giovedì 27 agosto 2009

Lettera sull'estinzione dei dinosauri

Il led del videoregistratore, questa notte,
mi è sembrato un fantasma. Ora dinosauri a fascicoli
e miniature della X Fretensis – mai dipinte,
nonostante i buoni propositi – sono un invito transitorio
per le anime dei salvati. Ed è un miracolo
che le coperte fino al mento separino
i vivi e i morti - dove altrimenti le mani i piedi
nudi crescerebbero in numero – poi non basterebbe
la stanza.

Tutti abbiamo un materasso, e temiamo
si perda - tra colossi di scaglie e amianto
- nell'epopea scalza
delle orme - temiamo
soprattutto il freddo - come tutte le cose
nella clemenza del rifugio.

Vi dirò del sonno
che è una resina mesozoica
e la resa dei mobili, squamata - poi altro – un canale
della trachea, o una varietà
dell'estinzione.
Probabilmente, la fine di un'era geologica
- la processione di bestie enormi e tristi
e lente – i nostri unici amici – retrivi
e senza più un artiglio.

Dei dinosauri ricordiamo i volti di gorgone,
le corazze intatte - le mandrie curve
nel passaggio della fine. Da allora
sono racchiusi, tutti, in gemme d'ambra
- e capita tornino, soli tra i giganti
per far vacillare gli assi, e la terra.

(Un dinosauro è sempre il rovescio
di una testuggine, il terrore straordinario
che accresce i mansueti)

Le loro code di iguana
frustavano l'aria - ma così immense -
perchè la morte potesse, un giorno
trovarli ovunque.

Così il mercurio nel suo grado - le placche
blindate - e il giorno avanza
tra le pietre e la sabbia
e la mistica manichea, anche - negli spazi liberi
dove i nomi cedono per un pasto
e un passo di rettile sfonda
il torace delle ore.

martedì 25 agosto 2009

Necrologio del necrologio

Immagino che alcuni, qui, abbiano già letto questa cosa che ho scritto. D'altra parte, credo possa star qui. Non ingombra poi molto, e bisogna sempre parlare di libri, perché non si sa mai per quanto tempo li avremo ancora con noi.


La morte di Ivan Il'ic è un libro chirurgico. Il preferito, tra i miei Tolstoj. È la storia di un uomo che prima vive un po', e poi muore. Ivan Il'ic è un giudice istruttore: il funzionario, il mandarino, un immortale di carta. Forse, anche, è il personaggio secondario del romanzo russo. Non avrebbe sfigurato ad ammonire Dmitri Karamazov, a smazzar carte al tavolo con Cicikov. Queste creature muoiono, di solito, fuori scena. Come tutti noi. C'è qualcosa di gratuitamente feroce nell'inseguirlo con lo sguardo, mentre arrabbatta una vita elementare. Circumnavigare la tragedia, il viaggio dei semplici. L'infelicità coniugale la sopporta sordamente. Strepita con misura. La volontà di Ivan Il'ic è suturata: non ascolta sonate di Beethoven, del resto, e pare non abbia ucciso nessuno.
Una vita più vera che felice o infelice, e dunque tanto più incapace di recepire la morte: giacché non è esogena, la morte, non è la spada dell'ultimo atto o la vendetta degli usurai; solo il corpo che si sfarina, questa è la morte di Ivan Ili'c. Prende una botta a un fianco, e così risveglia il gemello, il parassita. Si sdoppia, l'uomo vivo e l'uomo morto. Finché resta solo l'uomo morto. La morte di Ivan Ili'c si proclama fin dal titolo. Eppure, nessuno sa nulla. Ivan Ili'c meno di tutti. Così ritorna, strisciando, la tragedia, una vita comune diventa contabilità edipica, progressione aritmetica dell'errore, fino alla catastrofe. Se avesse saputo, avrebbe avuto, Ivan Il'ic il suo nome, una moglie, una forma narrabile? E tu, hypocrite lecteur?
Il libro di Tolstoj è entomologia, un documentario fotografico sulla metamorfosi: la morte che rompe la crisalide della congettura – Caio è mortale – e si posa su Ivan Ili'c. Che la sente, e scaccia i propri familiari. Non è possibile, infatti, alcun discorso tra chi vive e chi muore, solo i morti possono seppellire i propri morti. Non sorprende che l'unico testimone del morire di Ivan Ili'c sia il servo contadino, egli sì, un'anima morta, il prototipo dell'uomo che sa, e quindi l'uomo retroverso, fatto coi rimasugli della fine. Grida per tre giorni, Ivan Ili'c: ogni morte è un assassinio, scriveva Bufalino, e chi non grida è complice.
E poi, il finale. Definirlo edificante, una consolazione, un'agiografia, sarebbe carità bieca, sbrigativa. È facile pensare a Goethe – più luce! - ma è così corporea la luce di Ivan Il'ic, così un'implosione dell'iride. Oppure, dolce sollievo nell'ora in cui si muore: ma il suo commiato dal dolore non è quello di Tamerlano, Ivan Il'ic non si accommiata dalla memoria, ma dalla presenza. Nemmeno la risata di Epicuro, ma solo la tormentosa, spiazzante assenza della morte dalle ultime righe – e la morte? Dov'è? Ecco l'ultimo rintocco: perché ne La morte di Ivan Il'ic non c'è tanto la morte di Ivan Il'ic, quanto la sconfitta della vita, così disarmata di strumenti narrativi, metafore, sillogismi di fronte alla morte. Così incompiuta da finire un attimo prima. Non è un caso che muoia, costui, a metà di un respiro.

lunedì 10 agosto 2009

Conviv(i)o

Non i rostri avvelenati dal pianto, non le ombre i chiostri
dei conventi – ma le nevi immobili, le gambe dei vivi, i minuscoli animali
che abitano le nostre stanze

e dalle edere i morti – accorciati e acquatici - ricomposti
dalle fionde ai minerali
il loro equivoco, i lanci pregressi e il tempo a scacchi
nei corridoi
- questo secolo e questo balcone, in mezzo alle strade
fuori.

Nei colli di bottiglia
liquidi, atterriti
uno strabismo di luci
- il mondo fasciato dalle acque
fluviale, nei vetri del riposo

Perciò abbiamo fortezze e solitudini
squilli di tromba
per chiudere i primi cassetti, all'alba, con il solito gesto
nell'aria di pioggia
che sprigiona i reduci

I venti ci troveranno, rapidi – e così le voci,
il soffio del cannone
come un sonno
nel fondo di ghisa, dove tutte le creature dormono
grazie a dio

Poi l'attesa
che avvicina ai morti – le alghe sommerse
i cetacei immensi – la loro supplica
profonda e bassa
sotto i nostri bastioni

ma da settentrione, vi dico, verranno i Tartari
e le grandi piogge, e l'alluvione.

domenica 9 agosto 2009

Farsi degli amici

È il titolo di un autoritratto di Savinio. Le Meditazioni di Kafka, il libro del ’19, sono dedicate a M.B., Max Brod, l’amico che ne pubblicherà gli scritti dopo la morte. Nelle sue interviste Borges parla degli amici di gioventù e si diverte col suo consueto paradosso per cui tutti gli uomini non sono che un solo uomo. La solitudine è l’attributo del Dio Greco, ricorda da qualche parte Savinio. Di lui e di Jorge Luis, Sciascia dice che hanno in comune di coltivare la letteratura come fosse un discorso tra amici, fatto a voce. E c’è lo scivolare, tanto di Kafka quanto di Nivasio Dolcemare, costante dall’ “io” all’ “egli” e viceversa. Nelle meditazioni kafkiane, nelle interviste borgesiane, nella autobiografia metafisica di De Chirico-Savinio, il fatto concreto, quotidiano, naturale, sembra il modo di parlare in maniera non astratta di quello di comune che questo nasconde, ancorarsi al fatto per mostrarne l’ombra. Cos’è questo primo Novecento che ribalta la malattia romantica, il chinarsi sui propri tramonti ? Sembra suggerire, così, uno sberleffo, che Farsi degli amici è il risvolto della solitudine, che l’essere soli è quanto ci accomuna. Pensavo così andando in macchina a Prato, parlandone con mia mamma, e poi l’ho ripetuto su messenger a una Livia perfetta sconosciuta, e anche a voi ne parlerei a voce o equivalente, ma nella confusione e nel groviglio, come non mi son spiegato a loro, non mi spiegherei.

sabato 1 agosto 2009

Ho cuore chiarissimo, amici

La Viola ha cominciato a frequentare l’oratorio, non della nostra parrocchia, di Santa Croce, dove già andavano due sue amiche delle medie. Mia nonna Lidia, al telefono si preoccupa invano, e chissà dove pesca certe idee, di una sua crisi mistica… Ma si sa, le femmine patrizzano. Mia madre, invece, ragazzina era molto più fissata con la chiesa, o così nei suoi racconti. Non è difficile crederle, romantica com’è. Domenica invece, al posto delle chiese, ci tocca l’annuale riunione coi parenti di mio padre. Dice che sarà compito vostro mantenere i rapporti coi parenti, sono gli unici che avete, o i più vicini. Per ora i rapporti felicemente s’esplicano nell’abbuffarsi di prosciutto e piada, annaffiati a Sangiovese, secondo il detto dello spirito di Epicuro reincarnatosi, io credo, lungo la costa da Cattolica a Rimini, e poi su a Forlì a Cesena, fino a farsi più rigido, quasi accademico, a Bologna.

Il bollito di Guna Leuche

Il settimo giorno del mese, il signor Leuche, Guna Leuche, impiegato in tubature, si svegliò nel suo letto. Sveglio nel suo letto indossando il pigiama che s'era abbottonato la sera prima. Nel suo letto con indosso il pigiama e una morbida pelliccia bianca. Nel suo pigiama indossando una morbida pelliccia bianca e stropicciando un dolce musetto da coniglio.
A differenza di quel che pensate voi, la cosa è degna di essere riportata poiché il signor Leuche non era un maniaco che la notte si coricava indossando costumi perversi. Il signor Leuche s'era effettivamente trasformato in un coniglio.
Subito l'animale si divincolò dalle vesti oramai inadatte e saltò sulla sedia messa ai piedi del letto, di dove penzolavano un paio di pantaloni e qualche camicia. Il signor Leuche controllò dunque se era vero che i conigli avessero una zona preclusa alla vista innanzi al naso.
Era vero.
Fermo sulla sedia, avvoltolandosi in una delle sue camicie, Guna Leuche affrontava la situazione con insospettata tranquillità. Aveva letto un libro riguardo una situazione somigliante, tempo prima, e d'allora s'aspettava un suo possibile coinvolgimento in una vicenda simile.
Lo stesso non si può dire della donna delle pulizie che trasalì alla vista del coniglio quando entrò nella stanza alle undici e venti circa.
“Non si preoccupi signorina Sorgo, non si preoccupi, si calmi! - esclamò l'uomoniglio – Sono io, il signor Guna, non mi riconosce?”
“Oh, signor Guna, m'ha fatto prendere un bello spavento, sa? Adesso però mi deve fare il favore di scendere dalla sedia, che devo rassettare.”
Guna Leuche fece come gli veniva così cortesemente chiesto e scese dalla sedia. Anzi, fattosi passare un cappello dall'attaccapanni se ne uscì addirittura dalla stanza e andatosene in messo alla strada si mise sornionamente a passeggiare osservando curioso le cose dal suo nuovo punto di vista conigliuto.
“Oh, ma guarda un po', il portiere ha i pantaloni bucati in mezzo alle gambe... Oh, ma guarda un po', il giornalaio in realtà indossa scarpe di un diverso colore... Oh, ma guarda un po' – pensava – il salumiere tiene i capperi direttamente a terra...”
Dopo un po' che gironzolava, Guna Leuche incontrò il suo amico Malacase al quale raccontò divertitp della sua situazione.
Malacase prese allora in braccio Guna Leuche e corse a far vedere la cosa a tutto il circondario: al fruttivendolo, al tabbachino, al lampionaro, alle comari, al pollaiuolo, ai tre portieri dei caseggiati, a tutti i suoi amici e conoscenti che lì abitavano e anche ai pensionati del circolo sociale che avevano piazzato lì sette anni prima.
Si stabilì che se Guna Leuche adesso era un coniglio non aveva più senso trattarlo come una persona, che le sue cose andavano ridistribuite e riassegnate e che anche egli stesso andava ridistribuito e riassegnato, magari alla cacciatora, ma si sarebbero accontentati anche di un bollito con patate.
Rumorosamente Guna Leuche fu portato in tribunale. Ecco un estratto della difesa:
“Il signor Leuche, fino alla scorsa giornata impiegato nelle tubature, ha da sempre svolto un lavro apprezzato e ben eseguito all'interno della nostra comunità. Intratteneva anche numerose relazioni sociali nonostante fosse vedovo ormai da diciassette anni, giovando all'allegria della gete ed alla sua produttività. Il venerdì mi ricordano che rispettava sempre il suo turno di colletta per i vecchi del settimo piano. Inoltre, anche se avvolto adesso da una morbida pelliccia bianca, il signor Leuche non ha perso il suo spirito, come ha dimostrato con le sue simpatiche battute durante il giuramento sulle quali anche la corte ha riso amabilmente.Inoltre, tra pochi giorni sarebbe andato in pensione, il signor Leuche, e se ora è impossibilitato a svolgere il suo lavoro tra due settimane non sarebbe comunque più stato tenuto a farlo. La difesa chiede dunque che il signor Guna Leuche, il quale non certo per sua scelta è diventato coniglio, sia assegnato come mascotte del circolo per i pensionati del suo quartiere.”
La difesa fu molto toccante, tanto che tutto il pubblico che assisteva all'appello si mise commosso a singhiozzare, poi commosso a protestare ed inveire ed infine commosso a picchiare le guardie all'interno dell'aula tra urla molto alte e sempre molto commosse.
L'aula fu fatta sgombrare e dentro rimasero solo i pubblici ministeri e Guna Leuche, che come è ovvio che sia fu poi portato nelle cucine del tribunale e servito bollito con le patate alle sette e mezza in punto.