E perciò il tiro, lo scoppio
la garza mite che annoda
e assolve - il timpano, un riflusso di cloro.
Ci basta il fondo, il tifone
spuntato in solaio - lo schianto
delle chiavi, nella toppa. Le città (se le finestre)
come onde di sale, il silicio impennato, le travi
- e non può scendere.
Il piombo vuole prima il punto euclideo, poi la carezza
di un vecchio - infine, sui laghi, distrutto - l'ammaraggio acceso
nel buio, la casa, la fame
annientata – non c'è tregua se chiudi gli occhi
e la stanza non vuole, si muove – se ogni cosa è viva
sulle zampe. (Il patto è sceso qui, tra noi,
in punta di freni).
Perciò ora è una fine, da occhi
di murena: tutto ciò che passa
è buono – se non si ferma - non la velina
sulle colpe, la copia carbone del sangue
schiantato – ma la scorciatoia delle pupille,
una tana di anguilla.
E allora, se le cose cadono, è per colpirci
come divinità cartesiane, un mulino
– poi Epicuro ride, ai bordi - e non smette
da quando è morto.
E' tanto triste: questi giorni, le funi, e nemmeno un gatto
che ci accompagni.
venerdì 4 settembre 2009
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l'epilogo di korfendauerniana memoria chiosa perfettamente l'appropinquarsi alla fine, tema caro all'allodola sanremese ma trattato sempre con ironia ed eleganza.
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