lunedì 28 settembre 2009

10 pt. al migliore

La seguente domanda è della teutonica Adele Kroninberg, a voi.



Sabato ho incontrato il mio Doppelgänger. La mia sosia, proprio la stessa faccia, uguale, spiccicata. Anzi no, non l’ho conosciuta. L’ho solo incontrata. Tutto all’improvviso.
La mia domanda è questa: come posso convincerla della necessità cosmica che noi due, cioè io e lei, si scopi? Insomma, come posso provarci con lei? O più in generale, come si fa a provarci con qualcuno? Io ne sono totalmente incapace. Non ci ho mai provato con nessuno. E non ci ho mai provato con nessuno proprio perché non ne sono in grado. O il contrario, probabilmente. Non so proprio come si fa, sono inetta, timida. Avevo pensato di leggere Ovidio in traduzione turca, ce l’ho in casa, oppure il “Laberinto d'Amore di Messer Giovanni Boccaccio, aggiuntovi nuovamente un Dialogo d'Amore molto dilettevole” (non è vero, questo non ce l’ho), oppure di chiedere a qualcuno. Di chiedere a qualcuno, sì.
C’è da considerare che lei potrebbe essere come Deborina (http://www.youtube.com/watch?v=hqhdMjYWYks), così cretina che non ti si alza (perdonatemi, non so declinare il concetto al femminile), ma resterebbe comunque la mia sosia. Il mio Doppelgänger, voglio dire.
Io poi non sono neanche colta. Ho letto sei libri su come sembrare colti. Sono disposta a leggerne anche altri 967 (di libri su come sembrare colti), ma, chiaramente, non posso ancora dirmi colta.
Ho anche il secondo dito del piede più corto del primo. Anni fa, non mi ricordo di preciso quando, ho passato molto tempo a osservare i piedi in molti quadri. Niente, nessuno che avesse il secondo dito più corto. Voi non sapete. Non sapete del Pomerium che c’è tra noi col secondo dito più corto e tutti gli altri. Ma Non possiamo lamentarci Cresce l’erba, il prodotto sociale, l’unghia delle dita, il passato. E poi, sarà che mi ispira l’invidia, ma certi piedi col secondo dito più lungo sono proprio una merda, come lui (http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/5/55/Jean.jpg/250px-Jean.jpg). E anche troppo fallici.
Da un po’ di tempo scrivo, proprio come gli spiriti artistici. Scrivo di quello che mangio, elenchi minuziosissimi. Me lo ha detto la psicoqualcosa. Sono pezzi facili, cose così:
-Vaschetta di gelato intera (h 18,00)
-Tutto il pane che ho trovato (h 19, 10)
-Due dita in gola, santoddio (h 19, 20)
Roba che nemmeno Ammiano Marcellino.
È una malattia con un nome che non mi ricordo, una parola che un po’ somiglia a “bungee jumpy”, mi pare. In fondo, siamo sinceri, al giorno d’oggi esistono ben poche malattie. Prima di Ippocrate e anche all’inizio di Ippocrat3e, ce n’erano un mucchio, erano anche più magiche. La polischidia nosologica, quella. Oggi no
Queste cose non le dico mica così per dire. Tutto c’entra col fatto che non so come si fa a provarci e non ci ho mai provato con nessuno, almeno così mi sembra.
La psicoqualcosa non mi rispetta, concorre tutta una serie di motivi. Oltre al fatto di avere un morbo da tredicenni e di avercelo anche da ben prima dei 13 anni (boh, in forme diverse), c’è che non sono colta, come ho detto sopra e poi ci sono i capelli. I capelli. Prima capitava (prima, cioè anche 8 giorni fa) che li tagliassi in modo raccapricciante da sola e osassi anche varcare il limen. Qualche giorno fa, però, sono andata da un parrucchiere con un tariffario alto, sempre allo scopo di essere rispettabile. Un po’ dopo ho incontrato la mia sosia.
Mi hanno anche consigliato di non dirle che è bella, nemmeno che è carina. Insomma, è la mia Doppelgänger, sembrerebbe che io mi dia delle arie e la gente direbbe: “quella tipa si dà delle arie”. Io, in effetti, non ne avevo la minima intenzione (di dirle che è carina). Un ragazzo carino è Jacques Paul Migne, per dire. Più carino persino di David Hume. Io invece no.
Certo, faccio quello che posso. A volte leggo l’Enchiridion, ad esempio. Questo è uno dei miei passi preferiti: [Chirurgica operatio, qua sterilizatio obtinetur, non quidem est 'actio intrinsece mala quoad substantiam actus' et ideo licita esse potest, si quando ad salutem et sanitatem curandam est necessaria. Si autem ideo peragitur, ut prolis procreatio impediatur est 'actio intrinsece mala ex defectu iuris in agente', cum neque homo privatus neque auctoritas publica directum in membra corporis dominium habeat quod eo usque extendatur…].
Non ne ho una versione cartacea. Ero stata vicina ad averne una, un tempo. Una storia noiosa, come tutto il resto: qualche estate fa, avevo 14 anni (quindi 4 anni fa) frequentavo un vecchio prete, uno zio di mia madre. Mi sembrava una cosa sufficientemente pheega, come ei Dubliners. Come nei Dubliners, intendo. Aveva moltissimi libri. Era un gesuita, un patrono medievale delle arti. Rimbambito, anche. Poi è morto. È morto a novembre. Mi aveva lasciato la biblioteca in eredità, proprio nel testamento (una cosa ancora più figa, innegabilmente). Ma dei parenti (quelli cattivi, si capisce) manomisero il testamento, dunque niente. C’è da aggiungere che quelli erano veri parenti, di sangue, col sangue e per il sangue. Mia madre era una nipote adottiva, posticcia. E io la figlia di una nipote adottiva e posticcia.
La mia domanda è ancora questa: come si fa a provarci con qualcuno (con una sosia, in particolare)?

Ciao

sabato 26 settembre 2009

Call me Ishmael

“Gather'd in shoals immense, like floating islands”

Che le balene volino non è certo un mistero. Che somiglino ai dirigibili, nemmeno. Il ventre imbottito di elio, le atmosfere, l'alluminio: in una balena tutto, davvero tutto fa pensare a un dirigibile. Perciò le balene galleggiano sulle nostre teste - ma come gabbiani, portate dal vento, senza muovere un muscolo. Planano dalla ionosfera fino al nostro cielo, così basso, e vengono per noi. E noi a vederle piangiamo a dirotto, perché ci sembrano la pace.
Ma ciò che più ci intenerisce è la loro sbalorditiva somiglianza ai morti. E non mi riferisco solo alla coda, o alla pinne, ma a questa mania di spiaggiarsi, di finire il fiato. Così, oggi, nessuno saprebbe distinguere il canto di una megattera da quello di un morto.
Non è un caso, infatti, che gli antenati delle balene fossero mammiferi, e che venissero sulla terra per partorire. Alcuni cuccioli scavarono tunnel fino al centro della terra, e col tempo divennero placche tettoniche. Altri restarono sulle rive, ed ora sono scogli. Noi stessi siamo i discendenti dei primi cetacei, sfuggiti al riflusso delle acque, alle cieche mosse delle testuggini avviate al mare. Non siamo enormi, è vero, ma siamo stanchi, e la stanchezza è un esito dell'enormità.

Le balene sono, si capisce, animali acquatici. Le spugne cicliche che emergono con uno scoppio, un risucchio verticale. Una parabola, un monito: “noi abbiamo portato l'acqua sulla terra; e cosa possiamo sperare se non che evapori?”. Il Vangelo secondo Moby Dick.
Per noi uomini una balena può essere Avalon o Atlantide, indifferentemente. In ogni caso un'isola, un continente primordiale e immacolato, la placenta sciolta della Pangea. Un capodoglio che si morde la coda. Un eterno ritorno impacciato, l'esatta forma del cosmo.
Quel che importa davvero delle balene, comunque, non è il nome. (Questo vale, invece, per i gatti). Quel che importa è che su di loro grava il silenzio immane del sangue. Sono creature agoniche, stremate da una tenerezza terminale. Tutti gli uomini muoiono in un solo modo: di morte. Le balene, invece, muoiono di peso. Per questo precipiteremo tutti - o, se preferite, coleremo a picco: per il loro peso, in bilico tra gli oceani e i nostri tetti. Una curiosa “fedeltà alla terra”, un tributo alla gravità, la grancassa sfondata degli inizi. L'addome liquido di Dagon, dagli abissi. Tutto è vanità e un rincorrere il vento, certo, ma l'ago della bilancia trema ancora. E sui piatti non troviamo un soffio nel dio, ma un peso di balena, il tracollo delle acque. Le sacche del diluvio pronte a esplodere, l'eredità dei nostri padri che precipita il perdono e ci scorta con la sua mole smisurata, ci tende la sua pinna caudale. Il Leviatano addomesticato.

Infine: è plausibile che le balene si radunino sulla luna con una certa frequenza, assieme a tutti gli altri oggetti. Dall'Oceano Pacifico al Mare della Tranquillità, in un tonfo di sonno. E così spieghiamo le maree: quando le balene nuotano sulla luna le acque si ritirano, per poi alzarsi al loro ritorno.
Per questo motivo le balene sono davvero palloni aerostatici, mongolfiere lunari, palpebre allagate di stanchezza. E si fanno carico del nostro sonno. Poiché il sonno di una balena è sempre spaiato, sacrificato ai polmoni, al respiro volontario. Una veglia inesausta, lo stillicidio dei sommersi. Giacchè nel sonno non c'è peso. Come nel mare, come sulla luna.

Questo, signori, è quanto ho visto delle balene, almeno per oggi. Come direbbe il buon Claudio, nessuno ha mai visto una balena, perché nessuno ha occhi abbastanza grandi. Già Agostino, d'altronde, ha spiegato quanto sia vano tentare di mettere una balena intera in una buca. E noi, nelle nostre credenze, non abbiamo che cucchiaini. Buoni per il thè, per lo zucchero e i dosaggi.
A noi resta la consolazione che, fino a quando esisteranno animali immensi, avremo un'ombra sotto cui nasconderci, un rifugio.
Anche se ora non sembra. Anche se ora, nonostante le balene e i dinosauri e gli elefanti, siamo solo brutti, e moriamo di sete.
Anche se domani – lo sappiamo bene - è il peggior domani di oggi.

mercoledì 23 settembre 2009

Una principesca chiaccherata

Una principesca chiaccherata

(In questo abisso
di parole, manca
l'aria)

Era una mia abitudine,
ricordo chiaramente,
camminare con i re
mentre tutto d'intorno
lievitavano i ruderi
dei vocabolari, i
lemmi arrugginiti.

Sappi che, durante queste
passeggiate, si era soliti
dibattere sull'accanimento
degli insetti ai danni della
plebaglia, sull'inesattezza
del linguaggio.

Credimi, mio caro amico,
non compiemmo errore più
grande che dar gli orologi
in pasto agli orologiai.

lunedì 21 settembre 2009

Fenomenologia di Nayuta, ovvero un discorso intorno alle ceneri di Eichmann

Hai mai pensato a quanto sarebbe bello innamorarsi?
Ad essere sincera, io ci ho pensato svariate volte.

Nayuta

E voi, signori, ci avete mai pensato? Onestamente, noi no. Noi siamo della scuola del suonatore Jones. Torniamo dal ristorante messicano, noi, con cinquanta carte di meno nel portafogli e diverse porcate all'attivo. Senza dimenticare l'ipotetica proboscide del formichiere, che è, insomma, roba da assessore di collegio, per come ce ne racconta Gogol. Noi non siamo amati, e non ci pensiamo. Anche se ci pensassimo, ne scriveremmo male. Siamo piuttosto brutti. Malati e cattivi. La nostra stanzetta, le nostre aspirine, conciliano il sonno. Ci fa male lo stomaco. Siamo anche meno intelligenti di Umberto Eco. Non siamo nemmeno di sinistra. Siamo di destra. Estrema. Una sola moltitudine di falliti, io.

Nayuta è una fangirl. Una fangirl di sè stessa. Ci sono le fangirl di Licia Troisi, ci sono le fangirl di Nayuta. Una: lei. Stessa faccia, stessa razza. Noi vorremmo che Nayuta non fosse mai esistita. Ci rattrista. Crediamo che faccia male al mondo, ai pokèmon di Manuel, al pak dei mobili, a mr. Fudge. Chiudiamo gli occhi, li riapriamo, ma Nayuta è ancora lì. Un sasso, fact fact fact . Finiamo di leggere il Mago di Oz - dimenticando a chi lo leggevamo, un tempo: chiediamo di tornare a casa, ma Nayuta è lì, ci precede. Sbarra l'ingresso, ci inibisce lo spazio, il nostro metro cubo d'aria.

Cerco un paese innocente

Nayuta è peggiore di Eichmann. Eichmann veglia su un dominio, quello del numero, che non è umano. Eichmann è cortese, urbano, resta al suo posto. Non è felice, Eichmann è un fermacarte. Mai scritto nulla, Eichmann. Formalina, una creatura di formalina. È un agente dell'immortalità: per diminuzione, afasia borgesiana, tassidermia. Non ha mai ucciso nessuno. La nostra epoca, signori, ha perso il senso del sacrilego. La nostra epoca è inebriata dal numero, conta le teste. Confonde l'ostia col corpo, priva com'è del segreto fermento della transustanziazione. Nayuta pretende vita, la consuma, impone all'ordine delle cose una traslazione brutale, un'evoluzione accelerata e schizofrenica: dalla cellula all'amore, dal primate a Shakespeare. Così che non si distingua più l'uno dall'altro, così che si debba bruciare la città appestata. Terrorismo dell'inclusività, sessantottismo cosmico. Di fronte a Nayuta, l'unica reazione possibile è lo straniamento dell'agnizione stentata, uncanny valley . In lei compare il marchio mefistofelico di ciò che rivendica l'umano, grida per esserlo, sanguina e piange, ma non lo è. Minotauri e cinoscefali, figli del demonio. Preghiamo Dio perché ci liberi da Nayuta, togliendola dal mondo. Quanto a voi, signori:

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

giovedì 17 settembre 2009

Le Trippe di Poliu Gnorize

Poliu Gnorize ed io abbiamo grossomodo la stessa età. Difatti lo conosco fin da quando andavo a scuola. Mentre io andavo a scuola lui sbrigava lavoretti per conto dei negozianti del quartiere. Lo vedevo la mattina che si affaccendava attorno alle bancarelle a tirar su i pacchi e le cassette. Talvolta, la mia aula ricordo aveva delle grandi finestre, riuscivo a scorgerlo per la via mentre correva a sbrigare commissioni. Capitava anche che svolgesse mansioni per il bar del rione e allora ogni tanto lo vedevi anche per i corridoi della scuola a portar su per le scale caffè ai dirigenti. Quando poi capitavano giorni che nessuno avesse bisogno di lui, Poliu Gnorize trovava lo stesso il modo per ricevere la sua paga, magari con inghippi poco ortodossi. Era un bravo ragazzo, in ogni caso, solo era assai povero. Sia di danaro che di intelletto. Ricordo che all'uscita dalle classi, quando anche i negozii della zona ritiravano la baracca, noi scolari incontravamo sempre Poliu Gnorize ancora in giro per la strada. Lo salutavamo ridendo e scherzando e si finiva sempre per portarlo con noi a spasso in quei pochi momenti dove, prima di ritornare a casa, si usava andare in giro a divertirsi comprando caramelle, liquirizie e zuccheri filati, facendo giri sulle giostre e acquistando i giornaletti quotidiani con i fumetti. Ora noi scolari, chi più chi meno, usavamo per questi divertimenti i soldi che i genitori ci davano per il pranzo, mentre Poliu, l'incauto Poliu, utilizzava per divertirsi con noi tutti i soldi che era riuscito a guadagnare la mattina. E non che fossero pochi, mi raccomando, semplicemente Poliu spendeva senza badare al ritegno tutto ciò che aveva in tasca. Egli era sempre colui che al momento del ritorno aveva mangiato più dolciumi, aveva girato più giostre ed in tasca aveva più giornaletti. Soprattutto i giornaletti erano oggetto della sua scialacquatezza: non ve n'era uno che Poliu non acquistasse per se. Ed era in compenso tuttavia colui che si divertiva di più.
Negli anni successivi va confessato che non intrattenni mai particolari rapporti con Poliu Gnorize e anzi, quando il quartiere cominciò a riempirsi di quegli immigrati che tanto ci angustiarono all'epoca e andava degradandosi più di quanto non fosse già degradato prima, persi ogni contatto con lui in quanto mi trasferii, come altri, con i miei. Lo ritrovai soltanto una quindicina d'anni dopo, quando tornai nel rione prendendo ad abitare questo mio piccolo appartamento e a dire il vero fummo piuttosto felici di ritrovarci, come possono essere felici due sopravvissuti ad un'epoca accomunati esclusivamente da ciò. Mi resi conto che la maturità non era stata clemente con Poliu, ora alto ed incurvato come se la sua gracilità gli impedisse di ergersi correttamente. Parimenti il viso era lungo e scavato ed era imbruttito da un pizzetto ispido e lungo che egli si ostinava a far crescere. Chiacchierando venne fuori che non solo l'aspetto di Poliu Gnorize era peggiorato. La sua scarsa oculatezza nei confronti del denaro e degli affari era diventata quasi proverbiale nella zona ed egli non era oggetto di continue truffe soltanto perché non aveva i soldi per cui essere truffato. Una volta mi trovai a passare per la sua abitazione e da allora raramente oso lamentarmi per il cattivo stato del mio appartamento. Poliu abitava in una stanza seminterrata, umida, sporca e con solo due sottilissime finestre. Nella stanza si trovavano un materasso con qualche coperta adagiati per terra su un due assi di legno, un basso tavolinetto tarlato con sopra un fornelletto a gas e qualche rimasuglio di cibo. Posata a terra si trovava anche una lampada, sempre a gas, in quanto durante gli ultimi lavori nel palazzo la stanza di Poliu era malauguratamente rimasta tagliata fuori dalla rete eletrica. Infine, per tutta la stanza, lungo le pareti ed in mezzo sul pavimento, c'erano accatastate innumerevoli ed altissime pile di giornali a fumetti di ogni foggia e pubblicazione, catalogati con insospettata perizia. Poliu Gnorize, ebbi modo di concludere, non era assolutamente cambiato dai tempi della sua infanzia.
Fu la conoscenza così profonda di questi aspetti per cui mi stupii sommamente quando, incontrato lo Gnorize al mercato dietro un carretto di trippa, chiacchierando mi disse che era lui il proprietario di quell'attività. Poliu Gnorize impiegato nelle trippe? Poliu Gnorize investitore? Che avesse tenuto nascosto al mondo intero per tutti quegli anni di come anche lui in realtà fosse capace di ricavare un reddito durevole? Di dove si era procurato il denaro per mettere in piedi un' attività? Si, pur modesta come può essere il gestire un carretto di trippe, ma pur sempre un'attività. Non riuscendo a trattenere la mia curiosità chiesi informazioni al riguardo allo stesso Poliu. Lo trovai molto felice della domanda, e mi diede appuntamento per quel pomeriggio in un bar del rione promettendomi spiegazioni.
Ecco dunque giungere il pomeriggio e ritrovo Poliu Gnorize effettivamente seduto ad un tavolino del bar indicatomi, intento ad ordinare al garzone qualcosa di fresco da bere. Che capovolgimento! Mai, davvero, mi sarei aspettato di vedere un giorno il povero Poliu seduto ad un cafè per bersi qualcosa e chiacchierare. Ruppi gli indugi e mi feci dunque avanti.
“Poliu, Poliu! - salutai – Eccomi qui, infine!”
“Oh, mio carissimo e speciale amico, accomodati, allora, ti prego!”
E dopo esserci abbracciati ci sedemmo. Chiacchierammo piacevolmente di cortesie ed io mi feci portare un'acqua tonica per rinfrescarmi, tanto era lieta l'atmosfera. Venimmo poi, sempre assai lietamente, al dunque.
“Poliu, piuttosto, dimmi un po' allora com'è che sei finito a tirare quel carretto di trippe che t'ho visto al mercato.”
“Ah, gran cosa questa, Aristandro, gran cosa davvero!”
“Dimmi, dimmi, ti sarai fatto prestare i soldi da qualcuno, un fortunato ritrovamento?”
“No, no...”
“Un amante, allora! Hai incontrato qualcuna che ti sostiene?”
“Nemmeno, nemmeno”
“E cosa, allora, Poliu? Non riesco proprio ad immaginare! Quale meraviglia...”
“Lagrime, Aristandro, proprio una meraviglia: lagrime!”
“Lagrime?”
“Lagrime! Ascoltami che ti racconto. Eccomi l'altro giorno che passeggio per i giardini e ad un certo punto mi capita di sottecchi un giornale, aperto sulla pagina della cronaca mortuaria.”
“I morti?”
“Si, i morti. Allora per curiosità mi metto a leggerlo ed ecco che chi ti vedo? Morto Perone Discene, per fame. Capisci? Perone morto per fame!”
“Non lo conosco, chi fu questo Perone?”
“Ci dividevo la stanza! Non m'ero nemmeno accorto che fosse morto! Venni poi a sapere che l'avevano portato via gli altri condomini mentre io dormivo. Ogni giorno lo vedevo buttato li, accasciato contro le pareti e mi limitavo a dirgli il buongiorno e la buona sera, ed ecco che lui mi muore! Lì per lì non me ne importa gran che, poi però rifletto sull'argomento e mi rendo conto che anche io conduco la stessa vita di Perone. "Forse che anche io morirò di fame come lui" mi dico? Vengo colto così da un'indicibile angoscia e corro a casa per piangere. E piango, Aristandro, piango disperato e proprio piangendo ecco che mi viene incontro la salvezza!”
“Quale salvezza?”
“Le mie lagrime, le lagrime di cui ti dicevo! Cadendo a terra, esse si trasformavano in trippa!”
Ero sbalordito, dunque le trippe che vendeva Poliu al mercato erano frutto delle sue lagrime? Incredibile, riusciva financo a venderle!
“Ecco dunque che mi sono sistemato, vendo le trippe e mi tengo da parte qualcosa, poi mi mangio il rimanente. Ah, come sono felice!”
Ed era davvero felice. Era così felice che mi spiacque davvero molo dover dire ciò che dissi. Ecco dunque le mie parole.
“Poliu, quello che dici è molto bello, ma devi renderti conto di un fatto. Ora che sei felice, non piangerai più, e se non piangi per la disperazione non potrai più avere le tue trippe”
Era vero, e anche Poliu Gnorize se ne rese conto. Lo lasciai che, scioccato dalla scoperta, ancora piangeva a dirotto.

mercoledì 16 settembre 2009

I gechi nel cranio

Un giorno, PierCarl si svegliò, e, dopo aver salutato sua nonna, apprese che i cereali marroni erano finiti. Questo era indubbiamente un peccato, dato che a PierCarl piacevano esclusivamente i cereali marroni, e non quelli gialli. PierCarl, suo malgrado, fece colazione con i cereali gialli, e, preso il suo zainetto, andò alla fermata dell'autobus, per andare a scuola. Arrivato l'autobus, PierCarl si rattristì improvvisamente, vedendo che al suo interno lo aspettavano dei ragazzi grandi e muscolosi, che si divertivano rubandogli la merenda, scrivendo sulla sua gomma preferita, e picchiandolo con dei grossi bastoni nascosti sotto i sedili dell'autobus.
PierCarl, allegro, arrivò a scuola, dove incontrò i suoi migliori amici, che lo salutarono affettuosamente. Però, PierCarl vide che al banco davanti al suo, era seduto Giorgio, un ragazzo che a PierCarl stava molto antipatico, perchè andava molto d'accordo con Sansòne, la ragazza di cui PierCarl era innamorato. Sansòne, o, come la chiamavano gli amichetti, Sànsone, però,
era a sua volta innamorata di PierCarl, e sperava solo che lui la notasse. PierCarl seguì con grande attenzione la lezione di geografia, però quel giorno c'era solo matematica. Allora la maestra, molto arrabbiata, pose una domanda a PierCarl, ma erano ormai due secoli che il calamaro gigante magnetico non si allontanava dalla sua tana negli abissi marini.
PierCarl era molto interessato alla questione, per cui andò a chiedergli il motivo di tutto questo. Nonostante i buoni propositi di PierCarl, il calamaro gigante magnetico era restio a rispondere, in quanto viveva sott'acqua, e d'altronde i calamari giganti magnetici non sono muniti di branchie nè di pinne dorsali. Bastarono comunque pochi bicchieri di farina di riso a far cantare il calamaro gigante magnetico, che disse di essere intrappolato, per motivi sconosciuti a lui stesso, in una posizione verticale. PierCarl, essendo molto intelligente, capì che era per via del suo rimorso nei confronti di sua sorella, che egli stesso aveva ucciso, molti anni dopo, che era trattenuto in quel luogo, e in quel tempo. Il calamaro gigante magnetico, ringraziato il suo nuovo amico, potè passare ad una posizione diagonale, e provò, felice, ad emergere dal vulcano, ma proprio in quel momento...! E così la squadra vinse il campionato grazie a PierCarl. PierCarl si era allenato
duramente per la sua causa, andando tutte le notti per svariate ore nel parco, che era a quell'ora pericoloso, vista la gente che ci girava, fra cui c'era anche un ragazzo, di nome Sam, che andava sempre in giro indossando un buffo cappello, il quale divertiva molto PierCarl, nonostante il fisico del ragazzo, che andava tutti i giorni in palestra ad allenarsi, facendo degli esercizi che erano molto complessi e difficili, non che PierCarl non avesse provato, essendo stata sua nonna a chiederglielo, e, diciamocelo, PierCarl era molto affezionato alla sua nonna, che, sin dall'infanzia di PierCarl aveva sostituito la madre di PierCarl, che nessuno conobbe mai, e, essendo tutti gli altri genitori, zii, e nonni paterni morti, dovette prendersi lei cura di Piercarl, nella sua piccola casetta di montagna, dove viveva da sola, vivendo solo dei frutti del suo vigneto, e della pelliccia di alcune volpi che passano per i boschi giù in città, dove lei non andava quasi mai, se non per procurarsi la pelliccia delle volpi, di cui viveva, e che, onestamente, non era mai andata a genio a PierCarl,
il quale si cibava per lo più di quello che poteva comprare con i soldi che gli davano i suoi amici, ovvero tozzi di pane e alcuni mucchietti di sabbia, ma proprio in quel momento...! E, con questo, il maniaco era ormai dietro la porta, mentre PierCarl stava sudando impaurito, nascosto sopra al divano. Ma del resto, PierCarl non aveva mai amato come prima, e si baciò.
Quello che questa breve storia ci insegna, è che l'amore risolve tutti i problemi, e che con la forza dell'amicizia possiamo superare ogni ostacolo.

lunedì 14 settembre 2009

Schadenfreude

Schadenfreude

Sedulo curavi humanas actiones non ridere, non lugere,
neque detestari, sed intelligere.

(Ho assiduamente cercato di imparare a non ridere delle azioni degli uomini,
a non piangerne, a non odiarle, ma a comprenderle.)


Ora, i pozzi letterari sono da lungo tempo avvelenati.
L'untore ignoto, anzi, è stato tanto avveduto da infettare la falda acquifera con demiurgica onnipotenza, sommo Amore. Un intruglio porfirico, dall'odore riconoscibile ai più, assale le narici di chiunque beva da queste fontane. Una miscela velenosa, minerale e antica quanto il logos - e anzi vegetale, estratta dalle radici della pianta dell'immortalità, immortalità, se mai qualcuno ha creduto alla favola di Ziusudra.
Una verdure assolutamente ricercata, come dire che there was good sport in his making. Concediamogli dunque vita e autocoscienza, un'identità e un sesso, e il gioco è fatto.
E no, non parleremo di ossa o di topi in questa sede. Negheremo noi stessi, un paio di volte, ma niente topi.

I sintomi di questa intossicazione paraletteraria, dunque. Sono facilmente riconoscibili, specialmente dopo un'esposizione prolungata e senza il sostegno di amici e familiari che possano fornire una base sicura per il beccheggio febbrile del cervello paziente: malessere psicologico, allucinazioni, deliri imaginifici e, talvolta, una dialettica del dolore oscillante tra masochismo e sadismo. Una prematura e affrettata esposizione alle lettere sembra ridurre le possibilità di guarigione: è anzi probabile che l'ossessione si tramuti in una vera e propria monomania, nei casi più precoci.

Noia e gusto del dolore sono in realtà un'unica entità bifronte: alla profanazione di sé stessi non può seguire che una volonta discontinua, ma pulsante, di annullamento.
Qualcuno ricorderà il landolfiano Ottavio di Saint-Vincent, "a cui bastava che una cosa fosse possibile per intenderla come già avvenuta e per giudicare in certo modo inutile che avvenisse". La più pura delle forme di inedia, un oblomovismo dopo ossessiva torrefazione. Passo necessario, per alcuni uno stallo.
Il passo successivo, per taluni, è la decostruzione ludica della realtà, poi lo sfregio distruttivo - e tra le due sponde sono gettati più ponti del necessario.

Ora, sospetto che questo gusto per lo sfregio sia in realtà un frutto immaturo ed ingenuo della sensibilità letteraria. Specchio di una cultura letteraria ormai ridotta a mera funzione-finzione, sussidio esistenziale generato e non creato da qualche centinaio di letture, un lustro di latino e qualche citazione in francese. Una cassetta per gli attezzi, relativamente economica, con cui simulare le cose possibili. Una macchina di Turing un po' raffazzonata, che processa algoritmi esistenziali ed esperienze sensoriali.
Una volta processate le cose del mondo, resta la passione per le tele tagliate e le serigrafie della Monroe. Passione pericolosa, sul filo dell'esondazione. Se non altro perché fuori tempo massimo - come il gel per chi soffre di alopecia (mi scuserete lo shock estetico di un accostamento tanto smaccatamente kitsch: dovevo farmi perdonare per le prime cinque o sei righe, comprenderete).

Ora, la letteratura è un gioco? Se sì, ha le sue regole? Lascio a voi la risposta. Mi limito a credere che gli oggetti non siano per niente tristi. Nè sono gioiosi. Sono in stato di quiete. La rappresentazione letteraria, simbolicamente elaborata e culturalmente traslata, delle cose del mondo ha l'odore dello specchio di Vento-e-Luna. Cosa è preferibile al silenzio?

E poi, di passaggio, mi capita di pensare a Dante, quasi per caso, e di chiedermi se per lui la letteratura fosse cosa tanto terribile. La drammatica potenza del bonaventuriano itinerarium mentis in deum è molto più che un pezzo di bravura straordinario: è un atto fondativo. Costanti antropologiche e giochi linguistici edificano insieme porte sublimi. L'atto di scrivere sulla soglia con il pennarello non aggiunge niente se non la banalità dell'entropia, che crede di scoprire sé stessa.

I cavalli sono persone malvage, dicevamo.
E il letterato non è un architetto. Più che altro opera tra la sfera del senso comune e quella del sapere amministrativo - scienza e filosofia, a seconda dei casi. Ma credo sia ora di dire che l'autarchia iconoclasta del poeta metrosexual sia pronta per la discarica dei frigoriferi. Ci sono finiti Lucano, Carducci, gli epitomi della poesia francese ottocentesca: siamo in buona compagnia. Beviamo dai calici del sidro e attendiamo fiduciosi il ritorno dei fomoriani dal mare, sulle pianure d'Irlanda.

Veille entre les murs

«immergila in acqua, lascia che anneghi»


per una volta lo spoglio del buio

è soltanto un ricalco alla coazione,

un apparente migrare ai confini

dei desideri: sopra, la reazione

che chiude insieme le cose e i bambini,

lucertole alla ricerca dei passi…


fermateli al limite della veglia

tra mani che deflettono; scostate

le semantiche dei luoghi, sorprese

a zampillare per le vie affollate

(ché gli oggi sono dita da lasciare,

una stretta ossuta, un torcersi d’arti

al riparo dai nugoli di bare:


se l’attimo è infinita processione,

ogni tempo rettile un memoriale

compilato di traverso, un programma

per non muoversi al cambio di canale,

cosa troverò alle pause, gradini

o l’attesa di un sudore dei tempi,

la smania di vederti come ieri?)


fermateci al limite della veglia

tra mani che deflettono i pensieri

o nelle bocche delle nostre madri,

acclusi nelle fessure, apparenti

processioni al migrare dei confini


lunedì 7 settembre 2009

Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, ovvero un discorso sulla sconfinata tristezza degli oggetti

Agli altiforni dell'immaginazione, che bruciano nugoli di sconosciute


Poiché, lo sapete, il mio orsetto – Mr. Fudge, di nome – abita l'armadio come si sta in una sfera di sonno, l'inspiegabile senso teologico delle icone sfigurate. Qualcosa come le salme e il sacro terrore che spandono, così santificate per sottrazione progressiva di organi e vita, fino all'estremo Osiride, fino alla reliquia, il caput mortuum, indizio della Storia e della sua catastrofe. La sua tragedia è quella dell'allegoria fatta cosa, Gesù Cristo e l'oltraggio logico. È la tragedia primordiale della presenza che si desta all'immobilità, del nome che esaurisce i passi misurando la prigionia, e così dispiega una distanza divina e aggiunge al dolore l'incommensurabilità del dolore, una misura sisifea di ripetizione univoca o meglio il kairos, il momento che è per tutti i tempi.

Poiché nessuno soffre come un oggetto, portando nelle piaghe la medesima simmetria. Così la nostra tristezza è l'accadimento delle lacrime, non altro che un molle luogo d'acqua, cui la trafila di esserci ancora oppone dighe. E non spartisce niente con l'assoluto se non il casus belli, la stella orribile che precipita da remote regioni di spazio fino al ciottolo, all'increspatura, al modo tutto nostro – e meschino – di smentire l'assoluto con le algebre, la misura. Quest'immortalità della tristezza, questa redenzione che non ci appartiene, questa è la saga degli oggetti. Gli oggetti nella loro immobilità elencabile, la catacomba enciclopedica istoriata di nomi a distanze uguali – simmetriche – gli oggetti e la loro struggente non-ripetibilità - solo gli uomini reiterano il tempo, abbeverano il futuro di necromanzia. Gli oggetti che piangono un tempo e un luogo e un'assenza assoluta, larvale, una singola lacrima incisa, perché tra la forma oltreumana della tristezza e l'oggetto non v'è differenza che non sia Incarnazione, omousia.

E il mio orsetto – Mr. Fudge, come sapete – generato e non creato, con la mente murata e gli occhi caduti in oblio, non è più distinguibile dall'abbandono né si può dire in altro modo di lui – e non con il racconto dell'abbandono, ma solo con la presenza dell'abbandono, cui io non posso più attingere. Il mio orsetto, vescovo d'un conclave di esseri assoluti che abita gli scaffali, le cattedrali dei mobili, nell'incendio che non termina e non consuma, così fedele all'ortoprassi del dolore da non spostare, nemmeno, da una spalla all'altra la croce.

sabato 5 settembre 2009

Trompe-l'œil

Sarò ingoiato dalle cose.

Questi scaffali molli, lubrici,
le mura chine
il marmo:
metabolizzato
dai loro umori sintetici,
disciolto
in sospensioni di schegge
e ore rapprese.

Già incede
tra le linee che si sgretolano
il trionfo delle cuspidi,
le grida
ed io,
e il vacillare delle sagome,
lo strazio dei ritagli
condannati al piano.

venerdì 4 settembre 2009

Grati ai gatti

E perciò il tiro, lo scoppio
la garza mite che annoda
e assolve - il timpano, un riflusso di cloro.
Ci basta il fondo, il tifone
spuntato in solaio - lo schianto
delle chiavi, nella toppa. Le città (se le finestre)
come onde di sale, il silicio impennato, le travi
- e non può scendere.

Il piombo vuole prima il punto euclideo, poi la carezza
di un vecchio - infine, sui laghi, distrutto - l'ammaraggio acceso
nel buio, la casa, la fame
annientata – non c'è tregua se chiudi gli occhi
e la stanza non vuole, si muove – se ogni cosa è viva
sulle zampe.
(Il patto è sceso qui, tra noi,
in punta di freni).

Perciò ora è una fine, da occhi
di murena: tutto ciò che passa
è buono – se non si ferma - non la velina
sulle colpe, la copia carbone del sangue
schiantato
– ma la scorciatoia delle pupille,
una tana di anguilla.

E allora, se le cose cadono, è per colpirci
come divinità cartesiane, un mulino
– poi Epicuro ride, ai bordi - e non smette
da quando è morto.

E' tanto triste: questi giorni, le funi, e nemmeno un gatto
che ci accompagni.

Erebo, Eros, Erine

Erebo, Eros, Erine

È solo l’ansia di doversi giustificare, di offrire al mondo Sorella Morte ma con un vestito così bello che la faccia apparire una Signora troppo magra e stilizzata, un tanto al chilo di Art Nouveau; modi affettati ha la Morte e strascichi di aulismi vetusti quale velo da Sposa.
Tutto ciò la rende cosa perfettissima e piacevole da assimilare, la plague, il bacio cieco e sanguinolento, introdotta da così alta eloquenza, libera, addirittura e sicuramente deresponsabilizza.
Così ci si ritrova a passeggiare tra lapidi Spoonriveriane, appena regalate all’italico orecchio provinciale, lontano dalla conoscenza mondana, dove Klimt indora nuovo, perfino.
Anche dove vuol essere dolore questa Morte non porta all’aldilà, le epigrafi assumono una monocromia che le relega a quel luogo, c’è fantasia nei nomi, nelle attitudini, nelle età. Non c’è fantasia, al contrario, nel come si abbandona The Hill (o la Rocca) che basta il nome ad evocarlo, tanto diverso non è, perché non la si lascia ed è dolcezza di ciliegie interiori, nell’estate dei polmoni bucati.
Poi c’è qualcuno che se la gioca a scacchi, ma non è detto che il vincitore altri non sia che lo sconfitto, dipende da cosa c’è in palio, bisognerebbe chiederlo a Bergman ma non era ammesso, lui, alla Rocca.
Ed è quello in fondo l’Ucciardone, il Monte Athos, la fortezza della Roccella, un limbo, il parcheggio delle anime prima del salto ogni tanto affacciati su uno Stige d’asfalto con un Caronte prebellico che traghetta le anime dei dannati violando le regole del mondo, talvolta, in un fugace salto nell’aldiquà.
Così rimane l’Erebo come rappresentazione di quello che sarà, il libro sulla morte dove la morte meno si sente, dove non avviene come una recisione dalla vita ma è data per scontata il sottotesto necessario perché fioriscano mitologia e teologia.
Uno su tre sopravvivrà. C’è qualcosa che suona inquietante nel numero perfetto, una roulette russa tra creature disgregate ed unite dalla stessa sorte, per quanto sia possibile accomunare il dolore, che è solitario per definizione, se non fregandolo con uno Shakespeare oratoriale o mitologia arcadica, tanto per gradire.
La resa non è annunciata, qui siamo oltre la resa, quasi un rammarico se non dovesse avvenire: che sia una resa al contrario, dunque.
E vivere la separazione come una colpa, l’addio alla condizione privilegiata di addolorato che apre vie nuove ma occlude l’unica nota.
Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza e a fermarla al momento giusto.

Erebos, Eros, Erine

Marta è creatura mitologica, metà donna, metà icona, la rappresentazione della fugacità e della rilassatezza di vivere una storia senza implicazioni.
Lei la si ama perché è a tempo determinato gratuito, fa ribrezzo stringere tra le braccia un cadavere anzitempo ma lo si fa per sentirsi vivi e magnanimi una volta che i due colpi della roulette sono stati sparati e rimane necessariamente quello che andrà a vuoto.
Un amore che non è Amore, che è sensualmente afflato di malattia, dolciastro come il sangue, scosso dalla tosse, uno spasmo lunghissimo che squarcia i polmoni, che “è meglio morire amando”, almeno si ha la sensazione che il ricordo verrà perpetrato, l’alternativa sarebbe andarsene assieme ma Caronte non da quasi mai la doppia.
Amore, sempre che sia la verità, e, oltre al danno di quel cognome pesante, la beffa di doverlo tossire via per concessione d’aguzzino.
E poi c’è il rivale, anche tra i tisici succede, anche negli amori a scadenza, ma è la carne anziana, malata d’altra malattia che si interpone autorevolmente in questo valzer tra Montecchi e Capuleti da lazzaretto che tutto vorrebbero tranne che gli si acconsentissero le nozze.
È fuori che dovrebbero riuscire ad incoronasi amanti non nella Rocca, lì sta però il luogo dell’abbraccio, la stretta mortifera che arriva nell’ultimo afflato di vita: verso la Morte per l’una e Resurrezione per l’altro.
La stretta finale è la sciocca illusione di voler perpetrare la vita da un corpo ormai destinato alla decadenza che consentirsi d’amare non può far altro che accompagnare di là.
Sempre che, tutto questo fosse Amore e non una parentesi allo scorrersi della narrazione, tanto Eros e Thanatos sono abituati a sollazzarsi in lenzuola d’ombra tra le pagine scritte.
La seconda ipotesi fa troppo per imporsi, saccente, come al solito.
Così in una cabaletta di parole a memoria, com’era giusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti.

Erebos, Eros, Erine

Per ultima arriva la Vendetta cenciosa come un danse macabre, dicono che abbia sapore dolciastro, come sangue di polmoni, dicono che si appoggi dovunque: sugli stipiti delle porte, sulle lenzuola di una notte d’amore, sulle guance dei bambini, lei è Vendetta dai capelli di serpe e i denti di cagna.
E si dice di come la vendetta più subdola sia quella dell’untore, dell’appestatore, di colui che sanguina miasmi in luogo d’aria, di come si voglia ridiscendere alle altezze della vita attiva giusto per illividire di gelosia.
Si dice che ci fu un uomo che aveva un occhio solo, chiese come dono che tutti gli altri divenissero ciechi. Ma non si dice mai di come egli si sentì in colpa per essere l’unico a vederci ancora nella sua piccola compagnia di orbi.
Così l’unzione, la malattia come alibi al male, diventa tollerabile eticamente e addirittura ricercata, il grido veterotestamentario di muoia Sansone con tutti i Filistei riceve incarnazione qui, nella città sana, concava e pronta per accogliere uno sputo mortale.
Si dice che sia un lavoro da untore anche quello di voler notare a piè di pagina gli intenti di una lingua millimetrica ed altissima,quello di voler comandare le sinapsi di colui che si ferma a leggere queste epigrafi smemorate sul bordo della strada, vanamente illuso che non ricapiti quello che già in vita successe loro: essere dimenticati.
Era stata una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire.

Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine

mercoledì 2 settembre 2009

La ruggine

Com'è vero che
rotti i legamenti
iniziano a cadere braccia e gambe,

finita la cartilagine
tra i verbi, si inizia
a percepire
lo strofinio dei lemmi.

E si ritorna ad amare
i pettegolezzi dei cani.

martedì 1 settembre 2009

Cime di Bàres, mt. 1820 ca.

non so se le forme pervertono il silenzio

come lo fanno gli attraversamenti dei percorsi,

i sentieri e i loro accumuli di passi;


qui è una sospensione tornante di rocce

passate per i corridoi dei piedi; dicono

di postazioni collassate, di tracce identiche

a quel buio che una volta ha divelto le pietraie;


si percorre la costa tesa dalle piogge, nella conca

consumata dal viaggio che è ancora quello di ieri,

ripreso da verità indenni, da coalescenze

di frammenti nel processo che puntella ogni vallata:


è proprio qui che un dio ha digrignato il suo vuoto,

proteso alle foschie di Bàres, a lambire la distesa

fino a quando è rosso e si scollina; una striscia

uguale a queste pietre per poi sparire, sparire…