lunedì 7 settembre 2009

Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, ovvero un discorso sulla sconfinata tristezza degli oggetti

Agli altiforni dell'immaginazione, che bruciano nugoli di sconosciute


Poiché, lo sapete, il mio orsetto – Mr. Fudge, di nome – abita l'armadio come si sta in una sfera di sonno, l'inspiegabile senso teologico delle icone sfigurate. Qualcosa come le salme e il sacro terrore che spandono, così santificate per sottrazione progressiva di organi e vita, fino all'estremo Osiride, fino alla reliquia, il caput mortuum, indizio della Storia e della sua catastrofe. La sua tragedia è quella dell'allegoria fatta cosa, Gesù Cristo e l'oltraggio logico. È la tragedia primordiale della presenza che si desta all'immobilità, del nome che esaurisce i passi misurando la prigionia, e così dispiega una distanza divina e aggiunge al dolore l'incommensurabilità del dolore, una misura sisifea di ripetizione univoca o meglio il kairos, il momento che è per tutti i tempi.

Poiché nessuno soffre come un oggetto, portando nelle piaghe la medesima simmetria. Così la nostra tristezza è l'accadimento delle lacrime, non altro che un molle luogo d'acqua, cui la trafila di esserci ancora oppone dighe. E non spartisce niente con l'assoluto se non il casus belli, la stella orribile che precipita da remote regioni di spazio fino al ciottolo, all'increspatura, al modo tutto nostro – e meschino – di smentire l'assoluto con le algebre, la misura. Quest'immortalità della tristezza, questa redenzione che non ci appartiene, questa è la saga degli oggetti. Gli oggetti nella loro immobilità elencabile, la catacomba enciclopedica istoriata di nomi a distanze uguali – simmetriche – gli oggetti e la loro struggente non-ripetibilità - solo gli uomini reiterano il tempo, abbeverano il futuro di necromanzia. Gli oggetti che piangono un tempo e un luogo e un'assenza assoluta, larvale, una singola lacrima incisa, perché tra la forma oltreumana della tristezza e l'oggetto non v'è differenza che non sia Incarnazione, omousia.

E il mio orsetto – Mr. Fudge, come sapete – generato e non creato, con la mente murata e gli occhi caduti in oblio, non è più distinguibile dall'abbandono né si può dire in altro modo di lui – e non con il racconto dell'abbandono, ma solo con la presenza dell'abbandono, cui io non posso più attingere. Il mio orsetto, vescovo d'un conclave di esseri assoluti che abita gli scaffali, le cattedrali dei mobili, nell'incendio che non termina e non consuma, così fedele all'ortoprassi del dolore da non spostare, nemmeno, da una spalla all'altra la croce.

11 commenti:

  1. l'orsetto, da sempre simbolo di sofferenza, primo incontro tra il bambino e la crudeltà universale.(sei grande, ormai! non è più il tempo degli orsetti!)

    io ammiro coloro che non si separano mai, sino alla morte, dal loro orsetto.

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  2. io ammiro di più quelli che un orsetto non l'hanno...

    :P

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  3. Ma questo dolore è solo attribuito agli oggetti, a meno che loro non soffrano dell'impossibilità di provare sofferenza.
    Gli oggetti incarnano talvolta.
    Gli orsi lo fanno meglio,ma sono proiezioni o allegorie?
    Se fossero le seconde non potrebbero che addolorarsi addosso e, ripiegati, provare a fare come quel Cristo di pellicola che per crocefiggersi da sé rimase a disperarsi per una mano schiodata (ovvero
    L'impossibilità della redenzione e la solitudine del dolore).
    Solo di una cosa è dato soffrire agli oggetti.
    L'oblio.

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  4. stringo il mio orsetto pensando a te

    Love

    fragolina93
    (paokitsch)

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  5. @ athena: nessuno che abbia guardato un orsetto negli occhi anche solo per un attimo la penserebbe così. Il dolore degli oggetti non ha un nome, ma solo distanze. E' stato scalciato avanti, nel profondo, da un dio della polvere e delle cornici. Ed ora nuota nel nucleo neutro di Mr Fudge come in quello di tutte le cose. Con le sue pinne piatte e il carapace immenso.

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  6. Noluntas, vorrei avere la tua assolutezza nell'asserire certe cose, semplicemente, spesso, gli occhi non si riesce a guardarli per più di mezzo secondo, mere questioni di oblio.
    E t'invidio la sicurezza che hai nel sapere che forma ha il dolore degli oggetti, vedi, io non lo so.
    Penso che l'impossibilità di esprimersi di questo dolore di stoffa, sia di gran lunga peggiore di qualsiasi liberazione visiva.
    Ma ti concedo, forse sì, che la mia illusione di un nome, sia stato solo un tentativo goffo di arginare l'assoluto.

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  7. @noluntas: mah, nella sua misura era serio (riferito a quanto ha scritto la zucca sopra)

    nella sua misura, chiaro :P

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  8. E t'invidio la sicurezza che hai nel sapere che forma ha il dolore degli oggetti, vedi, io non lo so.-> Ma la notte è un'eucarestia di palpebre. Il corpo di questo deus sive res spartito tra noi e le cose. Una comunione del dolore, insomma.
    Poi, io non credo nell'essenza noumenica di niente, figuriamoci quella del dolore. Non esiste dolore che sia a tenuta stagna, che sia enigma, poiché il dolore è diffuso in tutte le cose. Come un blasone, il marchio di Caino, la peste fasciata dal velo di Maya. Un bene comune, direi, aperto alla condivisione (duhkha, e quant'altro...).
    E perciò abbiamo pena delle stelle...

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  9. "E t'invidio la sicurezza che hai nel sapere che forma ha il dolore degli oggetti, vedi, io non lo so."
    Io nemmeno.
    "Ogni oggetto è un problema che non dà risposta". il resto sono computazioni da Doctor Invincibilis. Quodlibet, libro secondo, questione undicesima... Ilomorfismo, forme plurime, culto del corpo dei santi... un bitty box accanto al reliquiario, insomma.
    "la sua tragedia è quella dell'allegoria fatta cosa", sì. La sua tragedia è quella della cosa fatta allegoria, anche. Le allegorie tardone di Marziano capella e Prudenzio, l'orologio amoroso di Froissart e la ciabatta di Olivier de la Marche. E così via fino alle enumerazioni, alle cose di Perec, agli "oggetti che si trovano sulla mia scrivania".
    Oh, ma l'orsetto ha un nome, si chiama Mr Fudge, pare. La fenomenologia non attacca. Verso le cose stesse non potremmo neanche andarci, perchè le "cose stesse" non hanno nomi, tantomeno nomi propri, tantomeno Mr Fudge. Le Parti pris des choses, compte Tenu des Mots (e dei nomi propri).
    Saremmo pure alieni alla metessi degli oggetti al Dolore, come soffra Mr Fudge, però, lo sappiamo. Il suo abbandono non è del tutto inattingibile, sempre per una questione di nomi. Il nomoteta certe cose le intuisce. Solo un poco. Però sì.
    L'ultima parola di Ponge era stata, nonostante tutto, "umanesimo". Umanesimo, nonostante tutto. Proprio come se i vecchi avessero ragione quando dicevano che l'uomo è misura di tutte lo cose. Purtroppo.

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