mercoledì 30 dicembre 2009

Gli impagliati

Le dominazioni, e le potenze.


“Qual è, dunque, quella piccola?”
“Il dolore.”
“Il dolore? Possibile che sia cosí importante... in questo caso?”
(cit)


E' un determinato numero di chiardiluna a scandire la foschia.Sale l'ululato monotono delle pale che stanno alla propria traiettoria (non come le gocce di pioggia), si spande per divaricazioni filiformi, è la solitudine collettiva incipriata di luna. Le mosche nel tempo, nessun amore sprecato, ma la vita si. Non sapere che ricordare significa vivere all'indietro.Le costellazioni si alternano secondo i ritmi di un astrolabio d'oro. E dov'è il motore immobile? La campagna si prostra al ronzio della meccanica, le colline incupiscono prevedendo l'intima ripercussione, l'efflato violento di un'orma mattiniera pronta a ferire la delicata superficie erbosa. Poi la lama che fende una valle di lacrime. I fori dei suoi occhi bucano il cielo, un fascio malformato di rette spezzate, l'aborto della geometria nella dominazione campestre, un brutto sogno attraversa il campo senza pensare. E lo spaventapasseri ride. La visiera calata fino alla disturbante posizione di un naso dovuto, ma dimenticato a dovere.A differenza degli uomini con il naso i baubau impagliati hanno un pudore naturale a cui fa testimonianza spiacevole un pessimo e sempiterno vestiario sgualcito dall'estate passata, da quella dopo, senza alcuna differenza. La rovina è la rovina, non importa quanto sia ingente il danno, chi rompe paga. Un corvo svampito gli si posa sul cappello ingiallito, duplice insulto alla natura e alla dignità annerito da un'imperfezione nella purezza delle metafore. Il fallimento di un processo, l'incongruenza sottile di una svista lasciata sul bordo dell'infinito, il sonno appassionato di due ali ripiegate sul mostro ed un disprezzo immobile incuneato nel disprezzo cosmico. A questi livelli l'impotenza si moltiplica perpetrando una duplicazione vettoriale, l'identità (e l'ideologia) che di nulla si può fare altrimenti e che il giudizio rifugga un contatto incompleto come la spedizione su una retta infinita. Fedeli all'essenza ci si prefigge il raggiungimento di menomazioni posizionate all'ingresso dell'attimo a venire, esistono paesaggi inconsueti sotto lo sguardo inceneritore del sole, rarità elargite dal futurismo galattico, gridi particolarmente forti e sordità particolarmente impenetrabili.Sentire il grano che spalleggia; c'è un'eleganza nel preservare il tutto dal nostro grido, anche una stupidità. Le tenebre rivestono con analoga premura la fragilità delle capocchie rivolte all'ingiù con l'offesa silenziosa tra debolezze affiancate dal disturbo. Una civetta che vola di giorno muta lo spavento in affetto, qualche insetto divora l'organicità del tempo, ma prima o poi, se non si è pietrificati dal gelo si vola via. Le pietre singolari sono preziose quanto fragili, l'incanto del mondo si mantiene per un periodo condecente alla genetica. Forse allora la cosa peggiore è che qui fa freddo. Sotto le lastre sovrapposte del terreno esistono delle sospensioni puntiformi separate dal passato, l'abbondanza con la penuria oggi lamentano una neve immensa. Lo scricchiolio di una piccola fuga congelata abbraccia l'affanno della paglia cristallizzando simulacri fuori dal tempo, il licenziamento dei controllori impagliati a cui una sterilità cinerea dei campi suggerisce la crocefissione. E il cielo e la terra si dividono uno spartito di convocazioni ugualmente trascurato, inetto, dove la vita si è disposta alla maniera della morte.

domenica 27 dicembre 2009

Una partecipazione onerosa

Una partecipazione onerosa

E si perdono i denti,
e si perdono gli occhi
ad urtare
contro l'identicità
dei versi.

Compatire chi
per primo nota
la rugiada e non
le urla della vegetazione

(un tornaconto per vivere).

lunedì 21 dicembre 2009

La dignità del braccio fratturato

Liberalo dallo scendere nel sepolcro,

io ho trovato il riscatto [Giobbe, 33, 24]

Spesso mi sono leccato le ferite sotto le rigide gru

alte nel cielo come colli di brachiosauro.

Altre volte, nella mia prosopopea di diciannovenne,

ho cercato di vibrare una pugnalata

nell’interno coscia d’un venditore d’arance.

Poi la mia voce da fanello, unta di fanghiglia mestruale,

si è spezzata

come lo stecco catramoso, che tu mi negasti

(per impedirmi di affumicare gli alveoli, dicesti)

o un grumo di Pangea conteso fra due opposti poli.

C’è stato (mi pare) un crack! – la decapitazione

di un’innocente scopa di saggina –

nel buio dell’epiglottide.

Il mio braccio – la mia penna? – penzolava, inerte, dalla putrella

gemente fin negli osteoblasti.

E’ stato lì che ho sentito, misto al cigolio sospetto delle giunture,

il tiepido formicolio della vita, farsi largo,

avvolgere, emulsionare, l’ululato strozzato della frattura;

proprio là, dove picchiava lo staffile,

diffondersi come un piacevole anestetico.

E il petto mi scoppiava di orgoglio.

Una foca dalla lustra pelliccia, solenne e dignitosa sul ciglione dell’iceberg,

mi ha spiegato che nobil natura è,

quella che grande e forte mostra sé nel soffrir,

mentre un profluvio di sangue le gorgogliava da sotto il ventre

denso come nettare da una ghirba lacerata.

Là in basso, nella zuffa delle correnti, uno squalo bianco

portava fra la ferramenta delle mascelle un pezzo di carne

strappato all’adipe di quella stessa pinnipede.

Qualche vecchio ed una riva

È un piccolo molo, un corto frangiflutti penzola spavaldo sulle piccole onde del golfo. Sopra i massi è stato gettato un po' di cemento così da potervici camminare sopra e raggiungere poi la piccola piazzola in fondo, dove da tempo ormai brilla di sera una piccola lampada
Lì, sotto la luce ancora in potenza, cioè spenta, è seduto un uomo, per terra. Una gamba è distesa parallela al cemento ed un piede sporge al di là, appeso sull'acqua. L'altra gamba è tirata su e la cingono le braccia dell'uomo con delicatezza. Le mani sono coperte da pesanti guanti in montone. Il capo invece è coperto da una calda coppola e da un'abbondante sciarpa scozzese, rossa. Poi, dopo il collo, la sciarpa scende sotto l'impermeabile grigio e questo è tutto ciò che vediamo dell'uomo. Gli occhi, quelli non li vediamo. Non possiamo vederli perché non sappiamo dove cercarli, non sappiamo come cercarli. Vitrei bulbi azzurri circondati da pendule carni rugose, ma non sono occhi. Lo sguardo dell'uomo è rivolto all'orizzonte, e riflette il rosso sanguigno della sera, ma non sta guardando quello, gli occhi sono altrove. In tasca, forse, per tenerli al riparo dal vento.
Un onda più alta esplode sul frangiflutti.
L'uomo, da seduto che era allarga le braccia, le punta al suolo e con tenacia si tira su. Appoggia un gomito sulla lanterna e guarda indietro, verso la terra.
Ora, sopra il sentiero di cemento, si trova un'altra persona. Cammina, va avanti e man mano che avanza sembra catturi e possieda dentro di se ogni cosa egli guardi. Dietro di lui c'è solo il grigio cielo rannuvolato. Il paese, la spiaggia, il porto non hanno alcuna importanza, non si vedono più, non sono mai stati. L'uomo indossa un cappotto verde e si aiuta nel cammino con un nodoso bastone. Dalla tasca del cappotto spunta fuori il negozio di barche del vecchio Sergej; è in bilico, non che la tasca sia troppo piccola ma sta per cadere. Difatti cade.
Giù, giù e quando tocca terra si stacca il tetto.
L'uomo col cappotto verde se ne accorge. Sbuffa, la cosa lo annoia. Il suo viso, al contrario dell'altro uomo è ben visibile. Indossa anche lui una sciarpa (bianca, come i pantaloni) ma la tiene annodata sotto il collo. Il viso è lungo, un paio di baffi sotto il naso prominente. Una cicatrice lunga quattro centimetri scende sotto l'occhio sinistro. L'occhio sinistro, si, di quest'uomo vediamo anche gli occhi, degli occhi neri, e guardano il negozio di barche caduto per terra. Sbuffa di nuovo e si china. Passa il bastone di mano e tende il braccio di quella libera. Sembra si sforzi più di allungare il braccio che di piegarsi sulle ginocchia, ma il braccio non si allunga abbastanza. Allora si piega ma un colpo di vento colpisce il cappello che l'uomo portava sul capo e vola via. Il cappello, non il colpo di vento.
Vola, vola il cappello, vola in alto nel cielo assieme alle foglie, alla polvere ed alle finestre (stanche queste ultime di stare solo a guardare ma spaventate dalla forza con cui vengono spinte dal vento. Sbattono le ante come vecchie signore). Incontra il freddo e ricade giù, verso il basso, dove viene raccolto dall'altro uomo sul molo, quello con la coppola.
“Grazie Miguel”
Miguel tende la mano e restituisce il cappello, il cappello marrone, il cappello dal taglio classico con le falde larghe, il cappello bagnato, cappello fatato, quel cappello tanto agognato.
“Miguel, ora però tira fuori gli occhi. Il tramonto è davvero bello”
Miguel obbedisce, si trova d'accordo. Tira fuori gli occhi dalla tasca con una mano mentre con l'altra si toglie la sciarpa dal viso. Ha una folta barba, Miguel, da pescatore ed è bianca. Folta. Miguel indossa gli occhi, il tramonto è davvero bello.
“Andiamo adesso” dice l'uomo dentro cui si trova di tutto.
Mani dietro la schiena allora si voltano e vanno: lasciano il molo, lasciano il mondo.
Il tramonto perde colore, appare ormai candida una luna inumana, il mare ed il cielo ritrovano la scura confusione ancora una volta.
Due giorni più tardi il vecchio Sergej nutriva dubbi sulle profonde crepe apparse in negozio.

domenica 20 dicembre 2009

Choralyst - Ostensori di nebbia


"Per favore non date da mangiare ai troll"

Non si raccolga sigarette per strada, è un'offesa alla vedetta dei lampioni, le vecchie mura ce la faranno pagare. In sogno. Con un tetragono, geometrismo crismatico degli equivoci.

Vedono. Certo non vedono tutto, ma già il fatto di "vedere" rappresenta in sè una novità e una condanna. Invece gli uccelli scrutano, rovinano i simulacri su San Marco, frammentano le sfaccettature dell'acqua in voci ancora più piccole. Sospetto che nel canto delle ali un certo incantesimo risponda alla vanità dell'Oceano, la seduzione suadente che procacciano le illusioni attorno al fuoco non riempie i canyon della stessa solitudine?
Scrutare è la speranza dell'analisi, un gesto fine, puro, quindi tagliente. Le cose pure sono taglienti, solo gli specchi stregati rispondono con rose alla propria regina, l'elogio spinge le sue sere oltre il dolo, altere visioni dell'amabile, incendi d'ombre ortogonali. Io non mi permetto mai di indagare, nemmeno con gli occhi; se una soglia si screpola in cima al campanile ho cura di voltarmi, rispetto queste cose che non hanno pudore di mostrare la loro invisibilità sotto le losangature boreali, ma è finita lì. Se osservo qualcosa faccio riferimento alle ellissi eteroclite della materia, i flutti concatenati di innumerevoli soli ibernati (le stelle vanno in letargo nei cassetti) quindi in fin dei conti non focalizzo proprio nulla, mi godo il vago macerato dai tetti.
Per me il tutto rappresenta una distesa partitiva di numeri primi, l'infinità discreta dell'indivisibile trascesa da qualche parte nel deserto atomico. Dispersione di una fuga nella fuga. (Sto giocando con le parole, ma ci si perde anche ascoltando Beethoven) Ricordo l'androgino platonico, adesso che il tutto ha smesso di essere la somma delle parti si sono scambiati i ruoli, i tronchi degli alberi hanno smesso di pulsare e quel qualcosa in più rende inaccettabile ogni divisione, i conti si ritorcono contro loro stessi quasi perforando la retina. Quella finestra che emana l'effluvio delle orchidee ha superato ogni livello prismatico per deflagrare l'innocenza primaverile, per questo una stagione non è l'evento atmosferico racchiuso nelle variazioni bizzarre di conchiglie in fiocchi nivei; gli elementi si raggiungono, i viaggi incomparabili delle risonanze abitano l'osservatore ed ogni cosa percepita non è più sè stessa, o meglio, è se sè stessa e una visione. La predizione dicotomica naturale concerneva un ordine molto differente, in cui proliferavano i pari, l'armonia, il tempo scevro della storia che gli fa da corpo e le bilance tendevano i piatti sul livello del mare. La trinità è la prima eresia.
Siamo nell'occhio della maledizione di Mida, ciò che tocchiamo cambia di forma proprio perchè lo tocchiamo. Portate a vivere i vostri cappelli altrove, ad altre piogge battenti. Maya abita tutti i cinque sensi che si perdono con la morte, ma si sbagliava Trofimov, non ne possono rimanere novantacinque da inventare, forse novantasette.
Tra le parzialità della ragione si alternano selezioni variabili, elezioni alla rovescia. Passano davanti ai lampioni mariti e mogli senza figli, roghi post dannazione, il terzetto è una degenerazione dualistica congenere a sempiterne corruzioni, i katun dei secoli, le ali fradice delle api che torturano un fiore. Datemi retta, ai tempi in cui il tempo sussisteva incorporeo l'universo era uno scontro tra potenze mentre adesso corriamo alla ricerca di un logaritmo con argomento negativo, lo specchio ci ha spezzato, gli occhi dei lampioni trasmettono ancestrali cecità della luce.
I numeri primi sono una sillabazione rotta, combinazioni isolanti, indispensabili teschi; se si potesse rincondurre la loro genealogia al malinteso allora arriverebbe a casa mia. Gli uffici accesi dopo le ventitrè appartengono ai nervi contratti dei buoni dispari di famiglia, alle sfilate i dispari si applaudono vicendevoli, lo spazio è infinito perchè è pari.
L'ago della bilancia alberga qui, ai piedi dell'umida vetustà di questa raccolta cittadina che lentamente si sveglia dividendosi per due. Un gruppo di vecchietti claudicanti mi ha appena sorpassato.
Anche gli angeli si appoggiano sulle spalle dei compagni per dimenticare le puntuali divisioni sul nulla, i primi esistono da sempre, sono le anime che non si muovono da sole. Se i grandi pensieri si misconoscono autonomamente è perchè consistono nell'assemblaggio di numeri senza immagine, incomprensibili negazioni, casualità indispensabili alla naturale somma delle eventualità. Non zero, forse novantasette.
Novantasette modi di udire il tonfo della nebbia e il coperchio della bara che si chiude.

An Empty Shroud

Oggi. È un mozzicone in tasca: gettare una presenza che
magari si piega e poi se ne scorre via, riprende un flusso
subitaneo, e rivoli e rivoli, giù nel lavabo, nelle tubature
che prendono il colpo d’ariete, è questa una redenzione?

Ma no… è solo che sono qui ancora, sì, ma con l’equilibrio
compromesso di una cenere ritorta, nelle corse del vento
dall’estremità che ho acceso; io non so se è il fumo o cosa,
ma disimparo la vita: su una parola, il sonno che il tempo

ritiene al suo oscillare: anche la grondaia ha uno specchio;
mi guardo, e di traverso apprendo e so che è proprio così,
e non c’è né un modo né il momento per capire come fare
a rivedermi come lì, e non c’è quel qualcosa che s’avvera,

come una luce che s’accenna al muro, o giù, e all’indietro
e in avanti, ed è come l’aria da cui tendi a risalire: prendo
questa tua frazione, escissa dalla luce quando l’acqua non
ritorna più di qui, e tu diventi sporca, opaca, e non ti vedo

come dall’ingresso delle case; spazi ricreati, e ricreabili, se
penso in due: c’è la stessa inesistenza incredibile, davvero
mi presto uno stupore ed è come fossi prossimo al cadere;
ed è in un modo che, come dire, è giorno, immagine di noi.

lunedì 14 dicembre 2009

Memorie da documentare

Memorie da documentare

Quel che vogliamo
è far cadere le carte
(finiti i gravi, ci si presta
a questa libertà sordomuta).

Se le biografie
fossero interminabili,
non avremmo bisogno
del rintocco delle campane
(ma delle biblioteche abbondanti
di attimi).

sabato 12 dicembre 2009

lacrymae rerum

"Save me from curious conscience, that still hoards
Its strength for darkness, burrowing like a mole"


dicevi dei gesti
che non hanno mai conseguenza – ma gestazioni, vuoti materni,
placente - l'immacolata concezione
alle colpe - ciascuna cosa inconcepibile, battuta: lo scandalo - la deiscenza
incantata degli oggetti
- e non so dirti se noi o i nostri biglietti
a scatti, dentati – se manovre a vapore
ad un'attesa, un treno, i gettoni di un incubo

ho imparato che il soffitto è una tregua, un chivalà,
tirare il fiato – che il centro popola gli angoli - e le cose, invece, un letargo dei luoghi – lacrymae rerum – ad sub-iecta

dicevi del sonno: una disciplina di suoni
i rapporti invariati, cautelari, la diplomazia dei corpi
(perciò dif-feriamo la morte - che sia biblica,
vendicativa)

siamo la stanchezza progressiva e magnifica e un po' ottusa- siamo gli occhi incollati
di insetticida - il mezzogiorno del dolore, alto sulle alogene – siamo un'educazione
al pianto - siamo una cultura, uno sconforto

sabato 5 dicembre 2009

Ritratto sotto il cuscino

Io sono il segreto vivente e due soldini
di altre valute dimenticate
dalla numismatica ed i cipressi
ai lati - e i topi, mercanti
avidi del primo fossile
di letto in letto
a riscuotere le grafie originali
del nostro contratto
insanguinato:
al turbamento solo la misura
accelerata dei rintocchi
come blocchi immobili
d’usura (una scia).

La metallurgia
sceglierebbe i nobili.

NON la polvere.

(dall’ultima stanza)
del resto
filmavo arcobaleni
nel dopoguerra.

venerdì 4 dicembre 2009

Processo di estrapolazione delle condizioni di tangenza(?)

il pleut dans mon cœur sans âme
et la glace sous les mes basses mouillés
c’est la circumnavigation d’une étoile.

La betoniera rullante e immonda è una circonferenza che ribolle l'inferno. Un suo periplo potrebbe esprimere il rantolo delle capocchie bolse affacciate sulla cima dei domini di steli, le agonie plurime barcollanti che in qualche andito di mondo chiamano fiori, oppure fleures, magari flowers, tumuli sporgenti simili alle maniglie con le braccia conserte di porte andate in pezzi, suorine impaurite al cospetto di una ghigliottina gigante, poi un ragno d'argento che si culla su una tela bigia, la fumea dei cieli anneriti e le ossa di draghi di ferro. Tutto questo entra stamattina dalla feritoia sul Tempo come un immenso quadro meccanico, un impianto sommerso di sabbie orticanti, scorpioni di cera, occhi di tartaruga ed orbite inconciliabili, un golem arrugginito scrostato dal cielo azzurro, ricordo immortale del passaggio dei pavoni.
Superstite ancora una volta dalla mancanza nel cuore, sento il bisogno irrefrenabile di un ordine, la sensazione ingenita della divinità sta procacciandosi la sua rivincita: uno spirito silenzioso che ogni notte da tempo sfiora la mia soglia come la morte d'Egitto ha attraversato il sonno, ritorna la coscienza, il formicolio peculiare delle gravi amputazioni e nel dolore queste sono cose che si cercano.
Un'equazione è l'uguaglianza sostanziale di contrapposizioni algebriche involta attorno ad un ignorato ingiustamente ricoperto d'attenzioni, segno perenne di cambiamenti troppo deboli per significare qualcosa in meno se traslati un po' più in basso nel foglio.
X=3
Non c'è scampo, l'ho immaginato in mille luoghi, accollato alle onde lunghe per sinusoidi invisibili tra l'Equatore e il Polo Sud e i leoni gelati continuavano ad avere la criniera e i pinguini sotto le palme il torace imbiancato e ancora X=3. Le costanti si muovono a lentezza indicibile, quasi per forza, solamente grazie a quella bella invenzione del "coefficiente di adattabilità", la matematica che si batte il pugno sul petto. Mea culpa.
Di per sè l'operazione è un processo analitico fortemente avulso alle variazioni qualitative, ammesso che si possa sempre parlare di analisi; un Socrate, forse, o un Pitagora potevano permettersi di investigare per rappresentazioni immutabili rispetto alle forme fisiche perchè fisiche lo erano davvero, salde, non come adesso che appena tentiamo di elaborarle già avviliscono, volatili ed inconsistenti.
Ho inciso il mio sistema, tre coagulazioni dell'esistenza connesse in un'istanza improvvisa di sistemazione, tre convergenze visive che, cerco di persuadermene, non possono essere casuali, viaggi davanti agli occhi su treni d'ametista, no, so che qui è la loro fermata definitiva, nel mio giardino alle otto di mattina: la betoniera, un fiore e un mattone.
Testimoniano l'istituzione di questa inedita trinità una matita, un pezzo di carta Fabriano e i quattro cantoni operativi pronti a battermi il frustino sul polso qualora mancassi il calcolo. Si stendevano gli dei dentro i nuovi confini del potere coordinativo congruente alla circonferenza neofita; un certo quantitativo di sole, di acqua, una certa ammonizione del vento, il filo d'erba esattamente accanto alla pietra, la pietra, non una fotocopia proveniente dall'incontro di bagliori verdi con archetipi alieni, un petalo esattamente nella tredicesima posizione di una corolla dorata, anch'essa situata all'incrocio di precisi meridiani e paralleli srotolati per detonazioni variopinte, sulla margherita prossima ad una crudele scomparsa dentro grigi mari pietrificati, la sua scomparsa. E in questo microcosmo l'evento ha una durata compresa tra estremi reali, armonici, determinati, involontariamente ho creato Dio e l'Eden, un angolo di mondo dal quale oltre si può prescindere, dove si può morire perché la destinazione è unica, la terra, anche le cose sono uniche,una proporzione senza orizzonti a cui ho elargito un metro di cielo soltanto.
Betonierafioremattone è da abitare. Mi sono piccata di poter fare lo stesso con la mia vita, mettendo a sistema gli avvenimenti principali, scrivo sul mio straccio cartaceo: Nascitavitamorte, ma termino l'ultima lettera con prematuro sconforto. Il mattone esiste, eccolo là tra i cespugli verdeggianti, anche il fiore e la betoniera esistono, proprio lì, sforzando un poco gli occhi, ma la mia nascita, dov'è? Da qualche parte la sento sobbalzare nella tasca impressa in caratteri neri sulla carta d'identità, e la mia vita, la mia morte? Mi sfuggono i capi di questa sequenza fatale, la bruma dell'oblio preme indefessamente ai vetri del principio, fluttuante l'atto ammutolisce il resoconto complessivo sul trascorso, un documento ideale che tutti ci consegniamo all'uscita dal tunnel mondano.
Bel risultato, eccomi, un'origine incarnata su piani cartesiani apparentemente disabitati, lo spirito mi gira intorno come effusioni fantasma affezionati alla tomba. Mi sono ricreduta, temo che tornerò a cercare almeno di partecipare alla beatitudine del piccolo regno di Betonierafioremattone. Mi appiccico al muro, la zanna del sole ferisce i panneggi confusi sulla felpa bluastra e lo squarcio abbacinante che stampa su questa promiscua scultura crepuscolare. Fuori quelle presenze esistono subissate nel loro gaio non-essere, forse col sole anche un'anima abbandonata può godere della completa omogeneità della perdita, forse può dimenticare d'essere, rompere la funzione e aver fame di oggetti invece che d'infinito. Perchè se così fosse le parole mi penetrerebbero di nuovo come sostanze amiche, smetterei di cercarlo ovunque, lui e l'infinito (che poi sono la stessa cosa), imparerei a contare gli arcobaleni che cadono, a staccare gli occhi da volte sempre bianche costellate da astri carbonici.
Niente, invece. Mi accorgo di essere immobile, avverto le distanze oltrepassarmi indisturbate come bestie ai piedi della vedetta, semplicemente mi risale dallo stomaco il roboare dei sentimenti tristi rammentandomi il carico simbiotico che nessuno spazio potrà mai risanare, bensì io lo riempirei di incubi, persino là, accanto alla betoniera che uccide il prato il cuore continuerebbe a morire senza tregua, questa cittadinanza che è quasi l’anatema delle nuvole sutura soluzioni infinite tra me e il tutto, apre precipizi invalicabili ed estremità che non si possono toccare risorgono dalla riflessione illuminate dal giallo acido di una tangente fittizia costituita da corrispondenze tra telefoni isolati, un’esistenza che ho, un’esistenza deformata dalla nebbia ontologica nostalgica dell’insofferenza consunta di una montagna. Col dito disegno sul muro la traiettoria dell’avvicinamento, l’immaginaria propulsione numerica che realmente potrebbe approssimare i centri, traversare le intermittenze grafiche immune al crollo mediante la codificazione dell’esperienza in estensione, trasponendo la dimestichezza con la materia inanimata in un prodotto capace di stabilire nessi empirici elevati al punto di potersi definire conoscenza, interiorizzazione, mutuo travaso.
Non mi arrendo, riacchiappo il foglio squadrato scarabocchiando valori sopra lo zero, il graffio che mi feci da piccola cadendo dalla bicicletta, una schiacciata al muro, le riflessioni attinenti (ecco perché moltiplico invece di aggiungere) , tutto pianamente assume il suo profilo matematico. E anche qui mi interrompo in un’attenuazione dell’euforia, una scheggia presaga deve essermi schizzata addosso dallo sfreghio della punta sul piano di lavoro, mi prende d’un tratto la consapevolezza d’una stupidità tale che vorrei cancellare tutto quello che ho scritto fino ad ora. Bisognava redarre un prospetto delle proprie ricordanze cavandone fuori un avanzamento decente, invece copro una lacrima con la frangetta scomposta perché vedo che ogni anima si chiude con un desiderio inconfessabile, una defezione straziante o un promettente progetto a metà, lo zero incolmabile di chi ha perso, continuamente perde e deve perdere così, per uno zero terminale ed annichilente, uno zero soltanto! La lontananza impercorribile dall’amorfo ha un nome, si chiama bisogno. Oggi non avrò scovato i casi soddisfacenti le condizioni di tangenza, ma almeno ho capito una cosa: che continuerò a cercarle per sempre, aggiungendo altre caffettiere allo spazio tra due tower, altri quaderni, cartelli, sacchetti di plastica, album da disegno, accumulerò compagnie su compagnie. E tuttavia tutte contempleranno sempre il solito inestinguibile metro di distacco tra due tower.

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sabato 28 novembre 2009

Pudore

C’è un vestito che mia sorella puntava da un pezzo, anche se lei non è proprio per i vestiti e preferisce le magliette e cose simili, che questo capodanno da venire avrebbe voluto indossare con le amiche, e ieri con mia madre e un mezzo stuolo di st’altre ragazzine è andata a Riccione dove si trovava, per vederlo e semmai comprarlo come regalo di Natale, visto che non si sa bene che desideri ricevere e solite storie, ma nelle vetrine del negozio non c’era più. Nonostante mamma insistesse, visto le storie che aveva fatto con ‘sto vestito i giorni scorsi, di chiedere alla commessa se l’avevano ancora eccetera, mi’ sorella s’è limitata a buttare un occhio alle cose in negozio, senza comprare niente e senza nemmeno più sapere se l’abbiano ancora o no, quasi non gliene fregasse in realtà nulla. Credo che il suo sia pudore.

sabato 14 novembre 2009

Antichi Maestri

"[...] Ero lì seduto e guardavo le lettere che mia moglie mi ha scritto nel corso del tempo, e mi sfogavo piangendo. Naturalmente ci abituiamo, col passare dei decenni, a un essere umano e lo amiamo per decenni, e alla fine lo amiamo più di tutto il resto e a lui ci incateniamo, e quando lo perdiamo è davvero come se avessimo perso tutto. Ho sempre creduto che fosse la musica a significare tutto per me, a volte anche la filosofia e il prodotto letterario di alto, altissimo, di supremo livello, così come ho creduto che fosse semplicemente l'arte in generale, ma tutto questo, tutta l'arte, quale che sia, non è niente se paragonata al solo e unico essere umano che abbiamo amato. Cosa non abbiamo fatto a questo solo e unico essere umano, disse Reger, in quante migliaia e centinaia di migliaia di sofferenze lo abbiamo precipitato questo essere umano che abbiamo amato più di ogni altro, come lo abbiamo tormentato questo essere umano, pur avendolo amato più di ogni altro, disse Reger. [...] Tutti quei libri e quegli scritti che io ho raccolto nel corso della mia vita e ho portato nell'appartamento della Singerstrasse per poi stiparli in tutti quegli scaffali alla fine non sono serviti a niente, io ero stato lasciato solo da mia moglie e tutti quei libri e quegli scritti erano ridicoli. Crediamo di poterci aggrappare a Shakespeare o a Kant in un momento così, ma è un'illusione, Shakesperare e Kant e tutti gli altri, che noi nel corso della nostra vita abbiamo innalzato al rango di cosiddetti grandi, ci piantano in asso proprio nel momento in cui avremmo un grandissimo bisogno di loro, così Reger, non sono una soluzione per noi e non ci sono di alcun conforto, d'un tratto essi sono per noi semplicemente disgustosi ed estranei, tutto quanto hanno pensato e poi anche scritto quei cosiddetti grandi, importantissimi personaggi, ci lascia indifferenti.[...] Lei capisce che cos'è il vuoto quando ad un tratto si ritrova tra migliaia e migliaia di libri e di scritti che l'hanno completamente abbandonata e che di colpo per lei non significano più niente, se non appunto questo vuoto atroce, così Reger. Quando lei ha perso la persona più vicina al suo cuore, tutto le sembra vuoto, dovunque lei guardi tutto è vuoto, e lei guarda e riguarda e vede che tutto è realmente vuoto, e lo sarà per sempre, così Reger. Così capisce che non sono gli spiriti magni e neppure gli Antichi Maestri che l'hanno tenuta in vita per decenni, ma solo quell'unico essere umano che lei ha amato di più di ogni altro. E lei, con questa ammissione e in questa ammissione è solo, e niente e nessuno può esserle d'aiuto, così Reger. [...]"

Thomas Bernhard, Antichi Maestri.

giovedì 5 novembre 2009

Siamo svegli, ovvero un discorso intorno alla poesia

Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.


Santo Dio. Santo Dio. Non è davvero servito a niente. My nerves are bad to-night, come si dice. Il punto, signori, è quando uno per qualche anno ha scritto poesie e poi ritornano, come la notizia della morte della zia che avevamo lasciato sul balcone, protetta dall'insormontabile montatura marrone degli occhiali. Lì l'avevamo lasciata, e così la notizia delle poesie torna, indistinguibile dalla sua morte. E voi, signori, voi scrivete qualche poesia, adesso. Io lo so, vi ho visti. Eravate con me, sulle navi. Questa vorrebbe essere la prognosi. Come ci si sente quando non si possono più scrivere poesie. Ma no, non è poi che lo si possa dire. Ma per l'amor del cielo, sappiate che la poesia finisce. Come l'acqua per la notte. Come la naftalina nei comodini. Deperibile, è una bella parola. Se permettete, c'è un complemento d'argomento, di mezzo. E dunque se ne parla, mentre tutto si sfibra ne parliamo. Siamo educati, abbiamo addosso i gingheri di Amleto. Guardate come crolla, guardate come i topi zampettano altrove. Guardate, parliamone, un dibattito, una tavola rotonda. Io chiedo spesso, alle donne che amo - che ormai sono migliaia, è proprio vero - io chiedo: ha fatto bene Parsifal a partire, nonostante la madre piangesse?

Pregate che i calamai spariscano, non muovetevi di un millimetro. Alla poesia si incolla la vita come alla carta moschicida. Sia chiaro, è pericoloso. Quando andrà via, sarete meno che prima. Non rileggetevi, è atroce. Violento, profanatorio.

Il triste vento. Questo è un mondo, davvero, senza lirica. Un mondo che si ordina e si dispone per impedire la lirica. Perché come ricorderete, gli eventi sono indistinguibili dai sassi e dalle loro parabole, e la matematica non si nasconde i genitali ed è univoca fino alla crudeltà. Io credo invece che vi siano molti peccati originali, e ognuno erediti il proprio secondo confuse linee di sangue e araldiche negoziate. Io credo che quando la poesia ci lascia, noi sopravviviamo a stento. Scrivere è chiamare la notte artica e nel silenzio incidere anatomie vitruviane di come si sfarina il proprio viso, lungo quali labbra e quali connotati e annotazioni sulla durata del processo. E i rimasugli sulfurei.

Tutto questo ha un nome da dottrina sociale, "opzione prefenziale per il cadavere". Ed è diventato di nuovo un maledetto stream, ovviamente. Non so più scrivere, credetemi, santo Dio. Certo mi consolerebbe la scrittura così arrendevolmente desueta di una che non conosco. Io, per me, mai che sia riuscito ad essere desueto e vivo nello stesso momento. Chiaramente non risponde, però. Di tutti i mondi possibili, ci è capitato il più poujadista. Bello schifo.


but always at evening time she cried.

Alla finestra, è notte

Alla finestra, è notte

Il buio artificiale
dei cavi elettrici
rimossi
non è altro che
il prolungamento
del cieco divenir.

E la passione
per le fondamenta,

(lei)
non c'è più.

mercoledì 4 novembre 2009

magis quam custodes auroram

– e che vada così, quindi, per questa gola

di marna agli incastri del porfido:

una crepa per chi va per queste strade

e osserva e ascolta, dalla facciata

ai lastrichi di marmo; e fermi, un poi –


(i rosmarini stanno lì, come un’apparizione

dal basso, nel vialetto: strane ricorrenze

fra le siepi della Cappella Espiatoria, mozzi-

coni spaiati in riflessi acquosi dalle zebre;

contatti, lumini o sirene viola a navigare)


un poi, dunque: di questo, un futuro

più o meno alienabile dal caso: un odore

su mani da cui farci trascinare, prede

sole a questo buio: o magari, cemento


e cemento fra chi va per queste strade

e osserva e ascolta; patrioti dal niente,

ma davvero, almeno fino a un segno

in questo squarcio di voce, distratti

attendere l’ora in cui gridare terra

venerdì 30 ottobre 2009

La ragione sufficiente per la quale Candide e Cunegonda stanno tre metri sopra il cielo.

So di sfondare portoni aperti ma una piccola riflessione sul migliore dei mondi possibili non potrei di certo negarmela.
Partiamo dalla tesi A ovvero: “le mie basi filosofiche per poter parlare dell’Illuminismo sono pari a quelle di un buon selvaggio” (che sia stato dotato dalla Natura di notevoli deficienze mentali però). Applichiamo l’antitesi B ovvero: “Sto cercando di recuperare studiandolo nel migliore dei mo(N)di possibili”. Arriviamo alla sintesi?
Ehm…no, la sintesi a Cartesio e i suoi fratelli era cosa sconosciuta, impensabile, e quindi ci teniamo tesi e antitesi e se qualcuno vuol ribaltare quest’ultima (vi sfido!) si accomodi pure.
Detto ciò, che, in fondo poi, è come non aver detto niente, c’è sempre qualcosa di molto divertente come il Candide che permette anche un po’ di lirismo originariamente inteso, quindi, perdonate la parentesi in prima persona dell’incipit ma è necessaria premessa e autodafé non richiesto.


L’evidenza delle posizioni di Voltaire, mi perdonino i Leibniziani presenti e assenti, non può che essere condivisibile per cui una riflessione su questo ipotetico migliore dei mondi possibili mi parrebbe inutile. Una soluzione sarebbe quella di giocare, d’azzardo s’intende, a dare per scontato e per assurdo che possa avere ragione. Giochiamo, dunque, al gioco dell'Arouet ma nell’anno domini MMIX e analizziamone empiricamente ragione sufficiente, cause ed effetti.
Pangloss, e non ditemi che non ne avete mai conosciuto uno se no meritereste di finire insaccati in un sanbenito, impiccati per sopravvivere e finire su una galera, direbbe che ad ogni causa corrisponde un effetto, ebbene, questa è un’ipotesi risibilissima.
Vorreste dirmi, dunque, qual è la causa per la quale esiste nell’editoria italiana qualche scellerato che continua a propinarci mensilmente, neanche fosse un ciclo lunare, delle nefandezze orripilanti?
Non vorrei leggere domani una risposta tipo: “il denaro”, quello sarebbe né più né meno che un effetto.
Appaiono certe cose che, a dirle, si ha l’imbarazzante sensazione di sparare sulla croce rossa ma, empiricamente, ce le ritroviamo alla “M” nello scaffale letteratura italiana a meno che qualche libraio di buon cuore non abbia avuto la decenza di spostarle fuori dalla porta e farle marcire lì in un collo di cartone insieme ad un cartello con disegnato un cane e con su scritto “se sono buono posso entrare, se sono lettore di Moccia e di Coehlo no”.
E sì, alla “M” c’è un orrore di tal fatta che, a confronto, le vicissitudini del buon Candide non sono altro che un parco dei divertimenti e in fondo anche noi, come lui, se abbiamo avuto la fortuna di schivare in blocco lo scaffale degli Oscar Mondadori, classici esclusi, ci sentiamo veramente dietro al velo con la Cunegonda ad esplorare la ragione sufficiente che ci ha spinti, deo gratias, a varcare la soglia del libraio di fiducia.
In questa beatitudine non sarà certo il barone Thunder- ten- tronck a espellerci scalciando stile mulo sul nostro scientissimo deretano ma noi stessi ci autocalceremmo, potendo, non appena, mentre di fronte ai Feltrinelli decidiamo se questo Mishima e i suoi Forbidden Colours potrebbero far smettere di brontolare il nostro stomaco che già pregusta un pasto di lettere allineate in modo decente, scorgeremo lì a fianco l’incredibile scritta 3msc e ci accorgeremo con costernazione che non si tratta di una crociera nei mari del Giappone.
Ora, nel migliore dei mondi possibili non vedo la ragione sufficiente per la quale si debba dare spazio a certa ottusità e, mi ripeto, il nome Moccia è solo l’esempio lampante della peggiore delle ipotesi, ma c’è molto altro che meriterebbe signori miei e non faccio nomi perché ho paura di finire tra le mani del Re dei Gesuiti e non vorrei trovarmi nella situazione di doverlo uccidere benché mio cognato.
Visto come la ragione sufficiente non arriva neanche alla mediocrità e la causa è sconosciuta, l’effetto è che il mondo intorno a noi diventa lungi dall’essere non solo quello migliore possibile ma neanche uno lontanamente accettabile, soprattutto quando la ragazzina a fianco a noi allunga il braccio, afferra la maleodorante copertina azzurra e scappa correndo verso la cassa, non sia mai che le si attacchi un Dostoevskij addosso, azzannandola.

Quindi è il caso che opera per vie a noi ignote, il caso e la casualità come motore del mondo e del libro stampato e su questo, perdonatemi, ho una mia teoria del tutto slegata dalla civiltà dei Lumi e dalla sua opprimente razionalità.
Si tratta della nuova politica di assunzione degli editori nostrani che bada al risparmio e ha comprato da Cocomo una partita di schiavi della tribù degli Orecchioni in cambio di un montone rosso. Ora, come si sa, gli Orecchioni ascoltano molto bene, ma, a causa quella loro brutta abitudine di accoppiarsi con le scimmie, sono totalmente analfabeti, anche se non a livello della maggior parte dei laureati in lettere negli ultimi anni, e quindi scelgono i libri da pubblicare con l’olfatto: se il libro odora di ferormoni di adolescente passa, se no si butta nella pira funebre dell’esercito dei bulgari. Altre volte uno di loro, bendato, in un gioco simile alla tombola, estrae manoscritti da un pallottoliere ed è qui che ha la preponderanza il caso.
Non venga a bussare in casa mia Martino a darmi ragione poi, che anche a lui ne avrei e molto da dire, niente prediche da un manicheo fuoritempo che crede al bene e al male assoluti, a dire il vero soprattutto a quest’ultimo, potrei avere un attacco di incontrollabile isteria.
Il male assoluto non esiste perché ogni tanto qualcuno estrae dal bussolotto la ripubblicazione di Landolfi, Bene e Pasolini e questo è quanto.


Poi c’è quella catenaccia del libero arbitrio che costringerebbe a giustificare con la scusa dell'autocoscienza questa oscenità, anche se, volendo, potrei imbragarlo punto per punto col metodo cartesiano. Detto ciò, però, l’avvocato Pococurante ne verrebbe fuori con un sonoro: “che noia” e io con lui, si aggiunga, inoltre che io sono una Romantica dell’Ottocento e l’Illuminismo me lo sono levata via dalle scarpe sullo zerbino della Storia non molto tempo fa.
L’unica cosa che ci resta, dopo tanto celiare senza ragione, è la Necessità, quella di vivere riparati e “coltivare il nostro orticello” la rassegnazione alla nefandezza del mondo che uno migliore è possibile, forse, ma non c’è. O no?

sabato 24 ottobre 2009

L'immagine del mondo nella testa

[...] Per quali motivi alcuni suoni simili al linguaggio abbiano una valenza estetica del tutto indipendente dal loro significato non è noto. Si potrebbe supporre che essi richiamino memorie geneticamente tramandate da tempi lontanissimi, quando noi (o meglio, i nostri progenitori scimmieschi) non avevano ancora a disposizione un linguaggio umano e potevano comprendersi soltanto con l'aiuto di un ristretto repertorio innato di grugniti, scocchi di lingua, fischi, ecc., come le scimmie antropomorfe fanno ancora oggi. Varrebbe la pena di indagare fino a che punto la fonetica delle parole amorose si rifà a tali suoni scimmieschi.

[...] Tuttavia è possibile ipotizzare un significato più antico , se si considerano le parti della superficie corporea dove la sensibilità al solletico è maggiore, cioè sotto le ascelle, a lato del petto, sul ventre, sul lato interno della coscia, sulla pianta dei piedi. A parte le piante dei piedi, si può immaginare che sfiorare tali zone del corpo facesse parte dei preliminari di un amplesso, e con un po' di fantasia si può pensare a un ruolo anche per le piante dei piedi. Secondo questa interpretazione, ha assolutamente senso che debba essere un altro a provocare il solletico: da soli non è possibile. E il riso potrebbe essere un ricordo delle grida che accompagnano l'atto sessuale.

Guida pratica allo sbarramento delle finestre, ovvero un discorso intorno alla melanconia

con lucido ascolto della caduta


- Conosci Georges Perec?
- Hai letto Un uomo che dorme?

Che poi, signori, sono cose che si chiedono. E si risponde qualcosa come una risata per dire che, insomma, - qualche volta credo di aver detto che quella risata non è la tua, intendo di Ottavia, ma viene da altrove. Non so se ricordi. C'è da dire che le finestre sono sempre chiuse e questa bizzarra distimia tende a riequilibrarsi da sola. Quel singolo dice che abbiamo letto i libri e poi ci dormiamo sopra.

Come tutti sappiamo, è opportuno ricalibrare la vista e le distanze tra una pulsazione e l'altra del ridicolo. A mia perpetua discolpa, dirò che mi abita un daimon che applaude. Parlo di taumaturgia teatrale, rituale d'imbalsamazione semantica: per sopravvivere alle espettorazioni, agli sbocchi delle parole. Collezioni di organi immobili sotto gli spilli, cataloghi: il ridicolo che arriva ha qualcosa delle macchie d'umido, pretesto per parlare ancora di quella sconfinata antichità delle strutture, architettura che ci precede. Che poi è così stantio il discorso sulla sincerità e la menzogna, mi lascia sulle labbra l'indulgenza dolciastra e un poco scema da trattatelli dei tredici anni: diciamo solo che non c'è da fidarsi. Cave canem, prima che scopra i cadaveri con le zampe.

Pensavo che una volta i gradini del treno erano più alti. Pensavo a Fritz Zorn e alle sue lunghe riprovevoli tirate sul sesso e su come trasciniamo in giro lacrime non piante e seme non versato. Pensavo anche che non capisce niente, Fritz Zorn, e che la morte entra nella vita quando ci si masturba solo all'ombra delle fanciulle di un tempo, passate altrove. E immaginavo, se volete, pletore di figli già invecchiati e morti, per i quali preghiamo e scontiamo sebbene siano davvero all'inferno. Infine mi ripetevo che Freud è un cretino, e anche Zorn, ma non il conte di Segni. Vilissimo, vilissimo sperma.

Era per dire di questo miracolo olografico, quando la carne diventa memoria e alla fine un mattino più crudele degli altri ci disfa. Ne abbiamo uccisi tanti di albatri per mangiare così poco, così nulla.

sabato 17 ottobre 2009

Uno degli umidi silenzi

L'insetto
corpulento: cadente:
descriveva sfarfallando spirali rovinose
- come una foglia che s'inabissi in un etere ineffabile,
da che pendula e secca
sospendeva i suoi svolazzi
in un'attesa nebulosa.

L'aritmia congegnata
del proiettile sacrificale
(studiata in briciole
di secoli)
non sposava lo spegnimento dell'artropode:
unica la morte
putrida e sgradita
lo cullava in quel crepuscolo di felci
- ma era solo un metro quadro di sterpi.

giovedì 1 ottobre 2009

Shift the load to the Lord (Pacific Trash Vortex)

Ordinata in quest’unità di tempo,
l’infinita quiescenza delle fronti
è una catena di neoplasie (orditure
replicanti, permeabili) – muscoli
mimici; qualche bocca mutilata
si inarca a raccolta dei flussi –
una ridda di protesi caudali,
metacrilati e basalti alle correnti
dove convergono i rifiuti:

a noi i resti abissali, ancora a galla
in un continuo dispari, nell’attesa
di una violenta saldatura – pressioni
a rompere i coralli, atolli corrosi
in un pudore di crolli concentrici,
esattezze colte a vorticare
alle stesse velocità di deriva –

e ora sposta il peso addosso a Dio
in quei trenta metri verso il basso,
dalle forche dei processi sotterranei
– ogni singolo un catetere di sonno
irrigidito, a comprimere i fondali –

così, gonfi quasi come gli annegati,
noi; reti di plastica o cautele
oltre le sezioni di una barriera:

a separarci dalla prossima deriva,
solo l’ampiezza e la durata delle sbarre
annidate in coste, porzioni di trascorso;

a noi, di nuovo, il tesaggio delle àncore
a mare, sulle ultime sponde, un approdo
devastato dal verso flebile dell’avvenire.

lunedì 28 settembre 2009

10 pt. al migliore

La seguente domanda è della teutonica Adele Kroninberg, a voi.



Sabato ho incontrato il mio Doppelgänger. La mia sosia, proprio la stessa faccia, uguale, spiccicata. Anzi no, non l’ho conosciuta. L’ho solo incontrata. Tutto all’improvviso.
La mia domanda è questa: come posso convincerla della necessità cosmica che noi due, cioè io e lei, si scopi? Insomma, come posso provarci con lei? O più in generale, come si fa a provarci con qualcuno? Io ne sono totalmente incapace. Non ci ho mai provato con nessuno. E non ci ho mai provato con nessuno proprio perché non ne sono in grado. O il contrario, probabilmente. Non so proprio come si fa, sono inetta, timida. Avevo pensato di leggere Ovidio in traduzione turca, ce l’ho in casa, oppure il “Laberinto d'Amore di Messer Giovanni Boccaccio, aggiuntovi nuovamente un Dialogo d'Amore molto dilettevole” (non è vero, questo non ce l’ho), oppure di chiedere a qualcuno. Di chiedere a qualcuno, sì.
C’è da considerare che lei potrebbe essere come Deborina (http://www.youtube.com/watch?v=hqhdMjYWYks), così cretina che non ti si alza (perdonatemi, non so declinare il concetto al femminile), ma resterebbe comunque la mia sosia. Il mio Doppelgänger, voglio dire.
Io poi non sono neanche colta. Ho letto sei libri su come sembrare colti. Sono disposta a leggerne anche altri 967 (di libri su come sembrare colti), ma, chiaramente, non posso ancora dirmi colta.
Ho anche il secondo dito del piede più corto del primo. Anni fa, non mi ricordo di preciso quando, ho passato molto tempo a osservare i piedi in molti quadri. Niente, nessuno che avesse il secondo dito più corto. Voi non sapete. Non sapete del Pomerium che c’è tra noi col secondo dito più corto e tutti gli altri. Ma Non possiamo lamentarci Cresce l’erba, il prodotto sociale, l’unghia delle dita, il passato. E poi, sarà che mi ispira l’invidia, ma certi piedi col secondo dito più lungo sono proprio una merda, come lui (http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/5/55/Jean.jpg/250px-Jean.jpg). E anche troppo fallici.
Da un po’ di tempo scrivo, proprio come gli spiriti artistici. Scrivo di quello che mangio, elenchi minuziosissimi. Me lo ha detto la psicoqualcosa. Sono pezzi facili, cose così:
-Vaschetta di gelato intera (h 18,00)
-Tutto il pane che ho trovato (h 19, 10)
-Due dita in gola, santoddio (h 19, 20)
Roba che nemmeno Ammiano Marcellino.
È una malattia con un nome che non mi ricordo, una parola che un po’ somiglia a “bungee jumpy”, mi pare. In fondo, siamo sinceri, al giorno d’oggi esistono ben poche malattie. Prima di Ippocrate e anche all’inizio di Ippocrat3e, ce n’erano un mucchio, erano anche più magiche. La polischidia nosologica, quella. Oggi no
Queste cose non le dico mica così per dire. Tutto c’entra col fatto che non so come si fa a provarci e non ci ho mai provato con nessuno, almeno così mi sembra.
La psicoqualcosa non mi rispetta, concorre tutta una serie di motivi. Oltre al fatto di avere un morbo da tredicenni e di avercelo anche da ben prima dei 13 anni (boh, in forme diverse), c’è che non sono colta, come ho detto sopra e poi ci sono i capelli. I capelli. Prima capitava (prima, cioè anche 8 giorni fa) che li tagliassi in modo raccapricciante da sola e osassi anche varcare il limen. Qualche giorno fa, però, sono andata da un parrucchiere con un tariffario alto, sempre allo scopo di essere rispettabile. Un po’ dopo ho incontrato la mia sosia.
Mi hanno anche consigliato di non dirle che è bella, nemmeno che è carina. Insomma, è la mia Doppelgänger, sembrerebbe che io mi dia delle arie e la gente direbbe: “quella tipa si dà delle arie”. Io, in effetti, non ne avevo la minima intenzione (di dirle che è carina). Un ragazzo carino è Jacques Paul Migne, per dire. Più carino persino di David Hume. Io invece no.
Certo, faccio quello che posso. A volte leggo l’Enchiridion, ad esempio. Questo è uno dei miei passi preferiti: [Chirurgica operatio, qua sterilizatio obtinetur, non quidem est 'actio intrinsece mala quoad substantiam actus' et ideo licita esse potest, si quando ad salutem et sanitatem curandam est necessaria. Si autem ideo peragitur, ut prolis procreatio impediatur est 'actio intrinsece mala ex defectu iuris in agente', cum neque homo privatus neque auctoritas publica directum in membra corporis dominium habeat quod eo usque extendatur…].
Non ne ho una versione cartacea. Ero stata vicina ad averne una, un tempo. Una storia noiosa, come tutto il resto: qualche estate fa, avevo 14 anni (quindi 4 anni fa) frequentavo un vecchio prete, uno zio di mia madre. Mi sembrava una cosa sufficientemente pheega, come ei Dubliners. Come nei Dubliners, intendo. Aveva moltissimi libri. Era un gesuita, un patrono medievale delle arti. Rimbambito, anche. Poi è morto. È morto a novembre. Mi aveva lasciato la biblioteca in eredità, proprio nel testamento (una cosa ancora più figa, innegabilmente). Ma dei parenti (quelli cattivi, si capisce) manomisero il testamento, dunque niente. C’è da aggiungere che quelli erano veri parenti, di sangue, col sangue e per il sangue. Mia madre era una nipote adottiva, posticcia. E io la figlia di una nipote adottiva e posticcia.
La mia domanda è ancora questa: come si fa a provarci con qualcuno (con una sosia, in particolare)?

Ciao

sabato 26 settembre 2009

Call me Ishmael

“Gather'd in shoals immense, like floating islands”

Che le balene volino non è certo un mistero. Che somiglino ai dirigibili, nemmeno. Il ventre imbottito di elio, le atmosfere, l'alluminio: in una balena tutto, davvero tutto fa pensare a un dirigibile. Perciò le balene galleggiano sulle nostre teste - ma come gabbiani, portate dal vento, senza muovere un muscolo. Planano dalla ionosfera fino al nostro cielo, così basso, e vengono per noi. E noi a vederle piangiamo a dirotto, perché ci sembrano la pace.
Ma ciò che più ci intenerisce è la loro sbalorditiva somiglianza ai morti. E non mi riferisco solo alla coda, o alla pinne, ma a questa mania di spiaggiarsi, di finire il fiato. Così, oggi, nessuno saprebbe distinguere il canto di una megattera da quello di un morto.
Non è un caso, infatti, che gli antenati delle balene fossero mammiferi, e che venissero sulla terra per partorire. Alcuni cuccioli scavarono tunnel fino al centro della terra, e col tempo divennero placche tettoniche. Altri restarono sulle rive, ed ora sono scogli. Noi stessi siamo i discendenti dei primi cetacei, sfuggiti al riflusso delle acque, alle cieche mosse delle testuggini avviate al mare. Non siamo enormi, è vero, ma siamo stanchi, e la stanchezza è un esito dell'enormità.

Le balene sono, si capisce, animali acquatici. Le spugne cicliche che emergono con uno scoppio, un risucchio verticale. Una parabola, un monito: “noi abbiamo portato l'acqua sulla terra; e cosa possiamo sperare se non che evapori?”. Il Vangelo secondo Moby Dick.
Per noi uomini una balena può essere Avalon o Atlantide, indifferentemente. In ogni caso un'isola, un continente primordiale e immacolato, la placenta sciolta della Pangea. Un capodoglio che si morde la coda. Un eterno ritorno impacciato, l'esatta forma del cosmo.
Quel che importa davvero delle balene, comunque, non è il nome. (Questo vale, invece, per i gatti). Quel che importa è che su di loro grava il silenzio immane del sangue. Sono creature agoniche, stremate da una tenerezza terminale. Tutti gli uomini muoiono in un solo modo: di morte. Le balene, invece, muoiono di peso. Per questo precipiteremo tutti - o, se preferite, coleremo a picco: per il loro peso, in bilico tra gli oceani e i nostri tetti. Una curiosa “fedeltà alla terra”, un tributo alla gravità, la grancassa sfondata degli inizi. L'addome liquido di Dagon, dagli abissi. Tutto è vanità e un rincorrere il vento, certo, ma l'ago della bilancia trema ancora. E sui piatti non troviamo un soffio nel dio, ma un peso di balena, il tracollo delle acque. Le sacche del diluvio pronte a esplodere, l'eredità dei nostri padri che precipita il perdono e ci scorta con la sua mole smisurata, ci tende la sua pinna caudale. Il Leviatano addomesticato.

Infine: è plausibile che le balene si radunino sulla luna con una certa frequenza, assieme a tutti gli altri oggetti. Dall'Oceano Pacifico al Mare della Tranquillità, in un tonfo di sonno. E così spieghiamo le maree: quando le balene nuotano sulla luna le acque si ritirano, per poi alzarsi al loro ritorno.
Per questo motivo le balene sono davvero palloni aerostatici, mongolfiere lunari, palpebre allagate di stanchezza. E si fanno carico del nostro sonno. Poiché il sonno di una balena è sempre spaiato, sacrificato ai polmoni, al respiro volontario. Una veglia inesausta, lo stillicidio dei sommersi. Giacchè nel sonno non c'è peso. Come nel mare, come sulla luna.

Questo, signori, è quanto ho visto delle balene, almeno per oggi. Come direbbe il buon Claudio, nessuno ha mai visto una balena, perché nessuno ha occhi abbastanza grandi. Già Agostino, d'altronde, ha spiegato quanto sia vano tentare di mettere una balena intera in una buca. E noi, nelle nostre credenze, non abbiamo che cucchiaini. Buoni per il thè, per lo zucchero e i dosaggi.
A noi resta la consolazione che, fino a quando esisteranno animali immensi, avremo un'ombra sotto cui nasconderci, un rifugio.
Anche se ora non sembra. Anche se ora, nonostante le balene e i dinosauri e gli elefanti, siamo solo brutti, e moriamo di sete.
Anche se domani – lo sappiamo bene - è il peggior domani di oggi.

mercoledì 23 settembre 2009

Una principesca chiaccherata

Una principesca chiaccherata

(In questo abisso
di parole, manca
l'aria)

Era una mia abitudine,
ricordo chiaramente,
camminare con i re
mentre tutto d'intorno
lievitavano i ruderi
dei vocabolari, i
lemmi arrugginiti.

Sappi che, durante queste
passeggiate, si era soliti
dibattere sull'accanimento
degli insetti ai danni della
plebaglia, sull'inesattezza
del linguaggio.

Credimi, mio caro amico,
non compiemmo errore più
grande che dar gli orologi
in pasto agli orologiai.

lunedì 21 settembre 2009

Fenomenologia di Nayuta, ovvero un discorso intorno alle ceneri di Eichmann

Hai mai pensato a quanto sarebbe bello innamorarsi?
Ad essere sincera, io ci ho pensato svariate volte.

Nayuta

E voi, signori, ci avete mai pensato? Onestamente, noi no. Noi siamo della scuola del suonatore Jones. Torniamo dal ristorante messicano, noi, con cinquanta carte di meno nel portafogli e diverse porcate all'attivo. Senza dimenticare l'ipotetica proboscide del formichiere, che è, insomma, roba da assessore di collegio, per come ce ne racconta Gogol. Noi non siamo amati, e non ci pensiamo. Anche se ci pensassimo, ne scriveremmo male. Siamo piuttosto brutti. Malati e cattivi. La nostra stanzetta, le nostre aspirine, conciliano il sonno. Ci fa male lo stomaco. Siamo anche meno intelligenti di Umberto Eco. Non siamo nemmeno di sinistra. Siamo di destra. Estrema. Una sola moltitudine di falliti, io.

Nayuta è una fangirl. Una fangirl di sè stessa. Ci sono le fangirl di Licia Troisi, ci sono le fangirl di Nayuta. Una: lei. Stessa faccia, stessa razza. Noi vorremmo che Nayuta non fosse mai esistita. Ci rattrista. Crediamo che faccia male al mondo, ai pokèmon di Manuel, al pak dei mobili, a mr. Fudge. Chiudiamo gli occhi, li riapriamo, ma Nayuta è ancora lì. Un sasso, fact fact fact . Finiamo di leggere il Mago di Oz - dimenticando a chi lo leggevamo, un tempo: chiediamo di tornare a casa, ma Nayuta è lì, ci precede. Sbarra l'ingresso, ci inibisce lo spazio, il nostro metro cubo d'aria.

Cerco un paese innocente

Nayuta è peggiore di Eichmann. Eichmann veglia su un dominio, quello del numero, che non è umano. Eichmann è cortese, urbano, resta al suo posto. Non è felice, Eichmann è un fermacarte. Mai scritto nulla, Eichmann. Formalina, una creatura di formalina. È un agente dell'immortalità: per diminuzione, afasia borgesiana, tassidermia. Non ha mai ucciso nessuno. La nostra epoca, signori, ha perso il senso del sacrilego. La nostra epoca è inebriata dal numero, conta le teste. Confonde l'ostia col corpo, priva com'è del segreto fermento della transustanziazione. Nayuta pretende vita, la consuma, impone all'ordine delle cose una traslazione brutale, un'evoluzione accelerata e schizofrenica: dalla cellula all'amore, dal primate a Shakespeare. Così che non si distingua più l'uno dall'altro, così che si debba bruciare la città appestata. Terrorismo dell'inclusività, sessantottismo cosmico. Di fronte a Nayuta, l'unica reazione possibile è lo straniamento dell'agnizione stentata, uncanny valley . In lei compare il marchio mefistofelico di ciò che rivendica l'umano, grida per esserlo, sanguina e piange, ma non lo è. Minotauri e cinoscefali, figli del demonio. Preghiamo Dio perché ci liberi da Nayuta, togliendola dal mondo. Quanto a voi, signori:

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

giovedì 17 settembre 2009

Le Trippe di Poliu Gnorize

Poliu Gnorize ed io abbiamo grossomodo la stessa età. Difatti lo conosco fin da quando andavo a scuola. Mentre io andavo a scuola lui sbrigava lavoretti per conto dei negozianti del quartiere. Lo vedevo la mattina che si affaccendava attorno alle bancarelle a tirar su i pacchi e le cassette. Talvolta, la mia aula ricordo aveva delle grandi finestre, riuscivo a scorgerlo per la via mentre correva a sbrigare commissioni. Capitava anche che svolgesse mansioni per il bar del rione e allora ogni tanto lo vedevi anche per i corridoi della scuola a portar su per le scale caffè ai dirigenti. Quando poi capitavano giorni che nessuno avesse bisogno di lui, Poliu Gnorize trovava lo stesso il modo per ricevere la sua paga, magari con inghippi poco ortodossi. Era un bravo ragazzo, in ogni caso, solo era assai povero. Sia di danaro che di intelletto. Ricordo che all'uscita dalle classi, quando anche i negozii della zona ritiravano la baracca, noi scolari incontravamo sempre Poliu Gnorize ancora in giro per la strada. Lo salutavamo ridendo e scherzando e si finiva sempre per portarlo con noi a spasso in quei pochi momenti dove, prima di ritornare a casa, si usava andare in giro a divertirsi comprando caramelle, liquirizie e zuccheri filati, facendo giri sulle giostre e acquistando i giornaletti quotidiani con i fumetti. Ora noi scolari, chi più chi meno, usavamo per questi divertimenti i soldi che i genitori ci davano per il pranzo, mentre Poliu, l'incauto Poliu, utilizzava per divertirsi con noi tutti i soldi che era riuscito a guadagnare la mattina. E non che fossero pochi, mi raccomando, semplicemente Poliu spendeva senza badare al ritegno tutto ciò che aveva in tasca. Egli era sempre colui che al momento del ritorno aveva mangiato più dolciumi, aveva girato più giostre ed in tasca aveva più giornaletti. Soprattutto i giornaletti erano oggetto della sua scialacquatezza: non ve n'era uno che Poliu non acquistasse per se. Ed era in compenso tuttavia colui che si divertiva di più.
Negli anni successivi va confessato che non intrattenni mai particolari rapporti con Poliu Gnorize e anzi, quando il quartiere cominciò a riempirsi di quegli immigrati che tanto ci angustiarono all'epoca e andava degradandosi più di quanto non fosse già degradato prima, persi ogni contatto con lui in quanto mi trasferii, come altri, con i miei. Lo ritrovai soltanto una quindicina d'anni dopo, quando tornai nel rione prendendo ad abitare questo mio piccolo appartamento e a dire il vero fummo piuttosto felici di ritrovarci, come possono essere felici due sopravvissuti ad un'epoca accomunati esclusivamente da ciò. Mi resi conto che la maturità non era stata clemente con Poliu, ora alto ed incurvato come se la sua gracilità gli impedisse di ergersi correttamente. Parimenti il viso era lungo e scavato ed era imbruttito da un pizzetto ispido e lungo che egli si ostinava a far crescere. Chiacchierando venne fuori che non solo l'aspetto di Poliu Gnorize era peggiorato. La sua scarsa oculatezza nei confronti del denaro e degli affari era diventata quasi proverbiale nella zona ed egli non era oggetto di continue truffe soltanto perché non aveva i soldi per cui essere truffato. Una volta mi trovai a passare per la sua abitazione e da allora raramente oso lamentarmi per il cattivo stato del mio appartamento. Poliu abitava in una stanza seminterrata, umida, sporca e con solo due sottilissime finestre. Nella stanza si trovavano un materasso con qualche coperta adagiati per terra su un due assi di legno, un basso tavolinetto tarlato con sopra un fornelletto a gas e qualche rimasuglio di cibo. Posata a terra si trovava anche una lampada, sempre a gas, in quanto durante gli ultimi lavori nel palazzo la stanza di Poliu era malauguratamente rimasta tagliata fuori dalla rete eletrica. Infine, per tutta la stanza, lungo le pareti ed in mezzo sul pavimento, c'erano accatastate innumerevoli ed altissime pile di giornali a fumetti di ogni foggia e pubblicazione, catalogati con insospettata perizia. Poliu Gnorize, ebbi modo di concludere, non era assolutamente cambiato dai tempi della sua infanzia.
Fu la conoscenza così profonda di questi aspetti per cui mi stupii sommamente quando, incontrato lo Gnorize al mercato dietro un carretto di trippa, chiacchierando mi disse che era lui il proprietario di quell'attività. Poliu Gnorize impiegato nelle trippe? Poliu Gnorize investitore? Che avesse tenuto nascosto al mondo intero per tutti quegli anni di come anche lui in realtà fosse capace di ricavare un reddito durevole? Di dove si era procurato il denaro per mettere in piedi un' attività? Si, pur modesta come può essere il gestire un carretto di trippe, ma pur sempre un'attività. Non riuscendo a trattenere la mia curiosità chiesi informazioni al riguardo allo stesso Poliu. Lo trovai molto felice della domanda, e mi diede appuntamento per quel pomeriggio in un bar del rione promettendomi spiegazioni.
Ecco dunque giungere il pomeriggio e ritrovo Poliu Gnorize effettivamente seduto ad un tavolino del bar indicatomi, intento ad ordinare al garzone qualcosa di fresco da bere. Che capovolgimento! Mai, davvero, mi sarei aspettato di vedere un giorno il povero Poliu seduto ad un cafè per bersi qualcosa e chiacchierare. Ruppi gli indugi e mi feci dunque avanti.
“Poliu, Poliu! - salutai – Eccomi qui, infine!”
“Oh, mio carissimo e speciale amico, accomodati, allora, ti prego!”
E dopo esserci abbracciati ci sedemmo. Chiacchierammo piacevolmente di cortesie ed io mi feci portare un'acqua tonica per rinfrescarmi, tanto era lieta l'atmosfera. Venimmo poi, sempre assai lietamente, al dunque.
“Poliu, piuttosto, dimmi un po' allora com'è che sei finito a tirare quel carretto di trippe che t'ho visto al mercato.”
“Ah, gran cosa questa, Aristandro, gran cosa davvero!”
“Dimmi, dimmi, ti sarai fatto prestare i soldi da qualcuno, un fortunato ritrovamento?”
“No, no...”
“Un amante, allora! Hai incontrato qualcuna che ti sostiene?”
“Nemmeno, nemmeno”
“E cosa, allora, Poliu? Non riesco proprio ad immaginare! Quale meraviglia...”
“Lagrime, Aristandro, proprio una meraviglia: lagrime!”
“Lagrime?”
“Lagrime! Ascoltami che ti racconto. Eccomi l'altro giorno che passeggio per i giardini e ad un certo punto mi capita di sottecchi un giornale, aperto sulla pagina della cronaca mortuaria.”
“I morti?”
“Si, i morti. Allora per curiosità mi metto a leggerlo ed ecco che chi ti vedo? Morto Perone Discene, per fame. Capisci? Perone morto per fame!”
“Non lo conosco, chi fu questo Perone?”
“Ci dividevo la stanza! Non m'ero nemmeno accorto che fosse morto! Venni poi a sapere che l'avevano portato via gli altri condomini mentre io dormivo. Ogni giorno lo vedevo buttato li, accasciato contro le pareti e mi limitavo a dirgli il buongiorno e la buona sera, ed ecco che lui mi muore! Lì per lì non me ne importa gran che, poi però rifletto sull'argomento e mi rendo conto che anche io conduco la stessa vita di Perone. "Forse che anche io morirò di fame come lui" mi dico? Vengo colto così da un'indicibile angoscia e corro a casa per piangere. E piango, Aristandro, piango disperato e proprio piangendo ecco che mi viene incontro la salvezza!”
“Quale salvezza?”
“Le mie lagrime, le lagrime di cui ti dicevo! Cadendo a terra, esse si trasformavano in trippa!”
Ero sbalordito, dunque le trippe che vendeva Poliu al mercato erano frutto delle sue lagrime? Incredibile, riusciva financo a venderle!
“Ecco dunque che mi sono sistemato, vendo le trippe e mi tengo da parte qualcosa, poi mi mangio il rimanente. Ah, come sono felice!”
Ed era davvero felice. Era così felice che mi spiacque davvero molo dover dire ciò che dissi. Ecco dunque le mie parole.
“Poliu, quello che dici è molto bello, ma devi renderti conto di un fatto. Ora che sei felice, non piangerai più, e se non piangi per la disperazione non potrai più avere le tue trippe”
Era vero, e anche Poliu Gnorize se ne rese conto. Lo lasciai che, scioccato dalla scoperta, ancora piangeva a dirotto.

mercoledì 16 settembre 2009

I gechi nel cranio

Un giorno, PierCarl si svegliò, e, dopo aver salutato sua nonna, apprese che i cereali marroni erano finiti. Questo era indubbiamente un peccato, dato che a PierCarl piacevano esclusivamente i cereali marroni, e non quelli gialli. PierCarl, suo malgrado, fece colazione con i cereali gialli, e, preso il suo zainetto, andò alla fermata dell'autobus, per andare a scuola. Arrivato l'autobus, PierCarl si rattristì improvvisamente, vedendo che al suo interno lo aspettavano dei ragazzi grandi e muscolosi, che si divertivano rubandogli la merenda, scrivendo sulla sua gomma preferita, e picchiandolo con dei grossi bastoni nascosti sotto i sedili dell'autobus.
PierCarl, allegro, arrivò a scuola, dove incontrò i suoi migliori amici, che lo salutarono affettuosamente. Però, PierCarl vide che al banco davanti al suo, era seduto Giorgio, un ragazzo che a PierCarl stava molto antipatico, perchè andava molto d'accordo con Sansòne, la ragazza di cui PierCarl era innamorato. Sansòne, o, come la chiamavano gli amichetti, Sànsone, però,
era a sua volta innamorata di PierCarl, e sperava solo che lui la notasse. PierCarl seguì con grande attenzione la lezione di geografia, però quel giorno c'era solo matematica. Allora la maestra, molto arrabbiata, pose una domanda a PierCarl, ma erano ormai due secoli che il calamaro gigante magnetico non si allontanava dalla sua tana negli abissi marini.
PierCarl era molto interessato alla questione, per cui andò a chiedergli il motivo di tutto questo. Nonostante i buoni propositi di PierCarl, il calamaro gigante magnetico era restio a rispondere, in quanto viveva sott'acqua, e d'altronde i calamari giganti magnetici non sono muniti di branchie nè di pinne dorsali. Bastarono comunque pochi bicchieri di farina di riso a far cantare il calamaro gigante magnetico, che disse di essere intrappolato, per motivi sconosciuti a lui stesso, in una posizione verticale. PierCarl, essendo molto intelligente, capì che era per via del suo rimorso nei confronti di sua sorella, che egli stesso aveva ucciso, molti anni dopo, che era trattenuto in quel luogo, e in quel tempo. Il calamaro gigante magnetico, ringraziato il suo nuovo amico, potè passare ad una posizione diagonale, e provò, felice, ad emergere dal vulcano, ma proprio in quel momento...! E così la squadra vinse il campionato grazie a PierCarl. PierCarl si era allenato
duramente per la sua causa, andando tutte le notti per svariate ore nel parco, che era a quell'ora pericoloso, vista la gente che ci girava, fra cui c'era anche un ragazzo, di nome Sam, che andava sempre in giro indossando un buffo cappello, il quale divertiva molto PierCarl, nonostante il fisico del ragazzo, che andava tutti i giorni in palestra ad allenarsi, facendo degli esercizi che erano molto complessi e difficili, non che PierCarl non avesse provato, essendo stata sua nonna a chiederglielo, e, diciamocelo, PierCarl era molto affezionato alla sua nonna, che, sin dall'infanzia di PierCarl aveva sostituito la madre di PierCarl, che nessuno conobbe mai, e, essendo tutti gli altri genitori, zii, e nonni paterni morti, dovette prendersi lei cura di Piercarl, nella sua piccola casetta di montagna, dove viveva da sola, vivendo solo dei frutti del suo vigneto, e della pelliccia di alcune volpi che passano per i boschi giù in città, dove lei non andava quasi mai, se non per procurarsi la pelliccia delle volpi, di cui viveva, e che, onestamente, non era mai andata a genio a PierCarl,
il quale si cibava per lo più di quello che poteva comprare con i soldi che gli davano i suoi amici, ovvero tozzi di pane e alcuni mucchietti di sabbia, ma proprio in quel momento...! E, con questo, il maniaco era ormai dietro la porta, mentre PierCarl stava sudando impaurito, nascosto sopra al divano. Ma del resto, PierCarl non aveva mai amato come prima, e si baciò.
Quello che questa breve storia ci insegna, è che l'amore risolve tutti i problemi, e che con la forza dell'amicizia possiamo superare ogni ostacolo.

lunedì 14 settembre 2009

Schadenfreude

Schadenfreude

Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere,
neque detestari, sed intelligere.

(Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini,
a non piangerne, a non odiarle, ma a comprenderle.)


Ora, i pozzi letterari sono da lungo tempo avvelenati.
L'untore ignoto, anzi, è stato tanto avveduto da infettare la falda acquifera con demiurgica onnipotenza, sommo Amore. Un intruglio porfirico, dall'odore riconoscibile ai più, assale le narici di chiunque beva da queste fontane. Una miscela velenosa, minerale e antica quanto il logos - e anzi vegetale, estratta dalle radici della pianta dell'immortalità, immortalità, se mai qualcuno ha creduto alla favola di Ziusudra.
Una verdure assolutamente ricercata, come dire che there was good sport in his making. Concediamogli dunque vita e autocoscienza, un'identità e un sesso, e il gioco è fatto.
E no, non parleremo di ossa o di topi in questa sede. Negheremo noi stessi, un paio di volte, ma niente topi.

I sintomi di questa intossicazione paraletteraria, dunque. Sono facilmente riconoscibili, specialmente dopo un'esposizione prolungata e senza il sostegno di amici e familiari che possano fornire una base sicura per il beccheggio febbrile del cervello paziente: malessere psicologico, allucinazioni, deliri imaginifici e, talvolta, una dialettica del dolore oscillante tra masochismo e sadismo. Una prematura e affrettata esposizione alle lettere sembra ridurre le possibilità di guarigione: è anzi probabile che l'ossessione si tramuti in una vera e propria monomania, nei casi più precoci.

Noia e gusto del dolore sono in realtà un'unica entità bifronte: alla profanazione di sé stessi non può seguire che una volonta discontinua, ma pulsante, di annullamento.
Qualcuno ricorderà il landolfiano Ottavio di Saint-Vincent, "a cui bastava che una cosa fosse possibile per intenderla come già avvenuta e per giudicare in certo modo inutile che avvenisse". La più pura delle forme di inedia, un oblomovismo dopo ossessiva torrefazione. Passo necessario, per alcuni uno stallo.
Il passo successivo, per taluni, è la decostruzione ludica della realtà, poi lo sfregio distruttivo - e tra le due sponde sono gettati più ponti del necessario.

Ora, sospetto che questo gusto per lo sfregio sia in realtà un frutto immaturo ed ingenuo della sensibilità letteraria. Specchio di una cultura letteraria ormai ridotta a mera funzione-finzione, sussidio esistenziale generato e non creato da qualche centinaio di letture, un lustro di latino e qualche citazione in francese. Una cassetta per gli attezzi, relativamente economica, con cui simulare le cose possibili. Una macchina di Turing un po' raffazzonata, che processa algoritmi esistenziali ed esperienze sensoriali.
Una volta processate le cose del mondo, resta la passione per le tele tagliate e le serigrafie della Monroe. Passione pericolosa, sul filo dell'esondazione. Se non altro perché fuori tempo massimo - come il gel per chi soffre di alopecia (mi scuserete lo shock estetico di un accostamento tanto smaccatamente kitsch: dovevo farmi perdonare per le prime cinque o sei righe, comprenderete).

Ora, la letteratura è un gioco? Se sì, ha le sue regole? Lascio a voi la risposta. Mi limito a credere che gli oggetti non siano per niente tristi. Nè sono gioiosi. Sono in stato di quiete. La rappresentazione letteraria, simbolicamente elaborata e culturalmente traslata, delle cose del mondo ha l'odore dello specchio di Vento-e-Luna. Cosa è preferibile al silenzio?

E poi, di passaggio, mi capita di pensare a Dante, quasi per caso, e di chiedermi se per lui la letteratura fosse cosa tanto terribile. La drammatica potenza del bonaventuriano itinerarium mentis in deum è molto più che un pezzo di bravura straordinario: è un atto fondativo. Costanti antropologiche e giochi linguistici edificano insieme porte sublimi. L'atto di scrivere sulla soglia con il pennarello non aggiunge niente se non la banalità dell'entropia, che crede di scoprire sé stessa.

I cavalli sono persone malvage, dicevamo.
E il letterato non è un architetto. Più che altro opera tra la sfera del senso comune e quella del sapere amministrativo - scienza e filosofia, a seconda dei casi. Ma credo sia ora di dire che l'autarchia iconoclasta del poeta metrosexual sia pronta per la discarica dei frigoriferi. Ci sono finiti Lucano, Carducci, gli epitomi della poesia francese ottocentesca: siamo in buona compagnia. Beviamo dai calici del sidro e attendiamo fiduciosi il ritorno dei fomoriani dal mare, sulle pianure d'Irlanda.

Veille entre les murs

«immergila in acqua, lascia che anneghi»


per una volta lo spoglio del buio

è soltanto un ricalco alla coazione,

un apparente migrare ai confini

dei desideri: sopra, la reazione

che chiude insieme le cose e i bambini,

lucertole alla ricerca dei passi…


fermateli al limite della veglia

tra mani che deflettono; scostate

le semantiche dei luoghi, sorprese

a zampillare per le vie affollate

(ché gli oggi sono dita da lasciare,

una stretta ossuta, un torcersi d’arti

al riparo dai nugoli di bare:


se l’attimo è infinita processione,

ogni tempo rettile un memoriale

compilato di traverso, un programma

per non muoversi al cambio di canale,

cosa troverò alle pause, gradini

o l’attesa di un sudore dei tempi,

la smania di vederti come ieri?)


fermateci al limite della veglia

tra mani che deflettono i pensieri

o nelle bocche delle nostre madri,

acclusi nelle fessure, apparenti

processioni al migrare dei confini


lunedì 7 settembre 2009

Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, ovvero un discorso sulla sconfinata tristezza degli oggetti

Agli altiforni dell'immaginazione, che bruciano nugoli di sconosciute


Poiché, lo sapete, il mio orsetto – Mr. Fudge, di nome – abita l'armadio come si sta in una sfera di sonno, l'inspiegabile senso teologico delle icone sfigurate. Qualcosa come le salme e il sacro terrore che spandono, così santificate per sottrazione progressiva di organi e vita, fino all'estremo Osiride, fino alla reliquia, il caput mortuum, indizio della Storia e della sua catastrofe. La sua tragedia è quella dell'allegoria fatta cosa, Gesù Cristo e l'oltraggio logico. È la tragedia primordiale della presenza che si desta all'immobilità, del nome che esaurisce i passi misurando la prigionia, e così dispiega una distanza divina e aggiunge al dolore l'incommensurabilità del dolore, una misura sisifea di ripetizione univoca o meglio il kairos, il momento che è per tutti i tempi.

Poiché nessuno soffre come un oggetto, portando nelle piaghe la medesima simmetria. Così la nostra tristezza è l'accadimento delle lacrime, non altro che un molle luogo d'acqua, cui la trafila di esserci ancora oppone dighe. E non spartisce niente con l'assoluto se non il casus belli, la stella orribile che precipita da remote regioni di spazio fino al ciottolo, all'increspatura, al modo tutto nostro – e meschino – di smentire l'assoluto con le algebre, la misura. Quest'immortalità della tristezza, questa redenzione che non ci appartiene, questa è la saga degli oggetti. Gli oggetti nella loro immobilità elencabile, la catacomba enciclopedica istoriata di nomi a distanze uguali – simmetriche – gli oggetti e la loro struggente non-ripetibilità - solo gli uomini reiterano il tempo, abbeverano il futuro di necromanzia. Gli oggetti che piangono un tempo e un luogo e un'assenza assoluta, larvale, una singola lacrima incisa, perché tra la forma oltreumana della tristezza e l'oggetto non v'è differenza che non sia Incarnazione, omousia.

E il mio orsetto – Mr. Fudge, come sapete – generato e non creato, con la mente murata e gli occhi caduti in oblio, non è più distinguibile dall'abbandono né si può dire in altro modo di lui – e non con il racconto dell'abbandono, ma solo con la presenza dell'abbandono, cui io non posso più attingere. Il mio orsetto, vescovo d'un conclave di esseri assoluti che abita gli scaffali, le cattedrali dei mobili, nell'incendio che non termina e non consuma, così fedele all'ortoprassi del dolore da non spostare, nemmeno, da una spalla all'altra la croce.