Ipotesi sul concetto di preistoria (controstoria minima dei disegnini su carta)
Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini. [La società dello spettacolo, tesi 4]
Si potrebbe partire da qui. Con una citazione certo impegnativa, se non proprio eretica. Un po' come se Carlo Vanzina scrivesse un libro su Visconti, per dire.
Perché scomodare Debord in un blog che si vuole definire, col coraggio eroico dell'incoscienza, letterario? Sarebbe più pertinente riesumare qualche inamidato saggio sul ruolo delle lettere, vive o morte che siano, nella comunità umana. Un poco di sociologia spicciola
à la Balzac, magari, con tanto di genuino ottimismo verso i domani che, di lì a poco, chiederanno di cantare. Il tutto per scrivere in modo ancora più efficace del fragoroso fallimento storico di tanto ottimismo - una sorta di ludica passeggiata di Sisifo: più si sale e più ci si potrà poi riposare nell'ammirare il masso che distruttivo rotola via, in pochi attimi di taglio messianico della catena sul pignone del tempo.
In realtà c'è un'ottima ragione per parlare di immagini. E di spettacolo.
La prima e più banale di queste ragioni è che lettere e parole sono innanzitutto simboli visivi, elaborati in suoni articolabili da un apparato fonatorio. Sono immagini leggibili in modo univoco e codificato socialmente: questo pittogramma indica un referente preciso, questa lettera una configurazione di corde vocali, naso, lingua e bocca. Ai dipinti rupestri, perfettissima espressione di umana creatività, viene sottratto il valore fondante della universalità nell'accesso all'interpretazione. Uno schianto sulla soglia.
Il codice tesse quadri riproducibili in modo perfetto, ed è fruibile in modo indipendente dal contesto. Il prezzo da pagare, niente affatto modico, è l'alfabetizzazione, barattatata con la trascendenza. Che poi è un'ottimo inizio per un'apologia dell'oblomovismo. La scrittura come surrogato dell'apatia pare funzionare molto bene, laddove il colore esige ricerca e movimento.
Non è di ingenuità figurativa che abbiamo bisogno, intendiamoci. L'immagine non è libera: è essa stessa una sedimentazione di codici secolarmente elaborati. Ed esiste una grande distanza dai pigmenti fenici al disco dei colori di Chevreul.
Quello che cambia è l'accesso. L'accesso a un testo è vincolato da una serratura robusta, la cui chiave è la passiva accettazione di un sistema di regole rigido e normativo, laddove l'immagine-tipo presenta un dato visivo immediatamente leggibile, seppur a livelli diversi, su stratificazioni quasi geologiche. Ma è leggibile, non fosse per altro che per la percezione di una composizione.
Il colore stesso è passibile di lettura, prima di tutto in quanto
materia pittorica. Pigmento e fatture di colore gridano tridimensionalità, emergono dalla tela esondando nel mondo, mentre il papiro schiaccia l'uomo su piatte superfici arrotolate - da qui alla terra desolata, è un sentiero in discesa.
Al volgere di un mese
colato dai sensi aperti
una nube di bocche dilania
(perché, poi?)
ne
mastica
l'aura le connessioni
resta
frammento
sfere sassi
quaderni e
ai calici, bicchieri
decantano rossori supini
e nubi effluvi fatture etiopi -
non ti potranno saziare...
Il tuo verme vecchio
profana i prati e le acque
e quel che rimane non ama
che membrane che /
Si parlava di trascendenza. La scrittura trascende il tempo e allo stesso tempo ne è schiacciata, ancorata com'é alla sua linearità. Un'immagine alfabetica va letta in un certo ordine, secondo una logica definita a priori. La superficie di una pagina, decodificata una riga per volta, da sinistra a destra.
La temporalità azzerata di un quadro lo rende più vulnerabile alle stagioni ma liberamente esplorabile. Ancora di più: l'icona bizantina, porta regale per una epifanica comprensione della verità.
La scrittura è un medium intrinsecamente autoritario. Prescrive prima e più che descrivere. Disdegna il raccoglimento famigliare della
gemeinschaft per raccogliere le lusinghe della
gesellschaft moderna, competendo con il posto di lusso occupato dal medium catodico, davanti al divano. La Bibbia di Gutemberg fu il primo
media event della storia, la poesia il primo caso di pensiero aberrante - nel senso ottico del termine, di distorsione della forma.
Una macchina per scrivere ne presuppone una per leggere: il modello informatico della comunicazione continua a osservarci da sotto il tappeto. Siamo decodificatori o caporali?
Da qui allo spettacolo, il passo è breve.
Lo spettacolo è infinito, autopoietico e ben si adatta alla logica del palinsesto, del flusso continuo e temporalmente indicizzato di sussulti psicologici nella mente dello spettatore, rigidamente progettati e attentamente preparati. Una linearità poco liberamente ispirata alla catena delle parole, che richiede passività, obbedienza, accettazione di un sistema di regole socialmente codificato. Prescrive un uso del tempo direttamente mutuato dalla catena di montaggio, a sua volta sublimazione del romanzo moderno, grande e curioso orologio, meccanismo ben oliato. Lo scrittore è un grande orologiaio che fissa un ritmo, un'armonia assolutamente non prestabilita: le lettere, sigilli di cera sanguigna sulla diaspora dell'uomo da un giardino edenico, già esso alfabeticamente progettato. Oggi è una miniserie della Rai, ma fa lo stesso, è pur sempre una
sceneggiatura.
Lo spettacolo media le relazioni tra gli individui: il primo diaframma è però letterario. Lo stesso valico, accademico quanto si vuole, tra storia e preistoria ne sancisce la portata. Una chiusura in-cubo, come per Fabro ma ulteriormente... incubata. Un varo della prossemica come disciplina del confine tra uomo e uomo. Il risultato finale sarà il reciproco contenimento per bulimia: la stilografica è un sublime indizio di cultura materiale, un desiderio di espansione di questi confini fatto oggetto. Confini del desiderio,
à la Hobbes, confini della pagina, confini. Dalle masse di colore sulla roccia ai confini dei quadretti, al saggio sul suicidio di Durkheim. E' una motorway, cristallina e rettilinea.
Quello di cui si vuole parlare, in sostanza e a parte i toni semiseri di questa noiosa rassegna, è semplice. Quello che si vuole fare è una (nuova) critica della separazione. Le lettere sono terribilmente
piatte, vanno bene come calamite sul frigo, o tra gli alberi. Per riempire i fossati sono più adatte le immagini iconiche, la
camera-stylo come macchina da presa letteraria o un più semplice pennello. La scrittura è disumana, persino come gioco non è meno sproporzionata di una cavalcata sulla Bomba. Al siluramento delle lettere morte è preferibile una nuotata oculare tra le rovine che schiantano, in abisso.
P-
Nel padiglione allagato
pavoni perdono piume,
contrazioni illudono
le piume d'ippogrifo -
del senno degli eroi
non sappiamo che solo
che lenti piegate e morbidi
mucchi lupanari
è morto il genio
e Bradamante, e Beatrice
qualche cane sospira
anatemi
sordi, gli archi
si perdono in mari, sillabe
divise sono i templi
e totem della caccia
dopo il sole lasso
Concludendo la partita (un sostanziale stallo, pedone e re contro re e cavallo).
Niente roghi di libri, nessun rifiuto dell'alfabeto. Piuttosto, scrittura in quanto superamento delle regole della lingua scritta stessa, "gioco serio" al di fuori degli scaffali,
ludus prima che assordante
paideia. Una
pars costruens che sappia ricostruire il corpo di Purusha dopo la inevitabile profanazione, l'androgino dopo la spada di Zeus, l'occhio di Balor dopo il colpo di fionda di un improvvido Lugh.
Una presa-prosa imaginificia sul reale, programmaticamente antiletteraria, per spezzare la catena sul pignone e deliziarci del fatto che niente ha mai avuto bisogno di accadere. Basta guardare, in una sorta di ocularcentrismo purificato/parificato. O sentire, o toccare, quel che si vuole. Liberandosi del concetto di evento, giustamente seppellito da chi ha compreso che
evento è letteratura, il primo atto di una separazione teatrale tra le cose che hanno qualcosa da dire.
Fosse anche un eloquente silenzio, o uno stillicidio, comunque un dire che non sente alcun bisogno di cantare.