giovedì 28 ottobre 2010

Midrash delle rimesse

Per estorcere al bicchiere il cartone, le scanalature
flessibili, di tavoli infinitamente risolti nel riscontro
periodico del tappo, la cautela che s’incrocia
sui banconi e più precisamente sul dorso, il sisma
dell’acciaio inox raccolto dentro ai muri, si spostano
le dita, il coinvolgimento: dove procede la separazione
degli involucri, il punto in cui suturano le schiume,
il presentimento della squalifica, la riproduzione
dell’infortunio che si avvera, come credere al fischio?
Niente somiglia alla simulazione, lo svolgimento
di complicità indotto tra la postazione e le buste.
Cos’è questa dizione che si slabbra per rifarsi al piede,
l’evento alla vena, il tuffo nel pieno della traslazione,
lo scivolamento del corpo nel discorso, quanto
l’allungamento sveli una lesione, un’altra fase di caduta
e un bellissimo esterno, l’estremo e il ritorno?
Chiamare al mondo il contatto, quindi vedere
quanto di strano ci liberi l’attimo della discesa
fino allo sbalzo tramortito, il compimento dell’ernia
in tutti gli inguini, l’incrocio di una ribattuta.
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Giustificazione (e, se necessario, ricoeurso):

"Quel che nell'imitazione diventa visibile è, quindi, proprio l'essenza autentica della cosa"

Per dire che la simulazione, insomma, non si configura tanto come possibilità. Piuttosto, come indagine. Esplorare, appunto, lo spettro del possibile, le maglie dell'infortunio, le trattenute, accantonare il ri-serbo, la devozione meccanicistica, trascinare la gamba fino all'anello che non tiene (fatalmente, proprio il TERZO blu). Preferire, una buona volta, l'inesistenza all'insistenza, Dio a Portanova. La simulazione: anche, nelle sue derive estreme: designare i limiti propri dell'immagine, l'impossibilità di replicare la velocità (vale a dire l'impossibilità della stessa immagine di simulare, di dire altro da sé - ad esempio sul dorso nel buio - la mancanza d'aria, la sua bolla di autismo), la scansione che inibisce il pericolo (pensate a Giacometti), la sua insufficienza dinamica, la falsificazione che, di fatto, origina dalla sospensione, dal congelamento, dalla vivisezione frame per frame sui tavoli sterili del laboratorio, la provetta tv, infine, che abolisce l'inerzia chimica dell'evento, la reazione-relazione tra evento e accadimento dell'evento. E viene da chiedersi, anche, se l'evento non esaurisca la propria portata proprio nell'accadimento, e qualsiasi valutazione successiva non sia necessariamente inattendibile (soprattutto: come giustificare un'ulteriore verifica?), incapace di descrivere l'affollamento delle forze in gioco, costretta com'è a forzare le irregolarità in uno svolgimento piano, a frenare il significato cinetico dell'evento fino alla rimozione, alla pacificazione del perimetro. E quindi la simulazione come forma superiore di critica (dove la critica è indistinguibile dall'epicentro, dall'impatto), discorso sull'immagine - e l'immagine, invece, incapace di riferire altro dal cono di luce. Ma, infatti, deferire.

venerdì 22 ottobre 2010

Suite

Cavour è morto a casa e in parlamento, niente colpi di testa per lui ma l’aderenza facile e felice a un’ideale piattezza novarese, al taglio geometrico e distinto: non le fughe con le amanti né interruzioni al suono del campanello o del telefono, né la rincorsa verticale dopo il rumore dell’elicottero in volo o il merlo fuori dalla finestra vago: invece lo scivolare, di piatto, sulla superficie delle cose, con la lama tagliente dell’ombelico spinta per tutti i ripiani, le mensole, i mobili di casa: il pensiero delle ciabatte fuori dalla porta, il conteggio del pane e la lattuga, il ripetersi in tutte le stanze di un bel soffitto a cassettoni.


Il Conte di Cavour con tutto il suo misurato passeggiare non può dar conto della minima ampiezza del suo sguardo né traversarlo fino in fondo, cosa che una mosca può: appiattendosi fastidiosamente tra la cornea ed il reale, spigoloso, spinto fuori: così misura il passo alla sua impronta tra un estremo di abbandono e un diktat: mentre pensa da solo ad alta voce tutto il suo discorso è un ultimatum che ogni giorno rimanda, uguale, al giorno dopo.


Cavour ventitreenne si nasconde vergognoso tra le righe fitte e le foto di Novara Magica: scarmigliato e già gli occhi pignoli di chi non sopporta i puntini alle troppe i del proprio nome: indifferente come un epicureo troppo attratto dalle pietre del proprio giardino e distratto delle piante se non grasse, troppo applicato all’arte di star seduti dritti sulla sedia, rigido impiccato allo schienale: è la sfiga di abitare i baluardi di una città priva di viuzze pur standone lontano né averla mai vista, messa in croce dalla rete gettata delle strade scavate tra cardo e decumano.


Otto Bismark cammina per i portici del centro col passo di marcia della sua sciabola al fianco: ogni inciampo, ogni deviare inavvertito per scampar alla deriva di un passante è il fiorire per l’aria di cicatrici in linea retta: così si sfoga, con centocinquant’anni di ritardo, la pazienza asburgica: contando con lo sguardo e l’aria tersa i fili d’erba dell’aiuola smunta che ha davanti, la raccolta differenziata della carta e le lattine, il ritardo previsto dei treni alla stazione.

lunedì 4 ottobre 2010

"così per conoscere l'immensità bisogna non capire niente, perdere ogni intelligenza, non conoscerla"


come volerla la compassione quando ancora

non siamo che l' infanzia, la mano con cui
reggi quel bicchiere, sortiti a quel qualcosa
che ti porta via, così vicini a questo fuoco?
da cos'è quest'escissione, anni che si tirano
alla lama che li ha presi? oppure l'ira scesa
dai flagelli riparati, contesi per le piaghe
tese al fondo, come a contenere, contendere
le cose, il ribasso della voce? o ancora è il
punto di una stessa diffusione, lo schiaffo
in croce, sottotraccia, insoluto al meglio
dei propri replicanti, di ciò che mi parlò
di te, quanto riposi male queste mie mani?


*

così lontani da un qualsiasi regno, per il punto di fuga, alla rovescia

[dello spettro; la consonanza è disconoscere, assorbire in corpo


Hebron piantato addosso un fucile, controlli e ripartenze con le grate alle

[finestre, sorridere in posa ai documenti sfogliati,


il fastidio che qui la dissonanza siamo noi e la nostra radio sulla strada,

[nebbia che trasmette tutto ciò che è andato e ci fa ancora:


*

come tirare la pelle dei sinedriti
fino a farla saltare, passare per le logge
respingenti dell'aria, posare lo scarto
come un'intersezione, rendere immobile
ciò che si ama con la stessa trazione?

*

non li voglio i dogmi, non ancora, finché
resti il solco della stagnazione fuori dal Verbo
che si è fatto carne dilacerandosi dal Padre,
non voglio nemmeno ciò che è mio se arriva,
solo questa luce non ha smesso di irradiare

*

ho una sola matricola ed è abrasa, sono molti
e a molti sembro, quando una sola è ancora
la tratta per l'approdo, il nuovo arresto per la
medesima scelta di non esserci più per stare
svegli, capirsi nella traiettoria che non ha una
condizione pari, né un termine per questa veglia

*

non basta una sola inondazione a contenere i ghiacci, il ricambio di accordi

[universali, ma è la ripresa semicosciente: la separazione


vede le armonie disimparate, il suono rauco dei sopravvissuti dentro ai cicli

[delle acque che riempiono i sommersi, l'apocalisse semplice,


il non dare nulla da pensare oltre la conflagrazione, l'inutile superamento,

[rovina lucida come il volere degli imbelli


che regge agli spergiuri, deportati nudi oltre lo spazio che si rompe fuori

[da ogni storia e resta esposto in ciascuna voce