mercoledì 30 dicembre 2009

Gli impagliati

Le dominazioni, e le potenze.


“Qual è, dunque, quella piccola?”
“Il dolore.”
“Il dolore? Possibile che sia cosí importante... in questo caso?”
(cit)


E' un determinato numero di chiardiluna a scandire la foschia.Sale l'ululato monotono delle pale che stanno alla propria traiettoria (non come le gocce di pioggia), si spande per divaricazioni filiformi, è la solitudine collettiva incipriata di luna. Le mosche nel tempo, nessun amore sprecato, ma la vita si. Non sapere che ricordare significa vivere all'indietro.Le costellazioni si alternano secondo i ritmi di un astrolabio d'oro. E dov'è il motore immobile? La campagna si prostra al ronzio della meccanica, le colline incupiscono prevedendo l'intima ripercussione, l'efflato violento di un'orma mattiniera pronta a ferire la delicata superficie erbosa. Poi la lama che fende una valle di lacrime. I fori dei suoi occhi bucano il cielo, un fascio malformato di rette spezzate, l'aborto della geometria nella dominazione campestre, un brutto sogno attraversa il campo senza pensare. E lo spaventapasseri ride. La visiera calata fino alla disturbante posizione di un naso dovuto, ma dimenticato a dovere.A differenza degli uomini con il naso i baubau impagliati hanno un pudore naturale a cui fa testimonianza spiacevole un pessimo e sempiterno vestiario sgualcito dall'estate passata, da quella dopo, senza alcuna differenza. La rovina è la rovina, non importa quanto sia ingente il danno, chi rompe paga. Un corvo svampito gli si posa sul cappello ingiallito, duplice insulto alla natura e alla dignità annerito da un'imperfezione nella purezza delle metafore. Il fallimento di un processo, l'incongruenza sottile di una svista lasciata sul bordo dell'infinito, il sonno appassionato di due ali ripiegate sul mostro ed un disprezzo immobile incuneato nel disprezzo cosmico. A questi livelli l'impotenza si moltiplica perpetrando una duplicazione vettoriale, l'identità (e l'ideologia) che di nulla si può fare altrimenti e che il giudizio rifugga un contatto incompleto come la spedizione su una retta infinita. Fedeli all'essenza ci si prefigge il raggiungimento di menomazioni posizionate all'ingresso dell'attimo a venire, esistono paesaggi inconsueti sotto lo sguardo inceneritore del sole, rarità elargite dal futurismo galattico, gridi particolarmente forti e sordità particolarmente impenetrabili.Sentire il grano che spalleggia; c'è un'eleganza nel preservare il tutto dal nostro grido, anche una stupidità. Le tenebre rivestono con analoga premura la fragilità delle capocchie rivolte all'ingiù con l'offesa silenziosa tra debolezze affiancate dal disturbo. Una civetta che vola di giorno muta lo spavento in affetto, qualche insetto divora l'organicità del tempo, ma prima o poi, se non si è pietrificati dal gelo si vola via. Le pietre singolari sono preziose quanto fragili, l'incanto del mondo si mantiene per un periodo condecente alla genetica. Forse allora la cosa peggiore è che qui fa freddo. Sotto le lastre sovrapposte del terreno esistono delle sospensioni puntiformi separate dal passato, l'abbondanza con la penuria oggi lamentano una neve immensa. Lo scricchiolio di una piccola fuga congelata abbraccia l'affanno della paglia cristallizzando simulacri fuori dal tempo, il licenziamento dei controllori impagliati a cui una sterilità cinerea dei campi suggerisce la crocefissione. E il cielo e la terra si dividono uno spartito di convocazioni ugualmente trascurato, inetto, dove la vita si è disposta alla maniera della morte.

domenica 27 dicembre 2009

Una partecipazione onerosa

Una partecipazione onerosa

E si perdono i denti,
e si perdono gli occhi
ad urtare
contro l'identicità
dei versi.

Compatire chi
per primo nota
la rugiada e non
le urla della vegetazione

(un tornaconto per vivere).

lunedì 21 dicembre 2009

La dignità del braccio fratturato

Liberalo dallo scendere nel sepolcro,

io ho trovato il riscatto [Giobbe, 33, 24]

Spesso mi sono leccato le ferite sotto le rigide gru

alte nel cielo come colli di brachiosauro.

Altre volte, nella mia prosopopea di diciannovenne,

ho cercato di vibrare una pugnalata

nell’interno coscia d’un venditore d’arance.

Poi la mia voce da fanello, unta di fanghiglia mestruale,

si è spezzata

come lo stecco catramoso, che tu mi negasti

(per impedirmi di affumicare gli alveoli, dicesti)

o un grumo di Pangea conteso fra due opposti poli.

C’è stato (mi pare) un crack! – la decapitazione

di un’innocente scopa di saggina –

nel buio dell’epiglottide.

Il mio braccio – la mia penna? – penzolava, inerte, dalla putrella

gemente fin negli osteoblasti.

E’ stato lì che ho sentito, misto al cigolio sospetto delle giunture,

il tiepido formicolio della vita, farsi largo,

avvolgere, emulsionare, l’ululato strozzato della frattura;

proprio là, dove picchiava lo staffile,

diffondersi come un piacevole anestetico.

E il petto mi scoppiava di orgoglio.

Una foca dalla lustra pelliccia, solenne e dignitosa sul ciglione dell’iceberg,

mi ha spiegato che nobil natura è,

quella che grande e forte mostra sé nel soffrir,

mentre un profluvio di sangue le gorgogliava da sotto il ventre

denso come nettare da una ghirba lacerata.

Là in basso, nella zuffa delle correnti, uno squalo bianco

portava fra la ferramenta delle mascelle un pezzo di carne

strappato all’adipe di quella stessa pinnipede.

Qualche vecchio ed una riva

È un piccolo molo, un corto frangiflutti penzola spavaldo sulle piccole onde del golfo. Sopra i massi è stato gettato un po' di cemento così da potervici camminare sopra e raggiungere poi la piccola piazzola in fondo, dove da tempo ormai brilla di sera una piccola lampada
Lì, sotto la luce ancora in potenza, cioè spenta, è seduto un uomo, per terra. Una gamba è distesa parallela al cemento ed un piede sporge al di là, appeso sull'acqua. L'altra gamba è tirata su e la cingono le braccia dell'uomo con delicatezza. Le mani sono coperte da pesanti guanti in montone. Il capo invece è coperto da una calda coppola e da un'abbondante sciarpa scozzese, rossa. Poi, dopo il collo, la sciarpa scende sotto l'impermeabile grigio e questo è tutto ciò che vediamo dell'uomo. Gli occhi, quelli non li vediamo. Non possiamo vederli perché non sappiamo dove cercarli, non sappiamo come cercarli. Vitrei bulbi azzurri circondati da pendule carni rugose, ma non sono occhi. Lo sguardo dell'uomo è rivolto all'orizzonte, e riflette il rosso sanguigno della sera, ma non sta guardando quello, gli occhi sono altrove. In tasca, forse, per tenerli al riparo dal vento.
Un onda più alta esplode sul frangiflutti.
L'uomo, da seduto che era allarga le braccia, le punta al suolo e con tenacia si tira su. Appoggia un gomito sulla lanterna e guarda indietro, verso la terra.
Ora, sopra il sentiero di cemento, si trova un'altra persona. Cammina, va avanti e man mano che avanza sembra catturi e possieda dentro di se ogni cosa egli guardi. Dietro di lui c'è solo il grigio cielo rannuvolato. Il paese, la spiaggia, il porto non hanno alcuna importanza, non si vedono più, non sono mai stati. L'uomo indossa un cappotto verde e si aiuta nel cammino con un nodoso bastone. Dalla tasca del cappotto spunta fuori il negozio di barche del vecchio Sergej; è in bilico, non che la tasca sia troppo piccola ma sta per cadere. Difatti cade.
Giù, giù e quando tocca terra si stacca il tetto.
L'uomo col cappotto verde se ne accorge. Sbuffa, la cosa lo annoia. Il suo viso, al contrario dell'altro uomo è ben visibile. Indossa anche lui una sciarpa (bianca, come i pantaloni) ma la tiene annodata sotto il collo. Il viso è lungo, un paio di baffi sotto il naso prominente. Una cicatrice lunga quattro centimetri scende sotto l'occhio sinistro. L'occhio sinistro, si, di quest'uomo vediamo anche gli occhi, degli occhi neri, e guardano il negozio di barche caduto per terra. Sbuffa di nuovo e si china. Passa il bastone di mano e tende il braccio di quella libera. Sembra si sforzi più di allungare il braccio che di piegarsi sulle ginocchia, ma il braccio non si allunga abbastanza. Allora si piega ma un colpo di vento colpisce il cappello che l'uomo portava sul capo e vola via. Il cappello, non il colpo di vento.
Vola, vola il cappello, vola in alto nel cielo assieme alle foglie, alla polvere ed alle finestre (stanche queste ultime di stare solo a guardare ma spaventate dalla forza con cui vengono spinte dal vento. Sbattono le ante come vecchie signore). Incontra il freddo e ricade giù, verso il basso, dove viene raccolto dall'altro uomo sul molo, quello con la coppola.
“Grazie Miguel”
Miguel tende la mano e restituisce il cappello, il cappello marrone, il cappello dal taglio classico con le falde larghe, il cappello bagnato, cappello fatato, quel cappello tanto agognato.
“Miguel, ora però tira fuori gli occhi. Il tramonto è davvero bello”
Miguel obbedisce, si trova d'accordo. Tira fuori gli occhi dalla tasca con una mano mentre con l'altra si toglie la sciarpa dal viso. Ha una folta barba, Miguel, da pescatore ed è bianca. Folta. Miguel indossa gli occhi, il tramonto è davvero bello.
“Andiamo adesso” dice l'uomo dentro cui si trova di tutto.
Mani dietro la schiena allora si voltano e vanno: lasciano il molo, lasciano il mondo.
Il tramonto perde colore, appare ormai candida una luna inumana, il mare ed il cielo ritrovano la scura confusione ancora una volta.
Due giorni più tardi il vecchio Sergej nutriva dubbi sulle profonde crepe apparse in negozio.

domenica 20 dicembre 2009

Choralyst - Ostensori di nebbia


"Per favore non date da mangiare ai troll"

Non si raccolga sigarette per strada, è un'offesa alla vedetta dei lampioni, le vecchie mura ce la faranno pagare. In sogno. Con un tetragono, geometrismo crismatico degli equivoci.

Vedono. Certo non vedono tutto, ma già il fatto di "vedere" rappresenta in sè una novità e una condanna. Invece gli uccelli scrutano, rovinano i simulacri su San Marco, frammentano le sfaccettature dell'acqua in voci ancora più piccole. Sospetto che nel canto delle ali un certo incantesimo risponda alla vanità dell'Oceano, la seduzione suadente che procacciano le illusioni attorno al fuoco non riempie i canyon della stessa solitudine?
Scrutare è la speranza dell'analisi, un gesto fine, puro, quindi tagliente. Le cose pure sono taglienti, solo gli specchi stregati rispondono con rose alla propria regina, l'elogio spinge le sue sere oltre il dolo, altere visioni dell'amabile, incendi d'ombre ortogonali. Io non mi permetto mai di indagare, nemmeno con gli occhi; se una soglia si screpola in cima al campanile ho cura di voltarmi, rispetto queste cose che non hanno pudore di mostrare la loro invisibilità sotto le losangature boreali, ma è finita lì. Se osservo qualcosa faccio riferimento alle ellissi eteroclite della materia, i flutti concatenati di innumerevoli soli ibernati (le stelle vanno in letargo nei cassetti) quindi in fin dei conti non focalizzo proprio nulla, mi godo il vago macerato dai tetti.
Per me il tutto rappresenta una distesa partitiva di numeri primi, l'infinità discreta dell'indivisibile trascesa da qualche parte nel deserto atomico. Dispersione di una fuga nella fuga. (Sto giocando con le parole, ma ci si perde anche ascoltando Beethoven) Ricordo l'androgino platonico, adesso che il tutto ha smesso di essere la somma delle parti si sono scambiati i ruoli, i tronchi degli alberi hanno smesso di pulsare e quel qualcosa in più rende inaccettabile ogni divisione, i conti si ritorcono contro loro stessi quasi perforando la retina. Quella finestra che emana l'effluvio delle orchidee ha superato ogni livello prismatico per deflagrare l'innocenza primaverile, per questo una stagione non è l'evento atmosferico racchiuso nelle variazioni bizzarre di conchiglie in fiocchi nivei; gli elementi si raggiungono, i viaggi incomparabili delle risonanze abitano l'osservatore ed ogni cosa percepita non è più sè stessa, o meglio, è se sè stessa e una visione. La predizione dicotomica naturale concerneva un ordine molto differente, in cui proliferavano i pari, l'armonia, il tempo scevro della storia che gli fa da corpo e le bilance tendevano i piatti sul livello del mare. La trinità è la prima eresia.
Siamo nell'occhio della maledizione di Mida, ciò che tocchiamo cambia di forma proprio perchè lo tocchiamo. Portate a vivere i vostri cappelli altrove, ad altre piogge battenti. Maya abita tutti i cinque sensi che si perdono con la morte, ma si sbagliava Trofimov, non ne possono rimanere novantacinque da inventare, forse novantasette.
Tra le parzialità della ragione si alternano selezioni variabili, elezioni alla rovescia. Passano davanti ai lampioni mariti e mogli senza figli, roghi post dannazione, il terzetto è una degenerazione dualistica congenere a sempiterne corruzioni, i katun dei secoli, le ali fradice delle api che torturano un fiore. Datemi retta, ai tempi in cui il tempo sussisteva incorporeo l'universo era uno scontro tra potenze mentre adesso corriamo alla ricerca di un logaritmo con argomento negativo, lo specchio ci ha spezzato, gli occhi dei lampioni trasmettono ancestrali cecità della luce.
I numeri primi sono una sillabazione rotta, combinazioni isolanti, indispensabili teschi; se si potesse rincondurre la loro genealogia al malinteso allora arriverebbe a casa mia. Gli uffici accesi dopo le ventitrè appartengono ai nervi contratti dei buoni dispari di famiglia, alle sfilate i dispari si applaudono vicendevoli, lo spazio è infinito perchè è pari.
L'ago della bilancia alberga qui, ai piedi dell'umida vetustà di questa raccolta cittadina che lentamente si sveglia dividendosi per due. Un gruppo di vecchietti claudicanti mi ha appena sorpassato.
Anche gli angeli si appoggiano sulle spalle dei compagni per dimenticare le puntuali divisioni sul nulla, i primi esistono da sempre, sono le anime che non si muovono da sole. Se i grandi pensieri si misconoscono autonomamente è perchè consistono nell'assemblaggio di numeri senza immagine, incomprensibili negazioni, casualità indispensabili alla naturale somma delle eventualità. Non zero, forse novantasette.
Novantasette modi di udire il tonfo della nebbia e il coperchio della bara che si chiude.

An Empty Shroud

Oggi. È un mozzicone in tasca: gettare una presenza che
magari si piega e poi se ne scorre via, riprende un flusso
subitaneo, e rivoli e rivoli, giù nel lavabo, nelle tubature
che prendono il colpo d’ariete, è questa una redenzione?

Ma no… è solo che sono qui ancora, sì, ma con l’equilibrio
compromesso di una cenere ritorta, nelle corse del vento
dall’estremità che ho acceso; io non so se è il fumo o cosa,
ma disimparo la vita: su una parola, il sonno che il tempo

ritiene al suo oscillare: anche la grondaia ha uno specchio;
mi guardo, e di traverso apprendo e so che è proprio così,
e non c’è né un modo né il momento per capire come fare
a rivedermi come lì, e non c’è quel qualcosa che s’avvera,

come una luce che s’accenna al muro, o giù, e all’indietro
e in avanti, ed è come l’aria da cui tendi a risalire: prendo
questa tua frazione, escissa dalla luce quando l’acqua non
ritorna più di qui, e tu diventi sporca, opaca, e non ti vedo

come dall’ingresso delle case; spazi ricreati, e ricreabili, se
penso in due: c’è la stessa inesistenza incredibile, davvero
mi presto uno stupore ed è come fossi prossimo al cadere;
ed è in un modo che, come dire, è giorno, immagine di noi.

lunedì 14 dicembre 2009

Memorie da documentare

Memorie da documentare

Quel che vogliamo
è far cadere le carte
(finiti i gravi, ci si presta
a questa libertà sordomuta).

Se le biografie
fossero interminabili,
non avremmo bisogno
del rintocco delle campane
(ma delle biblioteche abbondanti
di attimi).

sabato 12 dicembre 2009

lacrymae rerum

"Save me from curious conscience, that still hoards
Its strength for darkness, burrowing like a mole"


dicevi dei gesti
che non hanno mai conseguenza – ma gestazioni, vuoti materni,
placente - l'immacolata concezione
alle colpe - ciascuna cosa inconcepibile, battuta: lo scandalo - la deiscenza
incantata degli oggetti
- e non so dirti se noi o i nostri biglietti
a scatti, dentati – se manovre a vapore
ad un'attesa, un treno, i gettoni di un incubo

ho imparato che il soffitto è una tregua, un chivalà,
tirare il fiato – che il centro popola gli angoli - e le cose, invece, un letargo dei luoghi – lacrymae rerum – ad sub-iecta

dicevi del sonno: una disciplina di suoni
i rapporti invariati, cautelari, la diplomazia dei corpi
(perciò dif-feriamo la morte - che sia biblica,
vendicativa)

siamo la stanchezza progressiva e magnifica e un po' ottusa- siamo gli occhi incollati
di insetticida - il mezzogiorno del dolore, alto sulle alogene – siamo un'educazione
al pianto - siamo una cultura, uno sconforto

sabato 5 dicembre 2009

Ritratto sotto il cuscino

Io sono il segreto vivente e due soldini
di altre valute dimenticate
dalla numismatica ed i cipressi
ai lati - e i topi, mercanti
avidi del primo fossile
di letto in letto
a riscuotere le grafie originali
del nostro contratto
insanguinato:
al turbamento solo la misura
accelerata dei rintocchi
come blocchi immobili
d’usura (una scia).

La metallurgia
sceglierebbe i nobili.

NON la polvere.

(dall’ultima stanza)
del resto
filmavo arcobaleni
nel dopoguerra.

venerdì 4 dicembre 2009

Processo di estrapolazione delle condizioni di tangenza(?)

il pleut dans mon cœur sans âme
et la glace sous les mes basses mouillés
c’est la circumnavigation d’une étoile.

La betoniera rullante e immonda è una circonferenza che ribolle l'inferno. Un suo periplo potrebbe esprimere il rantolo delle capocchie bolse affacciate sulla cima dei domini di steli, le agonie plurime barcollanti che in qualche andito di mondo chiamano fiori, oppure fleures, magari flowers, tumuli sporgenti simili alle maniglie con le braccia conserte di porte andate in pezzi, suorine impaurite al cospetto di una ghigliottina gigante, poi un ragno d'argento che si culla su una tela bigia, la fumea dei cieli anneriti e le ossa di draghi di ferro. Tutto questo entra stamattina dalla feritoia sul Tempo come un immenso quadro meccanico, un impianto sommerso di sabbie orticanti, scorpioni di cera, occhi di tartaruga ed orbite inconciliabili, un golem arrugginito scrostato dal cielo azzurro, ricordo immortale del passaggio dei pavoni.
Superstite ancora una volta dalla mancanza nel cuore, sento il bisogno irrefrenabile di un ordine, la sensazione ingenita della divinità sta procacciandosi la sua rivincita: uno spirito silenzioso che ogni notte da tempo sfiora la mia soglia come la morte d'Egitto ha attraversato il sonno, ritorna la coscienza, il formicolio peculiare delle gravi amputazioni e nel dolore queste sono cose che si cercano.
Un'equazione è l'uguaglianza sostanziale di contrapposizioni algebriche involta attorno ad un ignorato ingiustamente ricoperto d'attenzioni, segno perenne di cambiamenti troppo deboli per significare qualcosa in meno se traslati un po' più in basso nel foglio.
X=3
Non c'è scampo, l'ho immaginato in mille luoghi, accollato alle onde lunghe per sinusoidi invisibili tra l'Equatore e il Polo Sud e i leoni gelati continuavano ad avere la criniera e i pinguini sotto le palme il torace imbiancato e ancora X=3. Le costanti si muovono a lentezza indicibile, quasi per forza, solamente grazie a quella bella invenzione del "coefficiente di adattabilità", la matematica che si batte il pugno sul petto. Mea culpa.
Di per sè l'operazione è un processo analitico fortemente avulso alle variazioni qualitative, ammesso che si possa sempre parlare di analisi; un Socrate, forse, o un Pitagora potevano permettersi di investigare per rappresentazioni immutabili rispetto alle forme fisiche perchè fisiche lo erano davvero, salde, non come adesso che appena tentiamo di elaborarle già avviliscono, volatili ed inconsistenti.
Ho inciso il mio sistema, tre coagulazioni dell'esistenza connesse in un'istanza improvvisa di sistemazione, tre convergenze visive che, cerco di persuadermene, non possono essere casuali, viaggi davanti agli occhi su treni d'ametista, no, so che qui è la loro fermata definitiva, nel mio giardino alle otto di mattina: la betoniera, un fiore e un mattone.
Testimoniano l'istituzione di questa inedita trinità una matita, un pezzo di carta Fabriano e i quattro cantoni operativi pronti a battermi il frustino sul polso qualora mancassi il calcolo. Si stendevano gli dei dentro i nuovi confini del potere coordinativo congruente alla circonferenza neofita; un certo quantitativo di sole, di acqua, una certa ammonizione del vento, il filo d'erba esattamente accanto alla pietra, la pietra, non una fotocopia proveniente dall'incontro di bagliori verdi con archetipi alieni, un petalo esattamente nella tredicesima posizione di una corolla dorata, anch'essa situata all'incrocio di precisi meridiani e paralleli srotolati per detonazioni variopinte, sulla margherita prossima ad una crudele scomparsa dentro grigi mari pietrificati, la sua scomparsa. E in questo microcosmo l'evento ha una durata compresa tra estremi reali, armonici, determinati, involontariamente ho creato Dio e l'Eden, un angolo di mondo dal quale oltre si può prescindere, dove si può morire perché la destinazione è unica, la terra, anche le cose sono uniche,una proporzione senza orizzonti a cui ho elargito un metro di cielo soltanto.
Betonierafioremattone è da abitare. Mi sono piccata di poter fare lo stesso con la mia vita, mettendo a sistema gli avvenimenti principali, scrivo sul mio straccio cartaceo: Nascitavitamorte, ma termino l'ultima lettera con prematuro sconforto. Il mattone esiste, eccolo là tra i cespugli verdeggianti, anche il fiore e la betoniera esistono, proprio lì, sforzando un poco gli occhi, ma la mia nascita, dov'è? Da qualche parte la sento sobbalzare nella tasca impressa in caratteri neri sulla carta d'identità, e la mia vita, la mia morte? Mi sfuggono i capi di questa sequenza fatale, la bruma dell'oblio preme indefessamente ai vetri del principio, fluttuante l'atto ammutolisce il resoconto complessivo sul trascorso, un documento ideale che tutti ci consegniamo all'uscita dal tunnel mondano.
Bel risultato, eccomi, un'origine incarnata su piani cartesiani apparentemente disabitati, lo spirito mi gira intorno come effusioni fantasma affezionati alla tomba. Mi sono ricreduta, temo che tornerò a cercare almeno di partecipare alla beatitudine del piccolo regno di Betonierafioremattone. Mi appiccico al muro, la zanna del sole ferisce i panneggi confusi sulla felpa bluastra e lo squarcio abbacinante che stampa su questa promiscua scultura crepuscolare. Fuori quelle presenze esistono subissate nel loro gaio non-essere, forse col sole anche un'anima abbandonata può godere della completa omogeneità della perdita, forse può dimenticare d'essere, rompere la funzione e aver fame di oggetti invece che d'infinito. Perchè se così fosse le parole mi penetrerebbero di nuovo come sostanze amiche, smetterei di cercarlo ovunque, lui e l'infinito (che poi sono la stessa cosa), imparerei a contare gli arcobaleni che cadono, a staccare gli occhi da volte sempre bianche costellate da astri carbonici.
Niente, invece. Mi accorgo di essere immobile, avverto le distanze oltrepassarmi indisturbate come bestie ai piedi della vedetta, semplicemente mi risale dallo stomaco il roboare dei sentimenti tristi rammentandomi il carico simbiotico che nessuno spazio potrà mai risanare, bensì io lo riempirei di incubi, persino là, accanto alla betoniera che uccide il prato il cuore continuerebbe a morire senza tregua, questa cittadinanza che è quasi l’anatema delle nuvole sutura soluzioni infinite tra me e il tutto, apre precipizi invalicabili ed estremità che non si possono toccare risorgono dalla riflessione illuminate dal giallo acido di una tangente fittizia costituita da corrispondenze tra telefoni isolati, un’esistenza che ho, un’esistenza deformata dalla nebbia ontologica nostalgica dell’insofferenza consunta di una montagna. Col dito disegno sul muro la traiettoria dell’avvicinamento, l’immaginaria propulsione numerica che realmente potrebbe approssimare i centri, traversare le intermittenze grafiche immune al crollo mediante la codificazione dell’esperienza in estensione, trasponendo la dimestichezza con la materia inanimata in un prodotto capace di stabilire nessi empirici elevati al punto di potersi definire conoscenza, interiorizzazione, mutuo travaso.
Non mi arrendo, riacchiappo il foglio squadrato scarabocchiando valori sopra lo zero, il graffio che mi feci da piccola cadendo dalla bicicletta, una schiacciata al muro, le riflessioni attinenti (ecco perché moltiplico invece di aggiungere) , tutto pianamente assume il suo profilo matematico. E anche qui mi interrompo in un’attenuazione dell’euforia, una scheggia presaga deve essermi schizzata addosso dallo sfreghio della punta sul piano di lavoro, mi prende d’un tratto la consapevolezza d’una stupidità tale che vorrei cancellare tutto quello che ho scritto fino ad ora. Bisognava redarre un prospetto delle proprie ricordanze cavandone fuori un avanzamento decente, invece copro una lacrima con la frangetta scomposta perché vedo che ogni anima si chiude con un desiderio inconfessabile, una defezione straziante o un promettente progetto a metà, lo zero incolmabile di chi ha perso, continuamente perde e deve perdere così, per uno zero terminale ed annichilente, uno zero soltanto! La lontananza impercorribile dall’amorfo ha un nome, si chiama bisogno. Oggi non avrò scovato i casi soddisfacenti le condizioni di tangenza, ma almeno ho capito una cosa: che continuerò a cercarle per sempre, aggiungendo altre caffettiere allo spazio tra due tower, altri quaderni, cartelli, sacchetti di plastica, album da disegno, accumulerò compagnie su compagnie. E tuttavia tutte contempleranno sempre il solito inestinguibile metro di distacco tra due tower.

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