martedì 25 agosto 2009

Necrologio del necrologio

Immagino che alcuni, qui, abbiano già letto questa cosa che ho scritto. D'altra parte, credo possa star qui. Non ingombra poi molto, e bisogna sempre parlare di libri, perché non si sa mai per quanto tempo li avremo ancora con noi.


La morte di Ivan Il'ic è un libro chirurgico. Il preferito, tra i miei Tolstoj. È la storia di un uomo che prima vive un po', e poi muore. Ivan Il'ic è un giudice istruttore: il funzionario, il mandarino, un immortale di carta. Forse, anche, è il personaggio secondario del romanzo russo. Non avrebbe sfigurato ad ammonire Dmitri Karamazov, a smazzar carte al tavolo con Cicikov. Queste creature muoiono, di solito, fuori scena. Come tutti noi. C'è qualcosa di gratuitamente feroce nell'inseguirlo con lo sguardo, mentre arrabbatta una vita elementare. Circumnavigare la tragedia, il viaggio dei semplici. L'infelicità coniugale la sopporta sordamente. Strepita con misura. La volontà di Ivan Il'ic è suturata: non ascolta sonate di Beethoven, del resto, e pare non abbia ucciso nessuno.
Una vita più vera che felice o infelice, e dunque tanto più incapace di recepire la morte: giacché non è esogena, la morte, non è la spada dell'ultimo atto o la vendetta degli usurai; solo il corpo che si sfarina, questa è la morte di Ivan Ili'c. Prende una botta a un fianco, e così risveglia il gemello, il parassita. Si sdoppia, l'uomo vivo e l'uomo morto. Finché resta solo l'uomo morto. La morte di Ivan Ili'c si proclama fin dal titolo. Eppure, nessuno sa nulla. Ivan Ili'c meno di tutti. Così ritorna, strisciando, la tragedia, una vita comune diventa contabilità edipica, progressione aritmetica dell'errore, fino alla catastrofe. Se avesse saputo, avrebbe avuto, Ivan Il'ic il suo nome, una moglie, una forma narrabile? E tu, hypocrite lecteur?
Il libro di Tolstoj è entomologia, un documentario fotografico sulla metamorfosi: la morte che rompe la crisalide della congettura – Caio è mortale – e si posa su Ivan Ili'c. Che la sente, e scaccia i propri familiari. Non è possibile, infatti, alcun discorso tra chi vive e chi muore, solo i morti possono seppellire i propri morti. Non sorprende che l'unico testimone del morire di Ivan Ili'c sia il servo contadino, egli sì, un'anima morta, il prototipo dell'uomo che sa, e quindi l'uomo retroverso, fatto coi rimasugli della fine. Grida per tre giorni, Ivan Ili'c: ogni morte è un assassinio, scriveva Bufalino, e chi non grida è complice.
E poi, il finale. Definirlo edificante, una consolazione, un'agiografia, sarebbe carità bieca, sbrigativa. È facile pensare a Goethe – più luce! - ma è così corporea la luce di Ivan Il'ic, così un'implosione dell'iride. Oppure, dolce sollievo nell'ora in cui si muore: ma il suo commiato dal dolore non è quello di Tamerlano, Ivan Il'ic non si accommiata dalla memoria, ma dalla presenza. Nemmeno la risata di Epicuro, ma solo la tormentosa, spiazzante assenza della morte dalle ultime righe – e la morte? Dov'è? Ecco l'ultimo rintocco: perché ne La morte di Ivan Il'ic non c'è tanto la morte di Ivan Il'ic, quanto la sconfitta della vita, così disarmata di strumenti narrativi, metafore, sillogismi di fronte alla morte. Così incompiuta da finire un attimo prima. Non è un caso che muoia, costui, a metà di un respiro.

1 commento:

  1. Con velocità inversamente proporzionale al quadrato delle distanze della morte.

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