venerdì 31 luglio 2009

Il vento di Meteomicrone

Caro Aristandro, in questo momento se la persona che più sento vicina, l'unica a cui potrei indirizzare questa lettera.
È un momento molto difficile, il mio, desidero metterti a conoscenza di un segreto che mi porto dietro da molti anni ormai, e che da qualche giorno mi causa particolari e gravissimi problemi. Ti prego dunque di leggere questa mia lettera con la dovuta attenzione.
Devi sapere, caro Aristandro, che i miei piriti bucano i tessuti. È esattamente così, sicuramente non te ne sarai accorto poiché ho avuto molta cura di tenere la cosa nascosta, soprattutto alle persone che più mi stavano a cuore. Non ho dubbi che la cosa possa tuttavia risultarti assai strana, per cui procederò per gradi, ti narrerò innanzitutto di come si manifestò la prima volta in me questa particolarità, poni attenzione.
Ero allora giovane di sedici anni, l'età ormai definibile come lontana quando il primo avanzare dei veri sentimenti li rende imprevedibili, esotici e possenti come le mandrie che corrono in quelle lontane praterie di cui già parlammo talvolta. Anche io, per l'appunto, ero stato travolto dalla carica di queste tenaci emozioni e mi azzardavo per la prima volta a placarle portandole a dissetarsi a quell'abbeveratoio che doveva essere Pressimene, mia dolce amica già dalla tenera infanzia. Avendola dunque già frequentata da parecchio tempo ed essendo molto in confidenza con lei presi rapidamente la decisione ed essendo anche piuttosto, per l'età, inesperto nel daffarsi, decisi parimenti di non perdermi troppo nei corteggiamenti e di presentarmi celere alla fanciulla nella mia vera forma di desiderio.
Ora, quando anche tu certamente ti sarai ritrovato a manifestare per la prima volta il tuo desiderio all'oggetto tuo, ricorderai come avviene una grande emozione, quasi un groppo di varie tonnellate posato sulla schiena che impedisce molto facilmente di spiccicare parola. Ecco, io riuscii a superar l'ostacolo e le cominciai a parlare come ero solito fare, tuttavia mantenendo sia gli intenti che le difficoltà. Ad un certo punto del discorso, mentre sto per decidermi a sbrogliare il nodo, per la forte apprensione veloce ma silenzioso mi sfugge un pirito. Eravamo all'aperto e si passeggiava lungo un vialetto di campagna abbastanza solitario dunque non mi preoccupai più di tanto della cosa, anche perché ero molto concentrato sulle parole da dire quando, per seguire il moto di un uccello in volo, Pressimene si volta indietro e con sorpresa osserva che per terra, dietro di noi, ci sono dei brandelli di stoffa ove poco prima v'era solo polverosa ghiaia!
Non c'è bisogno che t'interroghi, erano si stoffe provenienti dai miei pantaloni, e non ci volle molto perché Pressimene se ne accorgesse, con mia grande sorpresa e ancor mia più grande angoscia. Non ti racconto nei dettagli i momenti successivi, poiché provo ancora una grande vergogna nel ricordarli. Ti basti sapere che da quel giorno ogni mia flatulenza mi è costata un ricambio di biancheria.
Col tempo, già prima di conoscerti, imparai a studiare la frequenza di queste fuoriuscite, la loro aggressività nei confronti dei diversi tessuti e pian piano riuscii ad adattarmi alla cosa. Devi sapere dunque che io sono ben più magro di come mi conosci, poiché indosso infatti costantemente sette mutandoni di lana invernale sotto i pantaloni, e ciò è causa anche di quei “problemi miei di abbondante sudorazione” di cui spesso sono stato costretto a raccontarti mentendo. Non prendermi adesso come un bugiardo degno di disprezzo, era in fondo una cosa piuttosto imbarazzante ed effettivamente non necessaria alla nostra frequentazione. In ogni caso desidero chiederti scusa, anche perché ora vorrei chiudere questa premessa che va dilungandosi anche troppo cascandomi giù da gradini stilistici.
Dopo la spiacevole vicenda avuta con Pressimene non provai più ad avere relazioni approfondite con coloro verso cui nutrivo interesse, un po' per paura ed un po' perché ero preoccupato maggiormente dal problema dei buchi, alla fine mi ritrovai abituato alla situazione mia solitaria. Due giorni fa, in mattinata, mi ritrovai tuttavia ad un appuntamento con una donna molto simpatica da me conosciuta in teatro. Difficilmente potrai conoscerla, si chiama Esticontrona e talvolta recita per diletto in quelle commediuole che gli attori di scarso successo fanno interpretare per mangiare persino ad attori non professionisti come lei. A dire il vero non era la prima volta che mi vedevo con questa signorina, ma era accaduto sempre assieme ad altre persone e da pate mia non v'era mai stato un particolare interesse nei suoi confronti, almeno fino a quando, tre giorni fa, non ricevetti un invito da parte di Esticontrona per vederci, noi due da soli, in mattinata per prendere un caffè, farsi una passeggiata e, soprattutto, farsi quattro chiacchiere e divertirsi un po'. Nonostante non ci fosse nulla di particolarmente sconvolgente fui turbato parecchio da quell'invito (come avrai intuito il mio animo non è abituato affatto nel trovarsi solo al cospetto di una ragazza) e tuttavia accettai, non riuscendo per la restante parte del giorno a far altro che pensieri sempre più approfonditi su Esticontrona, tanto che arrivai all'appuntamento della mattina successiva molto teso ed agitato, indubbiamente pieno d'emozioni.
E ora capisco, ahimè, la causa del mio male! Appena cerca di parlare di qualcosa con Esticontrona eco prorompere dal basso della mia schiena un fragoroso rumore come tuono di temporale, e non come la prima volta, ma stavolta molto intensamente, sento i sette mutandoni di lana e i pantaloni strapparsi uno ad uno come si sfracellano i pontili posti dentro a un nubifragio! Non ho mai vissuto una vergogna simile, fu come se quell'attimo durasse ore, come se il rumore rimbombasse e si riproducesse con echi, ed alla fine eccomi lì, al centro della via di fronte al bar più frequentato con i pantaloni e sette mutande di lana sbrindellate e penzolanti, con ogni singola pupilla puntata su di me!
Anche Esticondrona mi guardava con il viso deformato dallo sgomento, ma subito, sia maledetto il suo essere uno spirito felice, essa non resistette al proprio animo e dalla deformazione dello stupore passò allo stupore della risata ed assieme a lei il viale intero. Fuggii e da quella mattina sono due giorni che sono chiuso in casa senza uscire né vedere nessuno, solo con le mie flatulenze che ora non smettono un solo istante di rumoreggiare tempestosamente. Già quattro volte i vicini sono venuti a bussare curiosi ed io li ho scacciati via malamente, accompagnato dal solito e orribile rombo.
Ora mi ritrovo a scriverti questa mia, Aristandro, perché ho bisogno di prendere una decisione. Aspetterò il prossimo passaggio dei vicini e chiederò loro di imbucare per me questa lettera, dopodiché andrò ad appendere una delle robuste corde che tengo in casa alla trave del mio soffitto e mediterò se sia o meno il caso di porre fine a questa mia sfortunata e ventilata vita. Ti prego dunque, quando avrai ricevuto e letto questa mia missiva, di porre pausa ai tuoi affari e precipitarti qui da me. Se mi sarò cascato giù con la corda appeso, avrò bisogno di qualcuno che mi tiri giù e mi organizzi un modesto funerale, e vorrei chiedere a te d'assumerti questo spiacevole onere. Se invece avrò giudicato cattiva questa idea che ora vengo d' illustrarti, avrò probabilmente bisogno di qualcuno che mi consoli e che mi tenga compagnia recando con se un paio di damigiane di quel buon vino che tu conosci tanto bene.

Grazie,

Tuo Meteomicrone.

giovedì 30 luglio 2009

La pelle dipinta (variazioni su un tema di Pu Songling)

A Taiyuan viveva un uomo chiamato Wang. Una mattina stava passeggiando quando incontrò una giovane donna con un fagotto in mano che camminava di fretta, da sola, sulla strada. Dato che si muoveva con una certa difficoltà, Wang accelerò il passo e riuscì a raggiungerla. Scoprì che era una bella ragazza, di circa sedici anni.

Ai racconti popolari
dobbiamo un tributo:
ci nascondono i vasi da notte
e le risposte, follie.
Ma delle pietre
fanno orologi, dighe;
del sangue, mattini.

Il tuo consiglio è blando,
cauto perorare
"con le ginocchia della mente inchine"
scandagli un vago approdare,
ti dividi in aria.

Guardando dalla finestra della biblioteca, Wang vide un demone terribile, con la faccia verde e i denti affilati, tendere una pelle umana sopra il letto e dipingerla con un pennello. Il demone infine buttò via il pennello, scosse la pelle e se la mise sulle spalle come se fosse un cappotto, ed ecco! Era proprio lui, la ragazza.

Del tuo itinerario
salvo tutto, fuorché il Tempo:
i tuoi secoli non hanno peso,
nè fronde. E' una forma
la tua lanterna, il tuo amuleto,
aria divina.

La ragazza fece a pezzi lo scacciamosche, sfondò la porta e corse verso il letto, dove squartò Wang e ne estrasse il cuore pulsante, con il quale se ne andò. La moglie si mise ad urlare, ed entrarono i servi con una candela; ma Wang era già morto e la sua carcassa costituiva il più miserevole degli spettacoli. Il sangue schizzava ovunque dalla cavità nel suo petto.

Ed è con un lancio di monete
di bronzo, con le ossa di tartaruga
che i tuoi vaticini sospirano,
piovono enigmi e il sogno non collima
si perde, come uno spillo.

domenica 19 luglio 2009

La grattugia di Turi Zampene

Prosegue

Quando questa mattina mi sono svegliato ho subito sentito suonare alla porta. Le malelingue potrebbero asserire che invece io mi sia svegliato proprio perché stava suonando la porta, e che non fosse mattina, ma fossero passate già le quattro del pomeriggio e anche, potrebbero asserire, che quel poveretto che suonava fosse stato li ad aspettare più di mezz'ora. Ma non è vero. In primo luogo, questa gente a cui piace tanto parlare è solita far terminare la mattina alle undici, mentre tutti sanno che essa è di molto più larghi confini. In secondo luogo, colui che suonava dietro la porta non era affatto un poveretto. Era invece Turi Zampene, che la gran parte di voi sicuramente avrà avuto modo di conoscere in qualche sgradevole occasione. Quest'uomo, che si diletta nel commercio dei salumi, dicevo, mi aspettava dietro la porta, e quando gli aprii ancora lo trovai a suonare mollemente il campanello con aria vagamente annoiata.
“Che ti succede, Turi? - gli chiesi, vedendo che sulle spalle portava uno zaino dalle dimensioni abbastanza preoccupanti.
Zampene si aggiustò i capelli e si fece accomodare nell'ingresso.
“Oh, Aristandro, nulla di che... passavo.
Turi, che conobbi all'età di ventisette anni, è un uomo infido. Dopo che gli ebbi aperto la porta e lo ebbi fatto accomodare in casa mia si tolse il suo grosso zaino dalle spalle e, posatolo a terra, ne estrasse una grande forma di parmigiano ed un certo numero di grattugie.
Turi era un uomo pratico, si arrotolò le maniche della camicia, si prese una sedia e vi si sedette sopra, mentre dalla porta ancora aperta entravano suoi uomini recando carriole e formaggi. Gli uomini entravano, depositavano le forme e riuscivano, portandosi dietro le carriole. Uno di questi si tirò via anche le tende. In tutto questo Turi si adoperava per grattugiare tutti i formaggi che gli venivano portati e mentre grattugiava sudava e i lunghi capelli gli ricadevano dalle spalle davanti gli occhi.
Fuori dalle finestre, in strada, un inopportuno gruppo di giovanotti cantava i cori dell'armata rossa e ben presto Zampene si accodò con grande spirito, sempre continuando a grattugiare.
Mi resi conto che non potevo oppormi alla situazione e me ne andai in cucina, pensando a quanto fossi fortunato a non essere amico di Turi Zampene.
Sul tavolo della cucina erano casualmente posati dei fogli e mi venne voglia di scrivere, ma non trovavo nessuna penna. È una cosa che di solito mi irrita molto, ma lì per lì non me la presi, anzi, andai anche ad aprire il frigorifero sorridendo e facendo qualche battuta sorniona sugli avvocati.
Ora, qui tuttavia ho delle difficoltà a continuare. Del resto , chi non ne avrebbe se, mentre si sta cercando una penna a sfera si vede del parmigiano grattugiato entrare lentamente dalla porta della stanza? Fu quello che vidi io. Era Turi, che in salotto aveva continuato a grattugiare formaggio e che ne grattugiava ancora adesso, ridendo come un folle. Solo, non aveva ancora toccato la forma di parmigiano tirata fuori dallo zaino.
“Turi! Turi, santo cielo! - esclamai mentre avanzavo per il salone ormai totalmente ricoperto di grattugiato – Turi, mi dispiace molto ma debbo lasciarti, tornerò più tardi.
Indossai il cappotto ed ero indeciso se portarmi o meno anche il bastone, ma una risata di Zampene mi risolse e presi con me quello sormontato dalla testa di un caprone. Mentre ero impegnato a salutare sotto l'arco della porta, venni urtato da uno degli uomini di Zampene che usciva con la carriola e fu una fortuna, perché ero molto imbarazzato.

venerdì 10 luglio 2009

L'ho vista spegnersi

L'ho vista spegnersi, mai avrei creduto che dopo tale vista, ancora fosse possibile fermare tale scempio, forse non sarò un letterato, uno scriteriato o un curiato, ma sicuramente sono uno smagliato, vuoi per il peso del tempo, chi dice per il peso del corpo, ma ne sono convinto, nulla dopo quello a cui ho assistito, mi apparirà come prima.

Era le 23 circa, io ed il mio migliore amico immaginario vivente che abbia mai conosciuto (da ora in poi maivcamc), stavamo ripetendo un pò di inglese (in quanto saremmo partiti per un viaggio immaginario alla volta del Giappone, e mai avremmo voluto farci trovare impreparati a tale evenienza), imponendoci di parlare solo nella lingua di albione quando qualcosa attirò la nostra attenzione, un articolo su wikipedia che parlava del meteorismo.
Avemmo la folgorazione, applicare il meteorismo di cui soffriva da quel momento maivcamc ed applicarlo ad un accendino d'oro (quelli di plastica non li prendemmo in considerazione, perché maivcamc ne aveva una strana fobia, del tipo "ti mangiano gli occhi!"), quindi aprii leggermente la cerniera della mia tasc segreta nascosta nei boxer (altra cosa strana di maivcamc era l'allergia alla forma delle mutande) dove nascondevo l'accendino di oro (non era d'oro, ma del mio amico oro sfaceli, ma tanto cosa ne capisce maivcamc!), lo presi, lo accesi e maivcamc fece partire il colpo sacro del meteorismo delta (quello alpha era poco potente, il beta fu presto abbandonato a favore del delta, il gamma era troppo poco sperimentato per esserne sicuri, ci limitammo quindi).

Ho aperto gli occhi, non ho scampo.

giovedì 9 luglio 2009

verso il cadere

io ci credo ancora
a questo domani di polveri
e pietra, accolto nel suo cigolio di mani
fra le colpe dei fossili, nei denti
che hanno il volto del buio
(barbagli di voce, nomi
disseccati

ritrovati d’ istanti
a scomparsa, imminenze
e correnti, trincee di cielo
e diamanti di case)

solo porte d’inverno, più avanti;
mascelle d’asfalto dai parafanghi
d’acciaio (non immane rugiada,
non bagliori di rame)

ripenso agli odori, alla foga
di quei passaggi ad ossa nude,
se siamo schegge di muro
fra le finestre e nient’altro

(è tutto vero, ma l’ombra è ancora lunga,
ed è troppo questo crinale
per dire
che la colpa è
il vento)

domenica 5 luglio 2009

#12

Mentre la carcassa del giullare rinverdiva le ginestre per cinque minuti, le attese dei folletti e degli gnomi si allungavano di qualche manciata di vite.
La nonna raccontava che ogni angstrom del suo corpo era ricoperto di macchie, ma a me interessava poco.
A breve sarebbe cominciato il cartone animato dei Pokémon, e l'emozione era tanta che avrei dovuto chiamare un compagno di classe per cantare la sigla.
Durante i titoli di coda, dieci anni dopo, stavo accarezzando la mia cagnolina invecchiata, mangiavo le fragole di bosco della casa di montagna mentre quella correva intorno, e ansimava così forte che mi sono ritrovato al funerale di mia nonna, la dalmata, a consolare la sorella che mi singhiozza sulla spalla.
Quante volte sono fiorite e sfiorite le ginestre, da quando il sudore mi incollava la cornetta all'orecchio, in un apice di entusiasmo che presagiva un futuro di sconfitte?
Di fiori così brutti mi interessa così tanto... eppure, le maglie offuscate registrano qualcosa: un Pinocchio di 16 metri, conficcato nell'asola del gilet della memoria, i cui taschini sono pieni di canzoncine e il cui colore, cangiante, mi inganna da secoli.
E questo cane, che non è ancora morto, ha già un suo epitaffio, e mi chiedo se sia poi così sbagliato:
Morta Dorina è qui: l'irata Dea
La trafisse de' boschi, a sdegno mossa
Perchè in beltade i cani suoi vincea.
Ma l'ora si fa tarda, e non posso certo perdermi la puntata in cui Ash deve dare l'addio a Butterfree ed è così commovente quando piange e sorride guardando verso l'orizzonte, al tramonto.

Antilogia dell'attrito

Si potrebbe dire
"nel ventre del convivio"
un ospite: l'angelo di ferro
templi amati - materia - crocifigge;

seguendo la fase
di coibentazione delle assi
crescono agli innesti i sedimenti,
le schegge eretiche, chiodi

superstiti madri
si guardano, inermi
spezzano antenne, e cablaggi,
nelle ultime notti

(noi caduti, a ogni nuova luna)

il sacrificio
a Penelope: in ordine,
sorda e sconfitta,
poliandrofaga muta,
tarantata - salvezza -
tremante subisce

Palinsesti. E il Suo brando
in apologo, ad misericordiam!

linea alba

Seigneur, quant froide est la prairie,

dopo aver visto mirande cose passare

dalle campagne elettorali, alle stazioni

inerti sotto ai treni, agli stabili deserti,

balneari (disobbedienza alla produzione

di segni, all’emissione vacanziera):


un problema di mensure, uno sgomento

differente, flesso all’occasione divisoria;

il cartongesso alle corde, in colonna

assieme alle prenotazioni, oltre

l’apparente garbo delle cose:


si mette mano alle danze, alla differita del passo;

ci si nutre di scorci, sugli stipiti

in fuga dai paesaggi rovesciati,

discesi dai disordini dell’aria:


usciamo sempre attraverso i vetri, sugli svolazzi di buio,

nuotando protesi allo scatto, vòlti al sudario che tempra quest’aria;

siamo l'odore delle chiavi di casa, sopra un confine a specchio

(o chissà dove):


oggi lasciate andare le lacrime

cadute, ghermite dall'utero del tempo,

sull'indugio di rampicanti inadatti:


si scrostano le serrande abbassate, sugli orizzonti dopo, sotto i ritratti:

vibratile inerzia questa veglia, presenze del mattino.

Zur Seinsfrage

Capita che i morti tornino, come un'inondazione. Li si vede allora sbucare dalle campagne, dalle acque, dalle lunghe ombre attorno alle strade. Hanno braccia e mani affilatissime, un collo sbilenco e, proprio sotto lo sterno, tre o quattro tasche scucite. Hanno, a dir la verità, anche un paio di gambe e certi altri dettagli, ma comunque pochissimo di umano. Non ci somigliano. Ricordano, piuttosto, la sagoma sottile dei lampioni, e come i lampioni hanno un alone stanco, e un'aria rassegnata, e un ordine segreto. A volte svaniscono dopo qualche passo appena. Altre volte, invece, continuano il cammino, si radunano in antichissime sale, negli atri ciechi delle scuole, attorno ai davanzali, nei nostri corridoi.
Si dispongono in cerchio e poi convergono, uniti, fino a schiacciare le direzioni. Quando sono tutti premuti nello stesso luogo si intersecano, si sovrappongono, e alla fine non si distinguono più l'uno dall'altro. Così, raccolti, sembrano reggere ogni spazio, incrociare i marciapiedi infiniti, la luce dei fari, le discese ripidissime e tutte le curve. Abbinano gli oggetti, li combinano, saldano un punto di fuga. Io non conosco, però, le loro formule, i loro codici. Né so dirvi che altro accade.
E' possibile che i morti abbiano un mestiere, e che ritornino proprio per questo. Che a un certo punto siano scossi dal sonno per un'anomalia dei ponti, perché i nessi resistono a fatica. Il mondo si incrina, le cose sfumano, tutto diventa vapore. E allora vengono i morti, come un vento gelido, e salvano la logica, riallacciano i legami. Arrivano alle cose -a tutte le cose- e le prosciugano. Quando ritornano il mondo si fa sottile, i volumi evaporano, i lampioni si accartocciano, le strade si stringono ed io divento un poco più triste.

Vedete, io non dormo molto, e così mi è successo. Mi è successo di avvistare i morti, a piccoli gruppi, e spesso ho temuto di vederli entrare dalla finestra aperta, lentissimi, in processione. A quel punto mi sono sempre addormentato.
Per questo motivo ho una mia teoria, su di loro. Io credo che i morti accerchino le nostre stanze, i nostri letti. Viene un momento in cui tutto sta per crollare, e allora salgono dalle piastrelle, calano dal soffitto, come un sonno sconfinato. Ed è questo che fanno: chiudono i minuti, aggiustano le valvole esplose del sonno.

A volte, di notte, si sente come un canto, un inno infuso nelle pareti. Io vi dico che questo canto è il canto dei morti e che, se fate attenzione, lungo certe ore, potrete sentirlo anche voi.

venerdì 3 luglio 2009

Mediterranee, una specie

La luna è coperta di foschia, il garbino soffia da due giorni. Domani pioverà. Grosse gocce d’acqua con un tonfo sordo, turberanno il Foglia e la sua calma stagnante (paludoso dai tempi di Catullo, di Marco Fulvio Nobiliore). Ma l’ieri e il domani sono sogni ugualmente archeologici; il garbino non s’interessa di loro.

Tutto questo per dire che anche la parola spesso cede; si arrestano i suoi flutti, si abbandona, al suono delle secche (gioco di vento pigro e canne): è triste come il dormire al sole, dopo pranzo sulla spiaggia, l’amore.

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Nel sonno cadi con la pronta fiducia del mistico; a volte stai parlando e la voce impercettibilmente sfuma, verso il respiro, il silenzio. Come fa questa prosa pacatamente compiaciuta di sé.

Non è un sonno platonico: lo ricorda il calore del tuo corpo, il movimento leggero e costante, nell’avanzare e ritirarsi del diaframma. Non è neppure la coscienza che si cela, anzi traspare: nel calcolo nottambulo del tuo avvicinarsi, allontanarsi, condividere, lo stretto spazio di un letto a una piazza.

Piuttosto è il sogno di veder agitarsi sulla pelle nuda il tuo ritratto; com’è di giorno nell’acqua immobile e bianca del mare.

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La sabbia si ammonta in dune, a fianco dei camion che l’hanno scaricata. Sulla spiaggia: un lembo sospeso a fronte del mare che già ambisce a lambire i marciapiede, le auto parcheggiate. La stessa sabbia che tra un mese, coprirà la propria indifferenza di turisti, e stagnante, come questa parola usurata, fingerà di essere maggiore alla sua compagna che riempie, ingorga le clessidre. E suggerirà al più innocentemente naif che la vita è bella, perché si può dormire al sole.

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Nei giorni d’aria tersa e opprimente, l’orizzonte si confonde col mare. Così che le vele, le piccole imbarcazioni che si scorgono dalla spiaggia, si tingono del colore di una duplice inesistenza. Illusione ottica dell’orizzonte, del cielo che preme, disperdendo tutto il suo goffo peso sugli scogli, e impossibilità di vedervi oltre per chi, sdraiato, non sa nuotare e annaspa tra le metafore.

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La luce estiva è tutt’uno al calore. Un senso di pesantezza dei sensi, prima che l’apparire sotto forma di miopia; una generale stanchezza dell’aria, come l’oro col tempo scurito delle icone, l’aria immobile del rinascimento. Alla sabbia si confonde la polvere dei musei. Ma se tutto oscura e tutto chiarisce, nel pieno giorno della sua oscurità, non è cruda, come aridamente si dice; ma ha il troppo chiaro e dolce delle convalescenze. Il mare che si riversa sulla battigia è il pensiero fermo che ristagna, la lingua; il troppo caldo fa sì che svapori, in epistassi.

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Tutta l’aridità delle marine.

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La baia vista dall’alto, dai tornanti della strada panoramica, ha profilo da fotografia, svanisce, nei contorni del suo antico nome romano. Al tramonto, la luce del sole riverbera sul mare, che occupa, oltre l’est, il settentrione, e la confonde all’ideale della sua bellezza; o la dissolve nell’espressionismo di una malinconia di De Chirico, strappata alle tortuosità della sua intelligenza e ricondotta alla propria origine, marina e greca.

Un colore concreto, come un riposo della materia. E concreto è avvicinarsi alla spiaggia; si coglie allora realmente il fiume e il sapore della sua acqua salmastra, il senso degli sterpi e dell’erba che toccano la riva, e quello dei palazzi grigi e popolari.

Se il sole coi suoi ultimi abbagli tenta ancora di confondere i pochi turisti, unici che occupano la spiaggia, ingannati da un depliant, un albergo, il suo basso costo, con l’impressione che il paesaggio vanisca nell’immobilità, che i giochi dei bambini arrugginiti procedano da epoche romane, al punto di chiedersi dove inizi, finisca, la realtà del quadro, le conchiglie della battigia non spazzata, c’è così poca gente che spesso non vale la fatica, incagliandosi al tallone nudo, cancellano ottusamente ogni dubbio filosofico.

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I pensieri, i mosconi e le parole ronzano, cozzano, e ottusamente muoiono, sul davanzale in pieno sole.

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Nei giorni in cui il cielo è troppo turchese, il sole a fatica concede i minuti, e troppo avidamente, poi, brucia i meriggi…

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Gli uccelli che si sporgono dai rami degli alberi del viale, a due passi dal mare, per la calura non cantano, si disperdono in monotoni e inesausti gorgheggi.

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Nelle borse della bici i sassi, raccolti l’altra estate a riva per il loro nitore, come panni vecchi, hanno stinto. Lasciando imbiancate le borse, il loro interno, si sono fatti, come parole, imperfettamente rossi e neri.

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I lavori alla stazione non finiscono più. Iniziati con quest’afa, sembra che le ruspe si sfiniscano, a trasportare ed ammontare, avanti e indietro la terra arida.

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A volte a rimescolare, l’acqua torbida guizza, un pesce o una rana, comunque una opaca macchia di colore. E non dura, né qualcuno vorrebbe da più vicino sapere, a cosa appartiene quel debole baluginio. Pure quel guizzo. Starebbe bene, sulla tela di un pittore, se di figurativi ne esistono ancora.

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La poesia è fluviale e come un fiume
cancella scorrendo le sue tracce:
né v’è rigagnolo, per quanto stagnante,
che non abbia
il suo salto,
fosse pure artificiale; persino il Foglia
ha le sue cascatelle dov’è il ponte del treno
e la gente va a pescare.