lunedì 25 gennaio 2010

Coda con gatto

D'improvviso un impiegato delle poste che sta lavorando ad uno sportello s'accorge che i suoi piedi si sono trasformati in zampe da gatto. Sorpreso, si rende comunque conto che la trasformazione per come è avvenuta è sostanzialmente inutile (a nessuno servono soltanto un paio di zampe da gatto) e per questo si rattrista.
Allora l'impiegato salta giù dalla sedia e si mette carponi a miagolare, sperando così di completare il processo.
Ma non accade nulla e nel frattempo la persone davanti lo sportello cominciano a battere sul vetro perché si dia attenzione ai loro problemi.

sabato 23 gennaio 2010

nobiliare

io e il sire. un ver(s)o a testa (spezzati e divisi, all'occasione, per distribuire il dolore). un falso d'autore. non è divertissement. se non altro perché, in vita nostra, non ci siamo mai divertiti. senza ombra di dubbio. senza macchia. ma abbiamo paura (e per questo siamo santi, non eroi).
navigare è necessario.
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l'upupa imbottigliata è un'altra
- impagliate a stento, lungo i sopori domenicali
rispondono al richiamo e non somigliano
a noi, ritratti per i molteplici compleanni, le comunioni, le patenti
trapuntati nei nostri piumini a schermo, in faccia all'inverno
ma con le dita ghiacciate e la brina
inesplosa. Il pedaggio con l'obolo sotto, una suola,
guadagnare l'ascesa alle acque
superne, le nevi, che ricordano
alle cose il metallo, la membrana minerale: pur sempre
una nascita, l'opposto del principio, un primissimo
dolore delle cime - infine, un satellite.
La misura di quanto ricade, oltre l'ora e la traslazione
è un trasloco di palloni, mongolfiere, una rimonta fino alla febbre
e rimane, segno e paradosso, emblema
girandola e mulinello, alle correnti.
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- ecco, abbiamo scritto una cosa
. da aggiungere alle altre
. forse un giorno ci saliremo sopra
. e raggiungeremo lo scaffale
. dei biscotti

- o la corda

venerdì 22 gennaio 2010

radiocomando e radiografia (in punta di secolo)

i responsabili, questa volta, due (per spartirsi la colpa): io e kyuss, quando io non gli chiedo cose, e lui non mi avvisa che per l'esame è troppo tardi ma si può rimediare ed è quasi tardi anche per questo, ma non proprio, non ancora.

non siamo seri. siamo ieri.

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la macchinina, non il volume
dell'ora in cui si chiudono gli scuri
apre i fari a un rilancio, un cortile - un credo, quasi a svanire, dalla scocca -
ai metri un pistone, un barometro, la cerniera
di nebbia celebrativa, il grilletto, e sia
lo sterzo a centrifuga, sfasciato, le leghe scagliate
e scisse alla stretta delle luci, la torsione di un muro
- se l'allarme è domani, viola di sirene -
quindi i cancelli piegano un nome, un cilindro e ancora
trovo che l'oltre sia telaio e taglio di lamiera
e una valvola dove entrano a taniche, a iniezioni
per chi ne ha cura, in dosi e soglie approssimate, le frizioni
occluse fino alle maniche, alla curva magra del lunotto.

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- chiudere una poesia con "lunotto"!
- si beh, anche iniziare con macchinina è bello

giovedì 21 gennaio 2010

Saggistica post-bilancio: L' Hentai come arte della guerra

Gli occhi negli occhi affilati, un vuoto areeo che circonda la terra col cranio frantumato del sole, la protezione del caldo. Da due crocette d'inchiostro rosso lo stratega mobilita l'interesse altrove: su una patacca di sugo stantio. Non acido, proprio "stantio", come le cantine sotto il livello del male (che è proprio "male"), in trincea, le quattro di pomeriggio più lontane che si possa pensare. Processioni con i bulbi rossi, infossati dal freddo nascosto tra i nodi dei capelli; ampie direttrici crude e virili che spaventano le pupille circondate dal sangue, gli usberghi affacciati al secolo, pendenti. A volte si inorridiscono al punto di dividere la carne, il morso della bocca dirignata di un compagno. Una paura Controvento: l'apogeo della vittoria.
Dalle palizzate del monte rotolano a valle palle di fieno (è musicale: un coraggio, una noia, un'attesa..), il suono di quantità granulari si avventa sul silenzio -dagli scarponi-, un sole tintinna sulla punta della lancia arrugginita, l'armatura riflette il suono simile allo scalpiccio della gente sopra stendardi a brandelli. Criptato. I comandanti, l'esercito e quelli a cavallo, tutti con la loro criniera posticcia, sotto l'afa soffocante, che decifrano pazientemente l'incandescenza dell'aria fino alla remodulazione ASCII. Lo 0 e l'1, Questo e l'Altro -pellegrinaggio al monte Tabor-.
Sono delle liane ad unire le armi, i denti a vibrare sui cannoni quando tutto l'universo manicheo della scacchiera esplode nel cerebro di una sola pedina.
C'è un'insanità nel dolore, una supplica nello scongiuro. Anche la violenza ha la sua ellisse attorno ad infiniti mondi prima di richiamarsi all'interno dell'arena, nel casco carminio abbandonato sulla forca, nella finezza della prensione del piccolo portabandiera con i calzoni slargati. La mano lenta: un adagio dei gesti infiniti.
E arrivati iniziano il prima possibile a sventolare l'alabarda; l'importante è guardarsi poco, intuire geometrie e finesse, rasentare le delimitazioni dello spirito.
L'attimo di reciproca identificazione rispecchia un suicidio tra le carte del tempo nell'infallibilià dello stratega affannato su un piatto stracolmo di amatriciana, l'affondo della forchetta col desiderio carnale, le squame al fianco di ferite purulente che cercano istancabilmente possesso sul nemico. "Nemico" (ne-mi-co) designa tutto ciò che si vuole, uno stakeholder, il mittente di una forte pretesa e poi un'inversione di campi, rivoluzione su bianchi o gialli. A seconda di quale deserto si stia parlando.
Il contatto visivo scompare nel desiderio, diventa esso stesso pura brama, sudorazione a fior di pelle, sul filo della sega: un impeto metallico, ma lascivo. La luce soffusa fa del conturbante l'arte di apparire nascosti dalla scimmia: una coda d'ombra solleva la perpendicolare al cielo, che poi è una simbologia del sogno, uno spazio freudiano, la Venus Meretrix della morte in battaglia.
Corpi. Bisogna fracassare la testuggine così come una dolorosa penetrazione senza sensi, il muscolo che scatta ("clak", comunemente l'onomatopea viene resa con "clang"), rompe una tribolazione malsana su carta carbone -dulpicare ciò che duplica-. L'esplosione del padiglione d'oro colora lo squallore dell'alba, la genesi è giustificata dalla polvere che allinea le trame insignificanti su cui scorrono i quadricipiti disarticolati. In fondo ad ogni vicolo cieco c'è una seconda strada verticale che a volte assomiglia all'affresco stirato del tramonto, un sipario trionfale, orgasmo nella gloria. L'ombra alta della bandiera sfiora il limite del mondo -vignetta all'interno di galassie sovrapponibili- (harakiri/karakiri improvvisato: enfasi).
Io non so bene come si faccia la guerra, cioè, non mi si può chiedere un saggio sulla guerra, ma penso che presi due oranghi con un bastone in mano di possa già parlare di guerra. Però so disegnare hentai, il che in definitiva è la stessa cosa.

Lenzuola

Augusto Doreloff un giorno, mentre stirava, si ritrovò fra le mani un lenzuolo giallo molto brutto.
“Questo tessuto è davvero orrendo” disse e lo accantonò senza stirarlo.
Il giorno dopo aprì l'armadio, dovendo rifarsi il letto, per procurarsi dei teli adatti alla bisogna ma scostate le ante si ritrovò davanti, perfettamente ripiegato, un lenzuolo giallo davvero molto brutto.
“Non credo che userò mai questo orrore – disse – Non fa che occuparmi spazio, farò meglio a liberarmene” e buttò il telo nell'immondizia che poi la sera si preoccupò di andare a gettare nel cassonetto condominiale.
La mattina seguente Augusto Doreloff si svegliò con una insolita sensazione. Andò a prepararsi la colazione e si lavò senza riuscire a togliersi di dosso il senso di disagio. Quando tornò in camera per vestirsi scoprì il fattore che tanto gli causava disturbo: un orrido lenzuolo giallo attendeva senza macchie e senza pieghe sul comodino accanto al letto di essere utilizzato.
Augusto Doreloff gridò:” Non posso credere di aver comprato per questa casa una cosa così costipante! È disgustoso e chissà cosa mi sarà costato. Caverò questa cosa fuori da casa, costi quel che costi, così sono convinto che convenga.”
Afferrò dunque il lenzuolo e corse in bagno dove gettò il telo nella vasca da bagno. Poi prese dell'alcool che teneva in casa e ne impregnò il tessuto. Indi accese un fiammifero e ve lo gettò sopra.
Stette a guardare seduto sulla tazza del gabinetto finché tutto non fu ridotto in cenere e quella sera andò a dormire sereno.
Al risveglio, Augusto Doreloff si ritrovò avvolto in un terribile lenzuolo giallo. Non disse nulla e si rimise a dormire.

lunedì 4 gennaio 2010

L'orizzonte degli eventi - ovvero lo spazio è freddo, fa freddo anche qui e in ogni caso, se si grida, nessuno ci sente

Non so a voi, ma a me di rado capitano cose. L'altro giorno mi è capitato il mio nome, ma è stato un caso.

Voglio dirvi, anzitutto, che il freddo non finirà mai di sorprendermi. La fisionomia del freddo è così sporgente, pronunciata intorno alle cose e agli eventi, sbalzata fuori, piuttosto che sigillata nel loro recinto. ll freddo è, forse, un assetto delle distanze, il più ampio. (Questo spiega, ad esempio, perché la Russia è tanto lontana*).
Veniamo, però, agli eventi (prima che loro av-vengano a noi - ci si viene incontro, insomma, ben oltre il compromesso. Siamo compromessi, questo sì. Decisamente). 
Gli eventi - i famigerati eventi - discendono, io penso, direttamente dal freddo. Delle cose sappiamo, dopotutto, che non succedono, si succedono. Ereditariamente. E' possibile che la vita - né razionale né, tantomeno, razionata - sia però reazionaria. Conservatrice.
Che la vita conservi se stessa, è facile crederlo. Quanto a noi, invece: è la morte a custodirci. La morte che, infatti, ci risparmia. Non siamo noi che pensiamo alla morte (e nemmeno pensiamo la morte – ultima roccaforte della vita, giacché la morte si può solo vivere), ma la morte che pensa a noi, ci fa da badante (e noi, neppure a dirlo, sbadati).
Se esiste un evento degno di questo nome, infatti, tale evento non potrà che prodursi laddove non v'è anticipazione, né orizzonte. Non si può dare evento che non sia escluso dall'immagine, che non appartenga alla sua propria (e unica?) distanza e non abiti il suo esilio. Ed è il buco nero della morte ad appiattire ogni cosa sull'orizzonte degli eventi, a spogliare il mondo della “rappresentazione”, risparmiando giusto il fantasma del Wille – un poltergeist, ad esser precisi.
L'evento è, più compiutamente, ciò che noi non vediamo (av)venire, ciò che non dovrebbe esserci esattamente là dove non dovrebbe essere, il ribaltamento della profezia, l'impossibilità stessa della profezia e di Dio. Il clinamen, l'esitazione nella pioggia atomica, il singulto minimo della caduta. Nell'evento non siamo tanto soli, quanto ultimi (tanto è vero che esistono solo ultime ore).
L' evento non accade, l'evento cade, piomba dall'alt(r)o. Cose che capit(ol)ano. Una s-venuta (Maria Teresa), meglio ancora uno svenimento - e una sventura, anche.
L'evento non è spettrale e non è fantasmatico, l'evento non è un'epifania. L'evento è, io credo, inchiodato alla croce. E il sepolcro vuoto non è la resurrezione, ma il miracolo della scomparsa. La (s)venuta (il venir meno) che si conferma pre-matura, il sigillo di una morte precipitata. 
L'unicità degli eventi sta nel fatto che esista un solo ed unico evento. Una stessa matrice, che insiste sulla realtà e la (de)forma. Se gli eventi siano, a questo punto, una faccenda seria (come il nome dei gatti), non saprei dire. Di certo, però, gli eventi sono seriali. Come il cibo in scatola e come gli assassini.
E ancora: noi. Noi siamo visti dall'immagine (abscondita), come lo spettro di Amleto, e siamo fatti dai (mis)fatti. Soprattutto, siamo detti dalla parola. Siamo predetti, predestinati. Se il mondo reale viene meno, e così pure quello apparente, allora non siamo nel nichilismo, ma ancora nel lutto. Poiché restano le vittime (quel grido di redenzione che attraversa il cosmo di Anassimandro), le vittime sopra alla Storia e all'eternità e ad ogni ragionevole dubbio. Restano i morti, e i morti sono tutto ciò che abbiamo (io ho anche un macbook, ma non importa).
Per questo motivo non esiste evento che non sia intimamente Dresda o crocefissione (simulacro del simulacro o semplice simulacro). Intendo dire, in definitiva, che l'evento è sempre tragico, lo è strutturalmente (e necessariamente nella misura in cui, privo di aspetto, abita anche la necessità).
Non esiste, dunque, un "tempo" o un "luogo" dell'evento. Gli eventi sono sempre fuori luogo e fuori tempo (una sagoma del ritardo, se vogliamo - anche nell'accezione umoristica del termine), alla stessa maniera dell'ironia. I tempi comici sono, insomma, tremendamente affini ai tempi morti.
Abbiamo davanti, signori, il pessimismo co(s)mico.

Quello che accade - e accade continuamente (in ciò sta il miracolo) - non è altro che il freddo. E non è neppure il nostro freddo, giacché noi, del freddo, siamo incapaci. Il freddo appartiene invece ai morti, è il loro lascito. E' superfluo inferire (ed infierire), a questo punto, che questo freddo dei morti altro non è che la morte medesima. E che il freddo è osceno (\fuori) e sta intorno alle cose come un avvoltoio, ed è il modo in cui la morte si comunica e ci scomunica, ed è anche per questo che la neve è equanime e somiglia alla morte (semper eadem...).

Quindi: prendiamo oggi. Oggi, ad esempio, mi è successa la morte. Oggi e sempre. E questo, infine, è l'inverno del nostro malcontento, ed è sconfinato.

(La poesia è, in certo senso, una cronaca – “in tutto quel che faccio esiste un miscuglio di giornalismo e metafisica” - non già della "dimensione interiore", ma della dimensione anteriore. Uno sguardo all'imbuto degli eventi, al gorgo che stride. Rigorosamente in silenzio, come ad una processione funebre: muti - e d'altronde che uno sguardo parli, e magari dica qualcosa, non s'è mai visto . La poesia che non "combina" niente (neppure io!), ma è combinatoria fino allo scontro e/o all'incastro. Alle uguaglianze che, d'un tratto, si schiudono nel prodigio della divina in-differenza, nella statua che partecipa del "meriggio" fino alle estreme conseguenze, fino all'identità. L'eternità in cui "tutto è deserto",il cucchiaio in cui tutti si è ricomposto, ed è finito. E chi era, forse La Rochefoucauld, a dire: "esistere è differire la morte"? Non ricordo).

Perciò, se mi chiedono degli eventi, io non so che rispondere. A parte questo wall of text intorno agli eventi (fisicamente intorno: una presa in giro, direte voi, soprattutto Luca). Confido, comunque, che il freddo sia arrivato un po' ovunque. Anche nelle vostre stanze.
Se invece mi chiedono delle cose - e di cose-parole, allora mi trovano quantomeno "preparato" (essere preparati agli eventi, se davvero ci sono, è naturalmente impossibile).

Io sono, fondamentalmente, una persona religiosa. Poiché in profondità, dove "tutto diventa legge", non esiste abitudine che non sia liturgia.
L'abitudine è il sentimento che proviamo davanti alle cose. La fedeltà delle cose ai loro luoghi e alle nostre mappe. Un affetto, riconoscimento e riconoscenza - forse, addirittura, pietas. 
Sicché io sono davvero affetto da abitudine. E posso dire che, nell'abitudine, si vive la morte oltre la Storia, oltre la concatenazione (\catena di montaggio, serialità) degli eventi. Si vive (se diamo retta a Derrida e l'affermazione è sempre nel passato - da cui deriva che la parola è postuma) l'aldilà dei "fatti". 
E gli eventi, in ultimo, sono certamente "fatti". Fatti e finiti*.


* con tanto freddo, era impossibile non incappare in qualche freddura. Perdonatemi.

domenica 3 gennaio 2010

Una mattinata

Accarezzato dalla brezza mattutina, cullato dal rumorìo del boschetto vicino, Claudio si avvicinò con passo sicuro - e quasi solenne - al grosso faggio.
L'albero si trovava in cima ad un prato in salita, e il ragazzo ebbe da faticare, tanto che quando lo raggiunse dovette appoggiarsi al fusto per riprendere fiato.

Claudio non era esattamente in forma. Intendiamoci, non era un ciccione incommensurabile, non uno di quei fenomeni da baraccone da fast-food americano.
No, era piuttosto un rammollito. Un metabolismo nella norma, una struttura fisica altrettanto nella norma. Era stato reso soffice, solo quello, da uno stile di vita sedentario.
Che colpa ne aveva, del resto, se le corde del suo animo versatile e magmatico venivano pizzicate con tanto vigore da quelle attività che necessitano di una lampada e d'una sedia soltanto? La letteratura, in ogni sua forma, era per lui tanto concreta quanto lo era la realtà, e certamente più varia! Questo aveva constatato nei suoi diciott'anni, e davvero non ci aveva mai trovato niente di male.
Pertanto, il suo vivere era costellato di fughe virtuali impilate l'una sopra l'altra, fughe dai confini indecisi e mutevoli, che talvolta penetravano l'una nell'altra, a volte si confondevano anche con la sua vita, e di certo lo influenzavano in ogni suo gesto, a partire dalla quotidianeità.
Il termine 'fughe' trasmette forse una sfumatura inappropriata, carica di malizia e d'insoddisfazione: ma queste non tangevano l'animo di Claudio, giacché egli non percepiva alcuno iato tra le varie esperienze che s'impilavano dentro di lui, fossero esse vissute sulla pelle o dentro le fibre del suo pensiero.

Il giorno prima, Claudio si trovava nella sua casa di montagna, insieme ai nonni. Era arrivato in montagna dopo un viaggio che gli aveva occupato metà mattinata (mentre l'altra metà l'aveva trascorsa raccogliendo frutti di bosco lì, nel giardino), e se ne sarebbe andato il pomeriggio del giorno successivo. Aveva portato con sé, per ingannare il tempo, Il Barone Rampante di Italo Calvino, e lo stava leggendo davanti ad un focherello crepitante. Più o meno a metà del libro, Claudio incontrò un difetto di stampa, tale che tutti i quarti successivi erano parte di un altro libro. Un po' infastidito da quell'errore, Claudio chiuse il libro e lo poggiò sul tavolino, sbuffando. Quella situazione gli ricordò allora l'analogo difetto di stampa in cui incappò il 'protagonista' di Se una notte d'inverno un viaggiatore, dello stesso autore del libro che stava leggendo. A differenza sua, tuttavia, Claudio non era in condizione di raggiungere la libreria per farsi cambiare il volume. Sorrise, incrociò le braccia e posò lo sguardo sul fuoco. Le lingue colorate di quest'ultimo l'avevano sempre affascinato, e anche oggi catturarono la sua attenzione per il modo in cui danzavano nell'aria e si proiettavano verso l'alto, per lo scoppiettare delle pigne che erano state lanciate nel camino ad alimentare le fiamme, per via di quella luminosità cangiante e instabile.
Ritrovava, nel fuoco, se stesso: la sua mente leggera, tanto da sollevarsi verso l'alto, e duttile, tanto da fondere ricordi, sensazioni e riflessioni ad ogni nuovo respiro. Ciò che accadde anche allora, tanto che la lettura interrotta poco prima risvegliò in lui il ricordo del faggio su cui a sei o sette anni d'età era uso arrampicarsi. Il tepore delle fiamme diradò allora una foschia di vecchi ricordi, quel bagaglio d'infanzia felice che era suo e suo soltanto, cui si abbandonò dolcemente. Fu forse lo scoppio improvviso d'una pigna, che lo fece sobbalzare, a scombussolare i suoi pensieri ed il suo umore, e per questo se n'accorse: desiderava arrampicarsi su quell'albero ancora una volta. Era certo una persona diversa dal bambino d'un tempo, ma quel pensiero diventò un chiodo fisso fino al termine della giornata, e una volta al buio sotto le coperte, nella cameretta che era sua da sempre, decise che al risveglio sarebbe salito sul faggio.

Ed eccolo a riprendere fiato appoggiato alla corteccia, in parte intagliata da innamorati d'altri tempi. Sollevò il capo e volse lo sguardo tra le fronde rigogliose, attraverso le quali s'infiltravano raggi di sole ancora giovani. Claudio si fece coraggio, sollevò la gamba ed appoggiò il piede su una sporgenza all'altezza del suo stomaco, fece un leggero balzo col piede rimasto a terra e s'aggrappò con le mani ad un ramo molto robusto proprio sopra la sua testa. Appoggiò sulla stabile sporgenza anche l'altro piede, e quando si sentì sicuro alzò di nuovo una gamba - tenendo ben stretto il ramo - e spostò il corpo in cima alla parte principale del fusto (all'altezza di circa un metro e ottanta), da cui gettavano tutti i rami più robusti. Uno di essi si diramava ulteriormente in un ramo ancora molto robusto, e per questo Claudio lo scelse per continuare l'arrampicata. Le mani gli tremavano un po', per una leggera emozione o forse per lo sforzo, ma riuscì velocemente a raggiungere il ramo appoggiandosi a molti altri e con non eccessiva fatica (l'albero era molto adatto alla 'scalata'). Si trovava già molto in alto, quindi si sedette lì dove era arrivato e rivolse gli occhi verso la valle del Casentino, che l'aria vitrea permetteva quel giorno di apprezzare pienamente. Il suo sguardo volò su quei paesini, poi sui vasti boschi, sulle curve dolci dei colli, su quelle più dure di alcune montagne lontane, sul candore delle poche soffici nuvole, e si posò infine sulla propria casetta, a poche decine di metri da lì, che veniva amabilmente incorniciata dalle fronde da cui gettava lo sguardo.
Annegando in un mare di gioia e nostalgia, Claudio si accorse che la casa su cui posava gli occhi non era semplicemente una casa: era la fonte, la matrice, da cui tutto ciò che suscitava in lui quelle sensazioni aveva attinto negli anni. Solo allora gli apparve con tanta chiarezza, fu un'epifania così vigorosa da immobilizzarlo e struggerlo. Si accorgeva che su quell'albero ci si era arrampicato innumerevoli volte, sfogliando pagine e fotogrammi partoriti da menti lontane nel tempo e nello spazio. Apprendeva che quella casetta di montagna, quel suo posto delle fragole, era conficcato tanto in profondità nella sua anima da poterlo definire una parte di lui. Visse per pochi istanti sulla pelle una sorta di panismo dannunziano, si sentì albero e monte ed erba e casa. Poi, quell'accesso epifanico di forti emozioni scemò, e Claudio, con un sospiro, sintetizzò il suo stato d'animo in un sorriso, che fu poi digerito e rasserenò il resto della giornata.

Scese dall'albero e rincasò.
Prese un foglio e una penna dalla scrivania del nonno e scrisse un testo identico a questo.