giovedì 26 agosto 2010

La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri.

Non voglio aggiungere più parole inopportune di quante già ne siano state scritte a questo mondo. Alessandro Baricco sembra non essere dello stesso avviso ed oltre ad appestare il mondo con le sue terribili prose a quanto pare ha scelto di fare lo stesso con le sue teorie. Fino a poco fa non sapevo che questi andasse predicando l'annullamento dei confini fra la sapienza e il volgo (ovviamente abbattendo la sapienza, non i confini); come infatti ben sapete sono solito farmi bastare di questa persona i fortunatamente pochi libri che mi regalano al natale, ora al dolore procuratomi dalle prose devo aggiungere anche il dolore provocato dalle idee.
Insomma, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo di Baricco consultabile gratuitamente (cosa abbastanza insolita visto chi c'è di mezzo) e poiché sono stronzo dentro e magari c'è tra voi chi come me non spende i suoi denari per quest'uomo, vi reindirizzo al sudetto terribile. Leggetene, ridetene e poi continuate pure a piangere, tanto non c'è nulla di nuovo sotto il sole.

http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/08/26/news/barbari_2026-6516602/

(a quanto pare l'articolo è stato originariamente pubblicato su una certa WIRED. Non so di cosa si occupi questa rivista ma da quel che vedo titolare in copertina sembra essere non diversamente trascurabile come buona parte di tutte le altre)
http://www.wired.it/magazine/archivio/2010/09/storie/i-nuovi-barbari.aspx

mercoledì 25 agosto 2010

Come un vecchio rimorso o un vizio assurdo

Di nuovo a te, ma anche a voi:

Due giorni fa, in una stanza dell'Hotel Boston a Milano, gestito da un pakistano in divisa da ussaro, guardando una ragazza che dormiva come un gomitolo sulla sponda opposta, ho cominciato a rivalutare le puttane. Mi dicevo che quando il giorno filtra dalle tapparelle e inchioda la polvere a mezz'aria la soluzione all'abbandono si sente nelle vertebre e smette di essere una questione di riconoscimento affettivo, o di impulsi riproduttivi. È una faccenda più antica dell'impeto a popolare il mondo, più ancestrale ancora dei primati che si spulciano a vicenda. Risale ai nostri progenitori monocellulari, che sciamano lungo le correnti calde: è una faccenda termica. Come se durante un massaggio cardiaco scivolasse la mano sulle tette della moribonda: non sarebbe pornografia, sarebbe sopravvivenza. Mi chiedevo, quindi, quanto costassero al grado le puttane, e se ne fosse disponibile una con almeno trentotto di febbre. Poi scorrevo mentalmente i miei Levi, Crowley, Kremmertz, alla ricerca di qualcosa come uno stupro emotivo, la formula che frantuma il corpo astrale. Per dormire si contano i diavoli.

è vero che per essere salvati ci vuole un certo physique du role. Prima le donne e i bambini. Anche gli emo. E i dieci migliori cosplayer della fiera, complimenti a loro. E soprattutto quelli che “sembravano bellissimi”, per non deludere le fangirl. Ma, insomma, per me non preghi e non hai alcuna intenzione di salvarmi, non ce n'è bisogno. Dev'essere per via della barba. L'ho lasciata crescere mentre ero impegnato a salvarmi da solo, come Robinson. Di curioso c'è che mi guardi e ti senti in colpa, e non so se ti senti in colpa per quello che sono io, per quello che sei tu, o per tutto quanto non riusciamo ad essere. Non m'importa, però. Pietà, colpa, gratitudine, crollo delle alternative, una scommessa, il cavallo di briscola, quattro case a Vicolo Stretto: mi va bene tutto per non perdere ogni mano.

Poi ritrovo tutto quanto mi riguarda nell'indice analitico dei parerga e paralipomena di Maria de Filippi, e mi faccio un poco schifo. Ad esempio, quando mi rendo conto che sarei potuto scendere dal nostro interregionale praticamente ad ogni stazione e ad ogni stazione chiamare qualcuna e dire qualcosa del tipo “cinque anni fa parlavamo della catastrofe come se l'avessimo appena inventata, ricordi? Adesso sei la mia buona ragione per fuggire, e ti ho portato un libro”. E poi lei sarebbe venuta a prendermi e il ridicolo ci avrebbe uccisi entrambi a cinque metri di distanza, come una saetta. Oppure, dovrei quantomeno dare un senso alla paranoia che ti fa storcere il collo per strada, al delirio di lasciare aperta la porta del bagno mentre pisci per assicurarti che io non scappi nel frattempo. Dovrei separare nettamente, al posto tuo, l'ora in cui si può fare a meno di qualcuno da quella in cui si può solo fare a meno di tutto il resto. Ma l'idea di andarmene per farti capire fa ridere le capre, e io mi vergogno già abbastanza così.

La cosa che mi ulcera più il fegato, di questa faccenda come di tutte le altre, è che le parole non servono. Così mi vedo a sgolarmi come il miglior Chaplin sul balcone del Reichstag mentre, là sotto, i soldati arrostiscono salsicce negli elmetti, un paio di dadi neri e rossi di peluche dondola dal cannone di un Panther G e nessuno ha la minima intenzione di partire per il fronte. Ma la sera, al ristorante cinese, se Dio mi ascolta i camerieri si moltiplicano in milioni di Guardie Rosse e attraversano il mare a nuoto fino alle coste del Giappone, bruciano tutti i manga e tappezzano i muri di Realismo Socialista, figure marziali con le spalle larghe e il taglio di capelli d'ordinanza, ragnatele di rughe sulla faccia dei contadini, occhi mongolici a fessura, difetti e imperfezioni ad ogni angolo: un mondo in cui il tuo problema principale smette di essere il brufolo sopra il labbro che ti controlli allo specchio quindici volte in due ore, e diventa l'evidenza palese che non hai capito un cazzo di niente.

martedì 24 agosto 2010

kawaii k-way (diciamo così)

Mi sono iscritta a scrivere.it, ho comprato un vestito blu, sono stata a Colvalenza, ho regalato Scrostati Gaggio. Sono troppo presa male. Ho scritto una poesia a metà con Manuel, poi.Una poesia d'amore per una ragazza, Annalisa, che sembra brutta a tutti (anche a Manuel) e solo a me bella (no, anche a un'altra mia amica). Certo, ha sempre i capelli sporchi, la frangia unta e le pezze addosso peggio di quelle di Shakk, però è bella.

Come tacuina sanitatis, lì
mentre certamente: ruet machina, sorellina
ti parlerei di notti senza mestrui, di sfere rugginose
della cera che come un imbuto chiude i lacci, della suola traforata
ma niente. Mi si addicono le cose sceme, il leptòs
Come sei bella nel tuo stretching, nei tuoi piegamenti emotivi
solo a me sembri bella
no, questo non va bene
Dunque sei bella, davvero bella, come saresti anche in una poesia di De Angelis
con la pista di atletica e i capannoni. Io ti invoco, icona DIADORA, attrezzatura sportiva
Sei TUTTA la mia vita. Sento che il mondo avviene
nel cappuccio del k-way.
tute di acetato. jersey degli inverni. vestiti blu di jersey aderenti. niente. stai con me.

domenica 22 agosto 2010

E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -.

"[...] I due progetti che ho detto ( un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Inereo, nel suo povero sobborgo sud-americano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente. [...]"


Jorge Borges, Finzioni.

venerdì 13 agosto 2010

2 mesi di noi, ti amo cucciolo mio


Forse, o forse invece ne vale la pena eccome, in ogni caso non è per lui che scrivo, scrivo per me, ma a te questo interessa? Dubito. Visto che non mi conosci gradirei che non giudicassi il modo in cui decido di spendere il mio tempo, se vo...glio scrivere scrivo, se voglio fare foto ne faccio, se voglio passare le giornate a dormire dormo, visto che non mi conosci penso che non te ne possa fregare di meno di quello che faccio, o sbaglio? Hai vissuto tranquillamente fino ad oggi senza sapere che io esistessi, gradirei che tornassi ad ignorare me, il mio ex ragazzo e il mio libro. Grazie! Sto scrivendo uno dei capitoli del mio libro, dovevo rileggere dei messaggi di Eric perchè non mi ricordavo delle cose, ne ho riletto un paio e ho sorriso delle belle parole, riso delle battute e delle parole delle mie amiche in risposta ad alcuni messaggi, niente tristezza nè dolore, libertà, guardo tutta questa stori...a da fuori e ne vedo i lati positivi che prima non riuscivo a scorgere, sto bene anche senza di lui, dio che bellezza.

Ci vuole stomaco equino per digerire un altro kebap

martedì 10 agosto 2010

Dall'oggi al domani - Breve monologo biografico sul realismo magico

Fino a qualche giorno fa, fino ad un mese fa sicuramente e probabilmente anche fino a ieri, sapevo stirare. Ne ero in grado, per lo meno. Caricavo il ferro con l'acqua, attaccavo le dovute prese, sceglievo un abito da una delle masse di teli accartocciati che ho in casa e ne tiravo fuori una camicia, un pantalone o alle volte un maglione se non ben stirati quantomeno passabili.
Oggi invece non so più stirare, meglio, non ne sono più capace. Per quanto mi ostini a passare il ferro caldo sulle pieghe queste non scompaiono e piuttosto se ne creano di nuove, sempre meno acconciabili. Per quanto insista ad inumidire il tessuto questo sembra risultare ancora più secco ai tentativi di appianamento e pure finisco col ritrovarmi in mano abiti zuppi d'acqua. Fa nulla, mi ridurrò a partire con una valigia di abiti ancora più ridicoli, ma non è questo il punto. In realtà c'è da dire che non v'è proprio nessun punto e forse farei meglio a fermarmi qui, sebbene la cosa migliore sarebbe stata proprio non cominciare e allora tanto vale proseguire.
Secondo lo Scida io vivo come in un racconto di Marquez. A mio avviso invece sembra di vivere come in un racconto dei miei, perché sono più brutti, e comunque la sostanza non cambia. Non riesco ad alzare la polvere dal pavimento, l'unica cosa che rimedio sono parquet graffiati e macchiati d'acqua tanto li lavo e tanto li spazzo. Appena accendo un fornello la cucina si riempie di olio, tutto è unto, anche ciò che con la massima cura avevo riposto nel fondo delle credenze. Sui muri si aprono crepe per le quali la casa sarebbe già dovuta crollare da anni e sulle pareti c'è una muffa di cui sembro accorgermi soltanto io. Quando entro in cucina qualcosa squittisce (o stride, non ne sono ben sicuro) come se dei topi corressero per la stanza e ovviamente non c'è nulla. Incrostazioni di grasso talvolta appaiono sul pavimento e spesso non mi riesce di toglierle nemmeno con lo scalpello. Un giorno scompaiono come erano apparse e qualche tempo dopo le ritrovo un po' più in la. Sebbene abbia sottoposto i più recessi anfratti della mia casa a scrupolosissimi controlli non riesco a capire da dove escano gli orribili insetti che sembrano infestare l'appartamento ed i cui corpi puntualmente scompaiono dopo un po' che li si è ammazzati, come in un videogioco dei vecchi tempi. Nell'antibagno continua ad alleggiare un nauseabondo odore di verze con patate e quando apro l'acqua per lavarmi le mani il rubinetto spesso grida di dolore. Puntualmente, per quanto tanti e diversi prodotti anticalcare io possa applicare alla doccia, dopo due o tre giorni al massimo la bocchetta dell'acqua torna ad otturarsi come se niente fosse successo. E i libri hanno ricominciato a sparire, sempre quelli a cui sono più affezionato. Il primo fu il Silmarillion di Tolkien, adesso è accaduto a Casi di Charms. Ho anche pensato all'eventualità che qualcuno potesse entrarmi in casa con un paniere e rubarmi i volumi, come accadeva al fu professor Bernardino Lamis, ma così non è.
E tante altre cose di questo genere

Risolvere le equazioni, ovvero un discorso intorno all'omicidio

Pare che qui ci siano nuove cose. Ci vuole del coraggio postplatonico, ci vuole stomaco equino per copiare la copia di una copia. Scida scrive, è diventato grande, gli passerà. Di Manuel non posso dir niente, da questa fortificazione agli antipodi. Ipazia ha avuto fortuna all'estrazione annuale dei nomi, e questo è quanto. Dunque parliamo della morte, come se ne avessimo lo stesso disperato bisogno di sempre. Mi chiedevo quanto a lungo si possa giocare con l'idea di sconfitta, prima che si consumi. Per quanti secoli disporre i ranghi nella pianura, serrare le fila e attendere. E poi a che punto il respiro della nostra giustizia diventa troppo corto, e siamo allora parte del medesimo evento, un organo del nemico o il coniglietto d'ombra proiettato dalle sue dita.

La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.

Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.

Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.

D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.

giovedì 5 agosto 2010

Il nudo sidonita.

Venuto a Roma, Serapione intese parlar di una vergine che da vent'anni viveva reclusa senza ricevere né parlare a nessuno. Riuscì a vederla.
«Cosa fai - chiese - seduta lì tutta sola?»
«Io non sto seduta - rispose - io sono in cammino.»
«In cammino verso chi?»
«Verso Dio.»
«Sei morta o viva?»
«Spero di essere morta al mondo e viva in Dio.»
«In questo caso - disse Serapione - scendi in strada e vieni a passeggio».
Ella protestò, ma il "pazzo" le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto ad una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi».
Scandalizzata, la vergine rifiutò.
«La gente penserà che io sia pazza!»
«E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?» Ella rifiutò.
«Vedi sorella - disse Serapione - fa attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».

mercoledì 4 agosto 2010

Choralyst si sposa

Ammutinamento

L'ultima volta che abbiamo visto Choralyst, era già grandicello. Si trovava da qualche parte tra la matematica e l'esistenza, se non ricordo male, mentre ad oggi Choralyst ha venti anni, età in cui a quel paese lì, bisogna prendere moglie.

Così una buona volta si mise in cammino per quel giardino di notte e di vecchi con il cappello, che poi è sempre il solito giardino con i lampioni curvi dell'altra volta. Ascoltando le papere allo stagno, pensava che sarebbe stata l'occasione per imparare a parlare, e poi che sarebbe stata proprio l'occasione per imparare a parlare a dissiparsi per nulla, quel giorno. E che si, bisognava proprio cambiare aria, per Choralyst.
Bisogna tener presente come è fatto un Choralyst. Uno scansafatiche da taschino, perchè con Choralyst d'impulso ci si metteva la giacca ed un apposito cappello, ed era forse la bruttezza il suo distintivo, visto che Choralyst (per chi non l'avesse capito) era il Brutto tempo.
Un provincialotto, figlio bastardo di una pioggia acida di città ed il suo temporale occasionale. Da piccolo la madre lo portava spesso a visitare i bei monumenti, gli alti obelischi e i campanili a zonzo sulle chiese. Lo teneva per mano, insensibile alla sequela di sguardi in tralice, alle frequenti offese che, da sgualdrina, costanentemente la perseguitavano. Così Choralyst aveva imparato la storia, aveva imparato a leggere grazie alle iscrizioni tombali di certi papi con il naso all'ingiù. Vi si appassionò con esagerato entusiasmo e quando al decimo compleanno ricevette in regalo un piccolo cimitero in periferia, Choralyst tuonava di gioia.
Dalle tombe, aveva imparato il silenzio.
Sebbene il padre fosse sempre stato in giro per lavoro, la vita di Choralyst è in generale una comune vita da brutto tempo: un po' più di una pioggerella, un po' meno di un acquazzone. Ebbe anch'esso le proprie disgrazie: aveva sedici anni quando per via di un'ordinanza comunale il piccolo cimitero agreste fu distrutto in favore di una nuova Kiko e Choralyst si ritrovò a piagnucolare per qualche tempo ed in diverse direzioni. Come tutti i tutti i pellegrini, cercava ospitalità, del pane, forse una candela.
Ma quando chiedeva: -Avreste un piccolo cantuccio per un brutto tempo?-
Tutti rispondevano più o meno la stessa cosa: -Vogliamo solo aria pulita e belle giornate, torni quando avrà un po' più di sole-
Dunque, una alla volta tutte le porte si chiusero. E Choralyst, triste e sconsolato, vide bene di sistemarsi dietro il primo cancello che vide.
Il parchetto comunale: qui lo ritroviamo; con papere.

Per quanto ci avesse riflettuto, Choralyst non aveva proprio idea di come si potesse trovare moglie. In compenso aveva una minima idea di chi fosse Cesare Pavese.
-Ma a che serve- oscillò tra i rami -A che serve avere una moglie, picchio artistico?-
-Oh- sfrattando un'ala dal proprio buco, l'amico apparve. -serve se vuoi imparare a parlare-
-E noi, non stiamo forse parlando?-
-Si, ma non stiamo dicendo niente.-
Il picchio artistico accese il piumaggio un po' troppo nero (mentre affievolì quello un po' troppo bianco). Il picchio era un artista, sosteneva che nessuno avrebbe mai rotto il suo silenzio. Poteva solo picchettare.
-In ogni caso, se si deve..che se serva o non serva..si deve. Dove si trovano le mogli, allora, amico?-
-Ho letto che in un giardino come questo tanto tempo fa c'era qualcosa di simile.-
-Quindi crescono anche nei giardini-
- Pare. E pare che si chiamasse Eva.-
-E come fai a dire che assomigliava ad una moglie?-
-Il Doktoro Serpertivago mi ha detto che è stata la prima moglie della storia-
Il dott. Serpentivago era (ed è) un grande lettore.
-Bene!- Esclamò Choralyst battendo i nembi. -Mi diresti, amico rumoroso, come si arriva a questo giardino?-
-Mi pare si chiami Eden, dovresti andare alle stalle e prenderti un buon destriero. Dal nome sembra un posto molto lontano.-
-D'accordo. Allora, batteresti una mezza per me, picchio artistico?-
-Senz'altro.- Il picchio artistico battè la mezza e come una saetta Choralyst pervenne alla stalla.

Nella stalla di quel piccolo paese dimoravano tre cavalli.
Choralyst aprì la pesante porta di legno. La prima cosa che vide, fu che ne mancava uno e che gli altri due sembravano in qualche modo parenti, non proprio gemelli, ma forse fratelli, o sorelle. Choralyst non perse tempo, ma successivamente accolse l'occasione di perderlo; pertanto si interessò inutilmente di dove fosse il terzo cavallo.
-Il tevzo cavallo..-ghignò quello nel lotto centrale -quel buono a nulla!-
-Non essere così severo. Il cavallo estetico sarà di ritorno appena lo vorrà il vento, io sono il cavallo religioso, lui è il cavallo etico.-
Il cavallo etico si inchinò. Choralyst fece altrettanto.
-Ti andrebbe- proruppe Choralyst - di accompagnarmi al giardino dell'Eden?-
-io?!-
Bisogna tenere di conto che il cavallo etico ha gli zoccoli così pesanti che non può assoutamente essere utilizzato nelle passeggiate. A parte questo, fa tutto ciò che fanno gli altri cavalli, ma spesso è di cattivo umore, perchè appunto, non può fare tutto quello che fanno gli altri cavalli.
-Infatti non può trottare, nè correre-
-io?! senti cosa dice questo. Io mi sono risoluto di essere un cavallo che vive nella sua stalla, non altro.-
Nell'accostarsi a Choralyst, l'altro ridusse il tono della voce.
-Non si lasci ingannare dal paraocchi, sa...soffre molto per non poter galoppare e battere lo zoccolo se non arriva il fieno. Ne soffre davvero molto, così quel paraocchi gli serve per non aver sempre innanzi l'evidenza. Insomma, lo fa sentire più normale. Non vede il sole se non da qui..del resto.-
Choralyst fece cenno di aver capito, si scusò profusamente con il cavallo etico e domandò al disponibile quadrupede infine, dove avrebbe potuto trovare un mezzo per arrivare al giardino dell'Eden.
-l'accompagnerò io, allora.-
Senza dilungarsi in melliflui ringraziamenti, Choralyst si pose sopra il cavallo religioso per dirigersi assieme verso il tanto atteso amore dell'Eden.

Dispera e Melanconia: i frutti dello spirito

Galoppa, galoppa, i due arrivarono innanzi alla Piana delle talpe.
Le talpe, come si sa (grazie signor Beckett), non sono mai sobrie; infatti anzichè costruire sulla terra, costruiscono sotto terra. In questa Piana, tuttavia, si radunavano tutte le talpe che volevano uscire dal giro dell'alcool, e che qui si ritrovavano a loro disposizione una grande quantità di sabbia offerta dallo Stato (per questo è più un deserto che una piana, ma in fondo la talpa è ubriaca anche nel dare i nomi) con cui costruivano i loro primi castelli di sabbia in superficie.
Choralyst non si aspettava affatto uno spettacolo così arido: di giardini non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Prima che ponesse qualsiasi questione, il cavallo religioso prese accordi con una vecchia talpa dall'aria solenne. Fattisi tre, essi scesero fin dentro un vecchio tunnel sacro cosparso di rum e Porto (presumibilmente il Porto di Jurambalco), il quale tra l'altro, oltre ad essere piuttoso melmoso, emanava un certo cattivo odore.
In fondo al tunnel c'era un grande tappo di sughero. La talpa estrasse il tappo e scappò.
Nè Choralyst, tantomeno il cavallo religioso, trovarono in loro stessi la risposta alla domanda "che cosa accadde dopo?". Furono avvolti da diversi vini, poi a poco a poco il vino venne prosciugato dal Mar Rosso. E l'Eden apparve.
-Si- Pensò Choralyst -ora sono nel posto giusto, ma come faccio a sapere cosa devo cercare?-
-So io cosa cerchi- soggiunse d'un fiato il cavallo religioso. Trotterellava piano mentre parlava, così la sua criniera azzurra prendeva riflessi neri.
-E come, se non lo so nemmeno io?- obiettò Choralyst.
-Vedi la mia criniera? Ha preso riflessi neri perchè tu, che sei uno spirito nero, sei sopra la mia groppa. Quando qualcuno sale sopra di me, diventa parte di me, ed io posso trovare in me le sue risposte. Per questo non ho la sella nè le briglie, ma dirigo il viaggio nel migliore dei modi possibili.-
-Grazie a DIO!- Esclamò Choralyst in preda all'euforia. -Allora, dimmi, dove andiamo?-
-A cogliere una dispera o una melanconia: i frutti dello spirito-
Prima che l'altro potesse aprir bocca, il cavallo religioso assunse un andatura un po' più dinamica ed in una decina di minuti, occorsi al fine di una accurata ricerca, i due trovarono l'albero delle dispere e delle melanconie.
C'era un frutto giallo molto simile ad una pera.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Dispera.
C'era anche un frutto rosso simile ad una mela.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Melanconia.
-E qual'è la differenza?- chiese Choralyst.
Gli fu subitamente spiegato che molto tempo fa un altro essere fu portato in quel giardino, gli fu chiesto di scegliere, ma scelse male e da quel momento è entrato il male nel mondo.
-Quindi anche a lui fu chiesto di scegliersi una moglie?-
-In un certo senso- rispose il cavallo -in un certo senso aveva già una moglie, ma doveva scegliere se invitare o no il dott. Serpentivago al matrimonio.-
-Ma allora-Choralyst esclamò -io dovrei avere già una moglie per cogliere...-
-No, lui era una cosa diversa. Qui ci sono i due frutti che ti si addicono, uno porta da una parte, uno porta dall'altra.-
-Ce n'è uno più buono dell'altro?-
-No, fanno ugualmente schifo-
-Allora in base a cosa posso scegliere?-
-Dipende se ti vuoi sposare in giallo o in rosso...-
-"L'uccello di Minerva esce sempre al tramonto"-
-"Meglio una gallina oggi che un uovo domani"-
Choralyst scelse la dispera. Era gialla, e gli era sempre mancato il sole, gli avevano detto.
-Hai fatto la tua scelta- disse il cavallo religioso. Ed insieme si avviarono finalmente verso casa.

Salutato l'ardente destriero, Choralyst varcò i cancelli del suo giardino. Decise di tenere la dispera con sè tra le nuvole. A vederla così sembrava una macchiolina gialla, ma con il tempo raggiunse le dimensioni del sole, poi di tutto il cielo, rendendo Choralyst decisamente più luminoso.
Forse avrebbe dovuto mangiarla, però, perchè dopo qualche mese prese i vermi e Choralyst rimase lì, addolorato, sospeso a mezz'aria.
Avrebbe potuto trovarsi un'altra moglie, ma aveva paura di fare la scelta sbagliata. Fu costretto a gettare la dispera al picchio artistico, perchè le concedesse degna sepoltura. Da lì poi crebbe una fogliolina, ma veniva sempre calpestata dai ragazzini del quartiere, che adesso che c'era sempre bel tempo venivano a giocare nel giardinetto comunale tutti i giorni.
Più bello e più infelice.
Nessuno ha dubbi sul fatto che Choralyst sia il cielo più disperato della storia.


POSSIBILE MURALES: Chi semina vento raccoglie tempesta. Chi esamina vento raccoglie i frutti dello spirito.