lunedì 31 maggio 2010

Clivage

il richiamo, la coazione a ripetere
dei farisei; le percorrenze, la curva
e lo sbrego nello schienale, i fogli
delle prescrizioni feudali, gli ovuli

infiniti, di fibra in fibra: la ferocia
che dissipa il calco, l'avantreno,
lo scarto pneumatico di un solco
monocorde, scollato, all'asintoto


- il rasoio di Occam, l'indicazione
da fraintendere, l'accorgimento
ripreso al suo contrario -

una firma numerata per lo scavo
delle mani; gli accidenti del canto,
le spallucce degli altri, il contro
vento che porta a farsi bastare

il mozzicone: il porfido acclarato,
la cordatura del mondo, presa
allo slancio, concessa alla parte
del dileguo, attesa all'amnesia

domenica 30 maggio 2010

Un testimonio che tu sei uno scrittore mediocre

"...La disperazione demoniaca è la forma più potenziata della disperazione che disperatamente vuol esser sè stessa. Questa disperazione non vuole neppure essere sè stessa in un'infatuazione stoica e in una autoidolatria; non in questa forma che, pur essendo menzognera, rappresenta in un certo senso la propria perfezione; no, essa vuol essere sè stessa nell'odio contro l'esistenza, essere sè stessa nella sua miseria; essa preferisce essere sè stessa non in ostinazione ed ostinatamente, ma per ostinazione; essa neppure vuole in ostinazione, staccare il suo io dalla potenza che lo ha posto, ma vuole, per malizia attenersi a lei- si capisce, un'obiezione maliziosa deve soprattutto badare di attenersi a ciò contro cui è indirizzata. Essa crede, ribellandosi contro tutta l'esistenza, di aver ottenuto una prova contro l'esistenza, un aprova contro la bontà dell'esistenza. L'individuo disperato crede di essere lui stesso questa prova, ed è ciò che egli vuol essere; vuol essere se stesso, essere se stesso per potere, con questo tormento, protestare contro tutta l'esistenza. Mentre chi si dispera per debolezza non vuol saper niente del conforto che l'eternità puà avere per lui, così anche chi a questo modo è disperato non ne vuole sapere, ma per un'altra ragione: proprio perchè sarebbe proprio questo conforto che lo annienterebbe -come obiezione contro tutta l'esistenza-. E, per illustrarlo con un'immagine, è come se a uno scrittore fosse sfuggito un errore e poi se ne accorgesse -forse non era proprio un errore, ma, in senso molto più alto, un elemento che interessa essenzialmente tutta la rappresentazione - è come se ora questo errore si ribellasse contro l'autore e per odio contro di lui gli impedisse di rettificarlo, dicendogli, con ostinazione pazza: no, non voglio essere cancellato, voglio restare come testimonio contro di te, un testimonio che tu sei uno scrittore mediocre."

(cit. S. Kierkegaard / Anti-Climacus/ "La malattia mortale")

sabato 29 maggio 2010

far "west"

Ricordo la passeggiata
di Hobbes, le strade premute come cefalopodi - soprattutto di ogni passo
l'origine, la gabbia intercostale. Poiché la secchezza delle fauci
vale come carestia
per queste vie brachiali, percorse ora a un fianco
ora in mezzo al torace, dove
il sangue è reciproco e la sintassi
dispari – il “più bel legame”, il vertice che attira
gli insetti. Un viale alberato, per me, è un cordone sanitario
dove il centro sta per miracolo, mentre i lati toccano
alle epidemie. Per comodità, separo la predicazione
dal contagio - ma decisiva è l'inclusione, la corsa
ai linfonodi. (Le cose più piccole, per esistere
devono eccedere in numero, sfasare il tetto, tramutare la cifra
in effetto). Ma come gestire le gambe, tutto – se il corpo contiene
vuoti ricorrenti
ricavati tra le spugne – come, se accoglie
ogni schiacciamento
e teste enormi. La peste è un'unità
piramidale, affogata dove tutto è più molle - è una camera
sottoscapolare, un tessuto
poroso. E raggiunta la sua sede, trema:
esattamente un budino.

venerdì 21 maggio 2010

Forza Bayer(n)

Perché non è senza difetto agli ingressi, alle acque rimosse
che il siero inocula non la cura ma la terapia, i diversi
momenti, la somministrazione, i prima dopo i pasti – a settentrione
degli altari, la mano sulla testa e nei lavacri
pondera il dosaggio, la sospensione orale
resa al fuoco, ai granuli che avvolgono nel mucchio
i sorsi e il fiato. La posologia depone
la tonsura, butta calce alle spose, al bestiame minuto
dei farmaci da banco, da una sola devozione e lo schieramento
delle compresse minaccia da uno scompartimento, da un vetro
quanti tra noi
non mangino del sangue alle oblazioni incapsulate
ai propri memoriali, perché non agitino i veli
in sinergia alle inavvertenze, alle fessure – queste, espanse
sugli enzimi e non c'è pace
finché resta il veicolo, il bicchiere stravolto

mercoledì 12 maggio 2010

Io e Jerry passavamo tanti bei momenti insieme.

"[...] Jerry parlava e io ascoltavo. A poco a poco, appresi sempre più cose sulla sua vita, mentre lui, si può dire senza timore di essere smentiti, sapeva di me sempre meno. A causa della mia connaturata reticenza, poteva fare quel che gli pareva riguardo alla mia personalità. Poteva fare di me, più o meno, chiunque volesse, e presto mi fu chiaro, con tutto il dolore che la cosa comportava, che quando lui mi guardava quel che vedeva soprattutto era un animale carino, clownesco e un po' stupido, una specie di piccolissimo cane con gli incisivi sporgenti. Non aveva la minima idea della mia vera indole, di quanto fossi in verità terribilmente cinico, abbastanza depravato e malinconico, un genio malinconico, né aveva idea del fatto che io avessi letto più libri di lui. Amavo Jerry, ma temevo che la creatura di cui ricambiava l'amore non fossi io, ma una creazione della sua fantasia. Sapevo benissimo cosa significava essere innamorati di immagini che erano frutto della fantasia. Per quanto volessi far finta che le cose stessero altrimenti, in cuor mio avevo sempre saputo che, quando lui beveva e parlava, durante le nostre serate insieme, in realtà stava semplicemente parlando con se stesso. Sogghignate, vero? Pensate di avermi smascherato! Lo so, lo so che prima ho detto - ho confessato, asserito e, nella mia irragionevole caparbietà, mi sono persino vantato della mia passione per le fessure, del mio bisogno quasi patologico di nascondermi, della mia predilizione per le maschere. Vi chiedete perchè dunque mi lagni adesso dinanzi a una nuova possibilità di camuffarmi, all'occasione d'oro che mi si offre di rannicchiarmi inosservato dietro le impenetrabili sembianze di un animaletto che ispira tenerezza? Be', ecco il perché: la differenza tra assumere una maschera, che è sempre un'occasione di libertà, e averla imposta è la stessa che intercorre tra un rifugio e una prigione. Sarei stato ben felice di attraversare l'intera esistenza a passi decisi, magari un po' goffi, ricoperto della corazza di pelliccia del mio travestimento da animaletto domestico, se fossi stato persuaso che avrei potuto sbarazzarmene in qualsiasi momento lo desiderassi, strappare via quella adorabile faccia tenera e far balzare fuori la creatura che sapevo di essere. Salve, Jerry, sono io! Non l'avrei mai fatto, certo, ma mi piaceva la sola idea di poterlo fare. [...]"


Sam Savage, Firmino.

mercoledì 5 maggio 2010

Neppure questa è l'acqua.

Più o meno tutti, qui, sappiamo di Wallace e dell'acqua. C'è questo libro, insomma, che non solo è di Wallace ma ha anche un titolo, e in questo titolo c'è una grande promessa, una promessa ancora più clamorosa della “Storia Universale Dell'Infamia”. Il titolo è: “Questa è l'acqua”. E indovinate? Quella non è affatto l'acqua, neppure lontanamente, è tutto tranne che l'acqua. Per fortuna, però, non è neppure Infinite Jest. (Sarebbe stata l'acqua, forse, se il Wallace in questione fosse stato Richard, quello di Parigi e delle 66 fontanelle). Possiamo facilmente immaginare, tuttavia, che se Wallace avesse preferito all'acqua, non so, il vino, allora più nulla avrebbe separato il suo libro dall'ultimo di Woody Allen, cinico ma pieno di buoni sentimenti e discorsi ai giovani. Questa introduzione è così giustificabile: non ci piace Wallace. A me, al maestro Frank, secondo alcune indiscrezioni anche a Marica, di sicuro ad Enixa. Inoltre, quando a scuola sostenevano avessi un cattivo rapporto con l'acqua, avevano ragione. (Marica ora non linkare la ragazza Diadora solo perché non si lava i capelli, non basta, per l'acqua occorrono maggiori credenziali). Detto questo: io mi sento in dovere, in qualche modo, di riparare al torto subito dall'acqua (ma anche da me e Frank ed Enixa e forse Marica). Mi vedo cioè costretto a tornare sull'acqua.

Poi spero di smettere l'acqua una volta per tutte, come un vizio assurdo o un vestito.

Disclaimer: a un certo punto scriverò “oggi”, così nessuno vorrà accusarmi di essere metafisico o metametafisico o metametacritico o, peggio ancora, famedoro (per precauzione, a proposito, mi asterrò dal citare Lukács. Al suo posto, mi impegno solennemente a citare almeno una volta BATTIATO).

L'acqua, lo sapete, è una realtà che ci tocca tutti (anche se non ci laviamo, nostro malgrado), che ci riguarda da vicino, e questa mi sembra un'ottima occasione per stare attenti e sentirvi socialmente impegnati, proprio come se aveste ancora i capelli lunghi e il quadernone sgualcito di Emergency. Badate: non sto dicendo che vi spiegherò l'acqua, perché l'acqua non si può spiegare, niente nessuno mai (non sto neanche dicendo che i capelli ricresceranno: non ricresceranno). Non proverò neppure a darvi l'acqua, ma tenterò piuttosto di dirvi l'acqua - magari non tutta, magari solo un bicchiere, che sembra una miseria ma vi sbagliate, un bicchiere è, de facto, un ingrandimento dell'acqua, l'acqua messa a fuoco, un primo piano, un particolare, un'acqua al dettaglio e nel dettaglio. Sto dicendo, insomma, che ve lo farete bastare.
Oggi ad esempio c'era un rubinetto, e non bastava girare, serviva tirare, spingere verso l'alto. L'acqua si creava cioè senza i giri, senza accartocciarsi, ma con uno slancio cervicale, si inarcava, si levava come se non potesse esserci acqua senza un soffitto a custodirla, come se il soffitto fosse per l'acqua un garante, come dio per l'etica, o per meglio dire un nume tutelare. Le macchie d'umido.
In tutta onestà, io non so se ciò che ho visto, oggi, immediatamente dopo lo stacco e i giri, è l'acqua, davvero l'acqua, o se invece è un bacino, la stanza premuta in una conca, una lordosi del piatto oftalmico, un accerchiamento olografico, una saturazione di ciascuna cosa ma come dall'interno, un embolo o ancora il sonno, che è una bolla e non si smentisce. Sta di fatto che l'acqua non si può vedere, ma solo avvistare (e avvitare, nel più fortunato dei casi: pensiamo proprio ai rubinetti) e a maggior ragione oggi, che ciascuna America è stata scoperta e nessuno grida più “terra”.
Questa non è solo l'acqua di oggi, ma un primo modo di estrarre l'acqua, che diremo “parabolico”e che sprigiona quasi un'acqua-vapore, che si sviluppa in altezza, un'acqua-boa (sia serpente sia galleggiante) e conclusa in se stessa, perfino autoreferenziale, autarchica, indipendente, un'isola; un'acqua-uovo ermetica, a tenuta stagna, liscia e impermeabile, capace di almanaccare il mondo tubo per tubo, uno stato sovrano, un potere centrale e un taglio dei ponti, la ragione intima di ogni embargo, un'acqua gerarchizzante e giurista e giurata, come un nemico o una promessa, infine costitutiva e, quel che più importa, integra.
Coi lavabi e le manopole, comunque, non abbiamo ancora chiuso. (All'acqua vera e propria, invece, arriveremo solo in un secondo momento). Abbiamo trattato l'acqua verticale, l'acqua analoga alle travi, etc.
Ma va detto che a volte succede il contrario, succede che uno debba spingere verso il basso, esercitare pressione (un po' come accade per il gas), esercitarsi fino all'acqua. Ecco un primo avvertimento: per l'acqua occorre allen(t)amento, non si può arrivare all'acqua impreparati, poiché l'acqua è liquida ma inflessibile e ci ripudia. Questo è un secondo modo dell'acqua, ed è una sorta di pantano, è una condotta più goffa, impacciata, pesante e in qualche modo enfatica; è un'acqua che esaspera la sua uniformità, la tende e la dilata finché non diviene lentezza.
(Un capitolo a parte, invece, meriterebbero i materassi ad acqua, che usano cioè l'acqua come carburante per innescare il sonno, e a dire il vero non si capisce dove finisce l'acqua e dove comincia il sonno, sicché il rischio è quello di dormire l'acqua, e non riesco proprio a figurarmi, a quel punto, cosa potrebbe succedere. Forse il mare. Di Dirac).
Risalendo la corrente, ci accorgiamo che non esiste divario tra l'acqua e una teoria dell'acqua, giacché l'acqua è sempre in teoria e mai in pratica, è impraticabile, come le strade dissestate e la neve. E' anche inservibile nella misura in cui non ammette culti, non può essere venerata, non ha vesti né vestali, si rende inavvicinabile, oppone realmente dighe alle nostre rotte (che sono poi ripiegamenti). Non possiamo toccare l'acqua, l'unica via è immergersi, ed è chiaro che tutto questo avvicina l'acqua a Dio (un Dio senza religione), limitando le possibilità di contatto alla mistica. Dicevamo che non è possibile comprendere l'acqua, che l'acqua è insolubile, e non parlavamo a sproposito: nessuna abduzione, ma piuttosto abluzione; bisogna essere sommozzatori, non logici.

Ma veniamo all'anatomia dell'acqua. L'acqua è quella pellicola, quel diaframma che si frappone tra noi e il mondo e che non è il freddo, o almeno non del tutto. Questa si può dire, a ragione, una buona approssimazione dell'acqua. (La differenza principale che sussiste tra acqua e freddo, e che ci permette di distinguerli con discreta precisione, sta nell'evidenza che l'acqua può essere “aperta”, “chiusa”, “messa”, “controllata”, “buttata”, "tirata" - a me è capitato addirittura di “stringerla”, magari al petto – mentre niente di tutto questo può essere fatto al freddo. Abbiamo dunque sull'acqua un margine di intervento, di partecipazione che col freddo ci è invece precluso). Ma noi vogliamo essere più scrupolosi, vogliamo andare a fondo, vogliamo affondare. Chi tra di voi si è mai imbattuto nell'acqua allo stato “selvatico”, se così si può dire;, chi ha sbirciato l'acqua anche una sola volta, anche di sfuggita, sa che ai lati è squamata, che normalmente ha la forma di una spirale e quando e dove finisce si nota distintamente una coda. Se invece l'acqua è bloccata, allora si compatta, si infittisce, sigilla le scaglie, si contrae, come in preda a un crampo, si carica a molla e sembra sul punto di esplodere da un momento all'altro. E a lasciarci sbigottiti non è mai il contenitore ma il contenimento, questo accumulo impensabile di (es)tensione che si eterna, oserei dire si tramanda, e non si scompone davanti a nulla, neppure ai nostri pigiami a righe, ai nostri spazzolini sciupati, ai tubetti Colgate, e viene da pensare quasi ad una dignità dell'acqua, a un portamento, un contegno. (L'acqua, almeno quella nelle bottiglie, ha un'etichetta vera e propria, fateci caso). L'ipotesi più attendibile, a questo punto, è quella che vuole l'acqua come l'antichità che si conforma (e conferma) non tanto al presente ma alla presenza, non al sito, alla falda temporale, ma allo scandalo. L'antichità infatti non appartiene al passato ma all'inesistenza, consiste nella semplice continuità della scomparsa, cui certamente non si può porre rimedio, poiché la memoria si arrende non già dove è passata la Storia, ma dove la Storia si è stabilita. Non possiamo collocare l'antichità davanti a noi e neppure dietro di noi, possiamo tutt'al più porla sopra o sotto o intorno. (Attenzione: non è una circostanza ambientale, un contesto, è invece un testo, una nota notte a m-argine, un fattore esogeno o, meglio ancora, idrogeno). La faccenda assume quindi i connotati di un assedio, una guerra realmente "fredda", e non di uno scontro - tantomeno di un dialogo. Similmente avviene per l'acqua, che infatti non è in discussione: e se è vero che noi possiamo passare sopra all'acqua, possiamo attraversarla o sorvolarla, occuparcene o ignorarla, è altrettanto certo che l'acqua non passerà sopra a noi, non farà finta di non vedere, e se non laverà (che è altra cosa da “levare”, è più “tirare a lucido”) le nostre colpe, non è detto che voglia graziare anche i nostri capelli. Qui serve un raccordo, una giuntura che ci porti un passo indietro, dall'acqua all'antichità. L'antichità, dicevamo, è questa continua proroga dell'attimo immediatamente successivo, è barare ma fuori dai giochi, muero porque no muero, quello che l'universo sarebbe stato senza il cedimento della creazione. La cosa peggiore, infatti, è quando le acque si rompono, improvvisamente plurali, divise, faziose, quando si scuce la falla e cede l'ordine, il criterio dell'acqua, ed è allora che accadono le cose più terribili.
L'antichità è, anche, un appuntamento costantemente mancato, la vita in rinvio ma a ritroso, questa colonia della morte nella Storia, la morte – è il caso di dirlo – sotto mentite spoglie o, più precisamete, il bastione, l'avamposto da cui irradia i suoi tentacoli. Ma, intendiamoci, non ci tocca, neppure ci sfiora: diversamente, ci sovrasta. (Penso al deus sive natura spinoziano e alle sue increspature – una creatura acquatica - e concludo: deus sine natura).
Io non so se credete ai mostri marini, o almeno al calcare, ma sappiate che i tubi servono proprio a questo scopo, a proseguire la morte come un discorso, a consentire una diffusione capillare non esattamente della morte quanto del suo elemento, del suo pronostico; a permetterne anche un deflusso, una scappatoia – non l'uscita d'emergenza ma l'emergenza dell'uscita. L'accadimento non storico ma istoriato, scalfito, la selce scheggiata, l'amigdala poi conficcata sopra il tronco cerebrale, la visione dell'allarme.
Vi voglio mettere in guardia: la morte per acqua è davvero una storia di commerci, di biremi. Immaginate l'acqua, se volete, come un furbo contrabbandiere macedone, dal momento che l'acqua arriva ma pretende qualcosa in cambio, è assetata (eheh) di conquista, è imperialista, tende ad occupare tutto lo spazio e nessuno può assicurarci che un giorno non reclamerà proprio il nostro.
Niente abissi, però. L'acqua è proprio una forza opposta agli abissi, una tensione del tutto superficiale, l'acqua è anzi sfacciata, è tutta in superficie, sta in alto, più in alto della terra.
Come se non bastasse, tutto questo di norma prende l'esatta forma della nostra vasca da bagno, e allora come trattenere lo sconcerto. (Io mi consolo pensando questo: a quanto ne so, non esistono vasche da bagno con le fattezze di Nayuta). E se pensiamo che l'acqua ammonta a tre quarti della superficie terrestre e, soprattutto, all'interezza delle terre emerse - in particolare i bagni, allora sarà chiara l'entità della minaccia. Per darvi l'idea dell'enormità dell'acqua basti questo: è quasi sicuramente più grande delle balene - anche se di poco.
E' vero, abbiamo preso le nostre contromisure, abbiamo argini, grondaie, canali di scolo, questi tentativi laterali di formare fermare l'acqua, di educarla, disciplinarla, di iscriverla nel piano cartesiano, di cavarne una geografia leggibile. Non sto dicendo la forza della natura, gli uragani e POMPEI. L'ho già scritto, e lo ripeto: distrazione, non distruzione. L'acqua sostanzialmente passa, e così noi. Non si ferma e non si sofferma, non indaga e non studia. Non si muove dal letto e non va neppure agli esami. Sempre come noi. E ora piove, lo giuro, quindi ho finito.


Non penso, in questo modo, di aver sciolto o sezionato o illustrato l'acqua (ma giusto un abbozzo, uno schizzo), perché l'acqua è inestricabile. Non penso di averla esaurita. E nessuno di voi, infatti, lo ha creduto, e mi rendo conto che a questo punto potrebbe essere deludente, ma vedetela così: significa che ne resta in abbondanza, che “ce n'è per tutti”, direbbe Zuccaro (direbbe anche “fatevi sotto che”, prima). Non pretendo di essere stato adeguato, o consono, perché l'argomento lo impedisce. Non vedo come potrei essere appropriato all'acqua. Lo specifico perché si potrebbe pensare altrimenti, si potrebbe pensare che io sia un acque-dotto.
Volevate l'acqua, ed io vi capisco, ma dovrete accontentarvi di un ri-scontro parziale (e non è neppure buona parte, o la parte "buona").
Ciò che mi auguro, umilmente, è di aver corretto quanto era corrotto, quello sgarro all'acqua che parte dai procarioti, passa per Wallace e sbuca direttamente dalle nostre docce. Una cosa da niente, come bere un bicchier di - non preoccupatevi, sembra la fine e lo è. O voi tutti assestati venite all'acqua.

martedì 4 maggio 2010

Quella volta che andai al mare in bici.

Era ormai calata la notte e stavo camminando per tornare a casa. Lo stomaco ancora gonfio di cibo (tuttora ne risento degli effetti) mi rallentava sia nel corpo che nello spirito e sebbene procedessi su di un marciapiede angusto, che quasi non mi consentiva di poggiare oltre alle suole il bastone, ero come distantissimo dalle varie vetture che alla maniera napoletana mi correvano accanto. D'improvviso tuttavia molto docemente, sfocio in una piazzetta che non ricordavo avessi sul cammino (non ricordavo in realtà nemmeno il cammino, facevo sperimentazioni sull'automatismo) e altrettanto dolcemente svanisco.
Non ci sono più, il panorama perde di rilevanza, ogni cosa smette finalmente di affannarsi nel tentare di darsi una ragione e tutto, sebbene non perda di consistenza, si abbandona al non essere.
In pace.
Ho fatto dei calcoli e suppergiù devo essere rimasto in quello stato per una ventina di minuti. Fu un leggero sussulto di una delle palpebre a riportarmi alla realtà.
È quello che istintivamente mi dissi: «Sono tornato alla realtà.» e ripresi a camminare.
Il preciso istante successivo mi resi oggetto del più sincero ed impareggiabile tra i disgusti.

sabato 1 maggio 2010

La realtà tutta spietata

"ita res accendent lumina rebus."

Non so se dovrei ringraziare qualcuno, d'altronde è piuttosto frustrante pensare a quanto c'è di bello sotto i balconi. Quanto c'è di stoffa negli atomi della Grande Idea, oppure tra cielo e cielo, perchè di norma avanzano sempre frammenti di plastica grigia, e si inficcano negli ultimi occhi cielanti. Le scale sono cresciute nel deserto, una pianura di vele con la luna nel mezzo, ma alla luna nel pozzo, sotto i balconi cadenti, le stelle invecchiate, le pietre aguzze che cadono dal cielo, nessuno ha mai sufficientemente guardato a fondo, ossia nel suo scialle coperto di muffa e arcobaleno. Cieli bassi, falsi, cieli che non ricordano più nulla e rovistano a fondo l'anima fumosa di tutte le tempeste.
Non ci sono più tempeste. Però rovi intricati e tracolli sotto i lumi distanti attutiti dal tonfo inceneritore del giorno. Dove deve mai andare, noi che ci affatichiamo con duplice cura__perchè vada e vada bene? perchè tornino gli argobaleni di psichedelici sogni invocati per nome. Per dire "Ma magari.."(anche se lo sfigology di Jurambalco prevede che io dica -d'altra parte..-) dopo "oggi non c'è".
Una tonalità più bassa sulla torre stacca i petali, dai cieli bassi, con calore, immagino. Dalle montagne rotte di corde, dalla dispersione della forza, nell'aria zitta, dall'infinito chiasso. E' una neve nera, di volte celesti in spire che piangono sui colletti spiegazzati degli impiegati di borsa (la borsa chiude le contrattazioni verso le 17, mi pare, poi c'è la rivalutazione di chiusura). Dal ridere, l'eterno chiasso che si possono permettere gli dei.
E nell'estrema debolezza che rilutta la luna nel pozzo, scogli arroventati dell'unico fiore in mezzo al deserto: la coordinazione di più piani di inferno, spazio e tempo. Non la ginestra, che non si fa derubare e prorompe anche nella più lunga onda di vuoto. Dimostra, dico solo che c'è voglia di dimostrare nella ginestra, di sublimare la sconfitta.
Dall'orologio che batte il tempo, l'allegoria del tuono. Corolle sbiadite cadere con leggerezza infinita, per tutti i viali che non ci sono nel deserto, nella nebbia, nel buio.
Ci si perde per le tubature, le ultime strade del testo.
E nessuno mi toglierà mai dalla mente fino all'anno scorso, che l'orologio conta i passi e che gli dei calpestano solo margherite. Di giorno, alla luce del sole.