi? - gli chiesi, vedendo che sulle spalle portava uno zaino dalle dimensioni abbastanza preoccupanti.
Zampene si aggiustò i capelli e si fece accomodare nell'ingresso.
“Oh, Aristandro, nulla di che... passavo.
Turi, che conobbi all'età di ventisette anni, è un uomo infido. Dopo che gli ebbi aperto la porta e lo ebbi fatto accomodare in casa mia si tolse il suo grosso zaino dalle spalle e, posatolo a terra, ne estrasse una grande forma di parmigiano ed un certo numero di grattugie.
Turi era un uomo pratico, si arrotolò le maniche della camicia, si prese una sedia e vi si sedette sopra, mentre dalla porta ancora aperta entravano suoi uomini recando carriole e formaggi. Gli uomini entravano, depositavano le forme e riuscivano, portandosi dietro le carriole. Uno di questi si tirò via anche le tende. In tutto questo Turi si adoperava per grattugiare tutti i formaggi che gli venivano portati e mentre grattugiava sudava e i lunghi capelli gli ricadevano dalle spalle davanti gli occhi.
Fuori dalle finestre, in strada, un inopportuno gruppo di giovanotti cantava i cori dell'armata rossa e ben presto Zampene si accodò con grande spirito, sempre continuando a grattugiare.
Mi resi conto che non potevo oppormi alla situazione e me ne andai in cucina, pensando a quanto fossi fortunato a non essere amico di Turi Zampene.
Sul tavolo della cucina erano casualmente posati dei fogli e mi venne voglia di scrivere, ma non trovavo nessuna penna. È una cosa che di solito mi irrita molto, ma lì per lì non me la presi, anzi, andai anche ad aprire il frigorifero sorridendo e facendo qualche battuta sorniona sugli avvocati.
Ora, qui tuttavia ho delle difficoltà a continuare. Del resto , chi non ne avrebbe se, mentre si sta cercando una penna a sfera si vede del parmigiano grattugiato entrare lentamente dalla porta della stanza? Fu quello che vidi io. Era Turi, che in salotto aveva continuato a grattugiare formaggio e che ne grattugiava ancora adesso, ridendo come un folle. Solo, non aveva ancora toccato la forma di parmigiano tirata fuori dallo zaino.
“Turi! Turi, santo cielo! - esclamai mentre avanzavo per il salone ormai totalmente ricoperto di grattugiato – Turi, mi dispiace molto ma debbo lasciarti, tornerò più tardi.
Indossai il cappotto ed ero indeciso se portarmi o meno anche il bastone, ma una risata di Zampene mi risolse e presi con me quello sormontato dalla testa di un caprone. Mentre ero impegnato a salutare sotto l'arco della porta, venni urtato da uno degli uomini di Zampene che usciva con la carriola e fu una fortuna, perché ero molto imbarazzato.
venerdì 10 luglio 2009
L'ho vista spegnersi
Era le 23 circa, io ed il mio migliore amico immaginario vivente che abbia mai conosciuto (da ora in poi maivcamc), stavamo ripetendo un pò di inglese (in quanto saremmo partiti per un viaggio immaginario alla volta del Giappone, e mai avremmo voluto farci trovare impreparati a tale evenienza), imponendoci di parlare solo nella lingua di albione quando qualcosa attirò la nostra attenzione, un articolo su wikipedia che parlava del meteorismo.
Avemmo la folgorazione, applicare il meteorismo di cui soffriva da quel momento maivcamc ed applicarlo ad un accendino d'oro (quelli di plastica non li prendemmo in considerazione, perché maivcamc ne aveva una strana fobia, del tipo "ti mangiano gli occhi!"), quindi aprii leggermente la cerniera della mia tasc segreta nascosta nei boxer (altra cosa strana di maivcamc era l'allergia alla forma delle mutande) dove nascondevo l'accendino di oro (non era d'oro, ma del mio amico oro sfaceli, ma tanto cosa ne capisce maivcamc!), lo presi, lo accesi e maivcamc fece partire il colpo sacro del meteorismo delta (quello alpha era poco potente, il beta fu presto abbandonato a favore del delta, il gamma era troppo poco sperimentato per esserne sicuri, ci limitammo quindi).
Ho aperto gli occhi, non ho scampo.
giovedì 9 luglio 2009
verso il cadere
a questo domani di polveri
e pietra, accolto nel suo cigolio di mani
fra le colpe dei fossili, nei denti
che hanno il volto del buio
(barbagli di voce, nomi
disseccati
ritrovati d’ istanti
a scomparsa, imminenze
e correnti, trincee di cielo
e diamanti di case)
solo porte d’inverno, più avanti;
mascelle d’asfalto dai parafanghi
d’acciaio (non immane rugiada,
non bagliori di rame)
ripenso agli odori, alla foga
di quei passaggi ad ossa nude,
se siamo schegge di muro
fra le finestre e nient’altro
(è tutto vero, ma l’ombra è ancora lunga,
ed è troppo questo crinale
per dire
che la colpa è
il vento)
domenica 5 luglio 2009
#12
La nonna raccontava che ogni angstrom del suo corpo era ricoperto di macchie, ma a me interessava poco.
A breve sarebbe cominciato il cartone animato dei Pokémon, e l'emozione era tanta che avrei dovuto chiamare un compagno di classe per cantare la sigla.
Durante i titoli di coda, dieci anni dopo, stavo accarezzando la mia cagnolina invecchiata, mangiavo le fragole di bosco della casa di montagna mentre quella correva intorno, e ansimava così forte che mi sono ritrovato al funerale di mia nonna, la dalmata, a consolare la sorella che mi singhiozza sulla spalla.
Quante volte sono fiorite e sfiorite le ginestre, da quando il sudore mi incollava la cornetta all'orecchio, in un apice di entusiasmo che presagiva un futuro di sconfitte?
Di fiori così brutti mi interessa così tanto... eppure, le maglie offuscate registrano qualcosa: un Pinocchio di 16 metri, conficcato nell'asola del gilet della memoria, i cui taschini sono pieni di canzoncine e il cui colore, cangiante, mi inganna da secoli.
E questo cane, che non è ancora morto, ha già un suo epitaffio, e mi chiedo se sia poi così sbagliato:
Morta Dorina è qui: l'irata Dea
Antilogia dell'attrito
"nel ventre del convivio"
un ospite: l'angelo di ferro
templi amati - materia - crocifigge;
seguendo la fase
di coibentazione delle assi
crescono agli innesti i sedimenti,
le schegge eretiche, chiodi
superstiti madri
si guardano, inermi
spezzano antenne, e cablaggi,
nelle ultime notti
(noi caduti, a ogni nuova luna)
il sacrificio
a Penelope: in ordine,
sorda e sconfitta,
poliandrofaga muta,
tarantata - salvezza -
tremante subisce
Palinsesti. E il Suo brando
in apologo, ad misericordiam!
linea alba
Seigneur, quant froide est la prairie,
dopo aver visto mirande cose passare
dalle campagne elettorali, alle stazioni
inerti sotto ai treni, agli stabili deserti,
balneari (disobbedienza alla produzione
di segni, all’emissione vacanziera):
un problema di mensure, uno sgomento
differente, flesso all’occasione divisoria;
il cartongesso alle corde, in colonna
assieme alle prenotazioni, oltre
l’apparente garbo delle cose:
si mette mano alle danze, alla differita del passo;
ci si nutre di scorci, sugli stipiti
in fuga dai paesaggi rovesciati,
discesi dai disordini dell’aria:
usciamo sempre attraverso i vetri, sugli svolazzi di buio,
nuotando protesi allo scatto, vòlti al sudario che tempra quest’aria;
siamo l'odore delle chiavi di casa, sopra un confine a specchio
(o chissà dove):
oggi lasciate andare le lacrime
cadute, ghermite dall'utero del tempo,
sull'indugio di rampicanti inadatti:
si scrostano le serrande abbassate, sugli orizzonti dopo, sotto i ritratti:
vibratile inerzia questa veglia, presenze del mattino.
Zur Seinsfrage
Si dispongono in cerchio e poi convergono, uniti, fino a schiacciare le direzioni. Quando sono tutti premuti nello stesso luogo si intersecano, si sovrappongono, e alla fine non si distinguono più l'uno dall'altro. Così, raccolti, sembrano reggere ogni spazio, incrociare i marciapiedi infiniti, la luce dei fari, le discese ripidissime e tutte le curve. Abbinano gli oggetti, li combinano, saldano un punto di fuga. Io non conosco, però, le loro formule, i loro codici. Né so dirvi che altro accade.
E' possibile che i morti abbiano un mestiere, e che ritornino proprio per questo. Che a un certo punto siano scossi dal sonno per un'anomalia dei ponti, perché i nessi resistono a fatica. Il mondo si incrina, le cose sfumano, tutto diventa vapore. E allora vengono i morti, come un vento gelido, e salvano la logica, riallacciano i legami. Arrivano alle cose -a tutte le cose- e le prosciugano. Quando ritornano il mondo si fa sottile, i volumi evaporano, i lampioni si accartocciano, le strade si stringono ed io divento un poco più triste.
Vedete, io non dormo molto, e così mi è successo. Mi è successo di avvistare i morti, a piccoli gruppi, e spesso ho temuto di vederli entrare dalla finestra aperta, lentissimi, in processione. A quel punto mi sono sempre addormentato.
Per questo motivo ho una mia teoria, su di loro. Io credo che i morti accerchino le nostre stanze, i nostri letti. Viene un momento in cui tutto sta per crollare, e allora salgono dalle piastrelle, calano dal soffitto, come un sonno sconfinato. Ed è questo che fanno: chiudono i minuti, aggiustano le valvole esplose del sonno.
A volte, di notte, si sente come un canto, un inno infuso nelle pareti. Io vi dico che questo canto è il canto dei morti e che, se fate attenzione, lungo certe ore, potrete sentirlo anche voi.
venerdì 3 luglio 2009
Mediterranee, una specie
Tutto questo per dire che anche la parola spesso cede; si arrestano i suoi flutti, si abbandona, al suono delle secche (gioco di vento pigro e canne): è triste come il dormire al sole, dopo pranzo sulla spiaggia, l’amore.
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Nel sonno cadi con la pronta fiducia del mistico; a volte stai parlando e la voce impercettibilmente sfuma, verso il respiro, il silenzio. Come fa questa prosa pacatamente compiaciuta di sé.
Non è un sonno platonico: lo ricorda il calore del tuo corpo, il movimento leggero e costante, nell’avanzare e ritirarsi del diaframma. Non è neppure la coscienza che si cela, anzi traspare: nel calcolo nottambulo del tuo avvicinarsi, allontanarsi, condividere, lo stretto spazio di un letto a una piazza.
Piuttosto è il sogno di veder agitarsi sulla pelle nuda il tuo ritratto; com’è di giorno nell’acqua immobile e bianca del mare.
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La sabbia si ammonta in dune, a fianco dei camion che l’hanno scaricata. Sulla spiaggia: un lembo sospeso a fronte del mare che già ambisce a lambire i marciapiede, le auto parcheggiate. La stessa sabbia che tra un mese, coprirà la propria indifferenza di turisti, e stagnante, come questa parola usurata, fingerà di essere maggiore alla sua compagna che riempie, ingorga le clessidre. E suggerirà al più innocentemente naif che la vita è bella, perché si può dormire al sole.
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Nei giorni d’aria tersa e opprimente, l’orizzonte si confonde col mare. Così che le vele, le piccole imbarcazioni che si scorgono dalla spiaggia, si tingono del colore di una duplice inesistenza. Illusione ottica dell’orizzonte, del cielo che preme, disperdendo tutto il suo goffo peso sugli scogli, e impossibilità di vedervi oltre per chi, sdraiato, non sa nuotare e annaspa tra le metafore.
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La luce estiva è tutt’uno al calore. Un senso di pesantezza dei sensi, prima che l’apparire sotto forma di miopia; una generale stanchezza dell’aria, come l’oro col tempo scurito delle icone, l’aria immobile del rinascimento. Alla sabbia si confonde la polvere dei musei. Ma se tutto oscura e tutto chiarisce, nel pieno giorno della sua oscurità, non è cruda, come aridamente si dice; ma ha il troppo chiaro e dolce delle convalescenze. Il mare che si riversa sulla battigia è il pensiero fermo che ristagna, la lingua; il troppo caldo fa sì che svapori, in epistassi.
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Tutta l’aridità delle marine.
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La baia vista dall’alto, dai tornanti della strada panoramica, ha profilo da fotografia, svanisce, nei contorni del suo antico nome romano. Al tramonto, la luce del sole riverbera sul mare, che occupa, oltre l’est, il settentrione, e la confonde all’ideale della sua bellezza; o la dissolve nell’espressionismo di una malinconia di De Chirico, strappata alle tortuosità della sua intelligenza e ricondotta alla propria origine, marina e greca.
Un colore concreto, come un riposo della materia. E concreto è avvicinarsi alla spiaggia; si coglie allora realmente il fiume e il sapore della sua acqua salmastra, il senso degli sterpi e dell’erba che toccano la riva, e quello dei palazzi grigi e popolari.
Se il sole coi suoi ultimi abbagli tenta ancora di confondere i pochi turisti, unici che occupano la spiaggia, ingannati da un depliant, un albergo, il suo basso costo, con l’impressione che il paesaggio vanisca nell’immobilità, che i giochi dei bambini arrugginiti procedano da epoche romane, al punto di chiedersi dove inizi, finisca, la realtà del quadro, le conchiglie della battigia non spazzata, c’è così poca gente che spesso non vale la fatica, incagliandosi al tallone nudo, cancellano ottusamente ogni dubbio filosofico.
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I pensieri, i mosconi e le parole ronzano, cozzano, e ottusamente muoiono, sul davanzale in pieno sole.
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Nei giorni in cui il cielo è troppo turchese, il sole a fatica concede i minuti, e troppo avidamente, poi, brucia i meriggi…
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Gli uccelli che si sporgono dai rami degli alberi del viale, a due passi dal mare, per la calura non cantano, si disperdono in monotoni e inesausti gorgheggi.
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Nelle borse della bici i sassi, raccolti l’altra estate a riva per il loro nitore, come panni vecchi, hanno stinto. Lasciando imbiancate le borse, il loro interno, si sono fatti, come parole, imperfettamente rossi e neri.
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I lavori alla stazione non finiscono più. Iniziati con quest’afa, sembra che le ruspe si sfiniscano, a trasportare ed ammontare, avanti e indietro la terra arida.
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A volte a rimescolare, l’acqua torbida guizza, un pesce o una rana, comunque una opaca macchia di colore. E non dura, né qualcuno vorrebbe da più vicino sapere, a cosa appartiene quel debole baluginio. Pure quel guizzo. Starebbe bene, sulla tela di un pittore, se di figurativi ne esistono ancora.
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La poesia è fluviale e come un fiume
cancella scorrendo le sue tracce:
né v’è rigagnolo, per quanto stagnante,
che non abbia
il suo salto,
fosse pure artificiale; persino il Foglia
ha le sue cascatelle dov’è il ponte del treno
e la gente va a pescare.