venerdì 4 settembre 2009

Erebo, Eros, Erine

Erebo, Eros, Erine

È solo l’ansia di doversi giustificare, di offrire al mondo Sorella Morte ma con un vestito così bello che la faccia apparire una Signora troppo magra e stilizzata, un tanto al chilo di Art Nouveau; modi affettati ha la Morte e strascichi di aulismi vetusti quale velo da Sposa.
Tutto ciò la rende cosa perfettissima e piacevole da assimilare, la plague, il bacio cieco e sanguinolento, introdotta da così alta eloquenza, libera, addirittura e sicuramente deresponsabilizza.
Così ci si ritrova a passeggiare tra lapidi Spoonriveriane, appena regalate all’italico orecchio provinciale, lontano dalla conoscenza mondana, dove Klimt indora nuovo, perfino.
Anche dove vuol essere dolore questa Morte non porta all’aldilà, le epigrafi assumono una monocromia che le relega a quel luogo, c’è fantasia nei nomi, nelle attitudini, nelle età. Non c’è fantasia, al contrario, nel come si abbandona The Hill (o la Rocca) che basta il nome ad evocarlo, tanto diverso non è, perché non la si lascia ed è dolcezza di ciliegie interiori, nell’estate dei polmoni bucati.
Poi c’è qualcuno che se la gioca a scacchi, ma non è detto che il vincitore altri non sia che lo sconfitto, dipende da cosa c’è in palio, bisognerebbe chiederlo a Bergman ma non era ammesso, lui, alla Rocca.
Ed è quello in fondo l’Ucciardone, il Monte Athos, la fortezza della Roccella, un limbo, il parcheggio delle anime prima del salto ogni tanto affacciati su uno Stige d’asfalto con un Caronte prebellico che traghetta le anime dei dannati violando le regole del mondo, talvolta, in un fugace salto nell’aldiquà.
Così rimane l’Erebo come rappresentazione di quello che sarà, il libro sulla morte dove la morte meno si sente, dove non avviene come una recisione dalla vita ma è data per scontata il sottotesto necessario perché fioriscano mitologia e teologia.
Uno su tre sopravvivrà. C’è qualcosa che suona inquietante nel numero perfetto, una roulette russa tra creature disgregate ed unite dalla stessa sorte, per quanto sia possibile accomunare il dolore, che è solitario per definizione, se non fregandolo con uno Shakespeare oratoriale o mitologia arcadica, tanto per gradire.
La resa non è annunciata, qui siamo oltre la resa, quasi un rammarico se non dovesse avvenire: che sia una resa al contrario, dunque.
E vivere la separazione come una colpa, l’addio alla condizione privilegiata di addolorato che apre vie nuove ma occlude l’unica nota.
Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza e a fermarla al momento giusto.

Erebos, Eros, Erine

Marta è creatura mitologica, metà donna, metà icona, la rappresentazione della fugacità e della rilassatezza di vivere una storia senza implicazioni.
Lei la si ama perché è a tempo determinato gratuito, fa ribrezzo stringere tra le braccia un cadavere anzitempo ma lo si fa per sentirsi vivi e magnanimi una volta che i due colpi della roulette sono stati sparati e rimane necessariamente quello che andrà a vuoto.
Un amore che non è Amore, che è sensualmente afflato di malattia, dolciastro come il sangue, scosso dalla tosse, uno spasmo lunghissimo che squarcia i polmoni, che “è meglio morire amando”, almeno si ha la sensazione che il ricordo verrà perpetrato, l’alternativa sarebbe andarsene assieme ma Caronte non da quasi mai la doppia.
Amore, sempre che sia la verità, e, oltre al danno di quel cognome pesante, la beffa di doverlo tossire via per concessione d’aguzzino.
E poi c’è il rivale, anche tra i tisici succede, anche negli amori a scadenza, ma è la carne anziana, malata d’altra malattia che si interpone autorevolmente in questo valzer tra Montecchi e Capuleti da lazzaretto che tutto vorrebbero tranne che gli si acconsentissero le nozze.
È fuori che dovrebbero riuscire ad incoronasi amanti non nella Rocca, lì sta però il luogo dell’abbraccio, la stretta mortifera che arriva nell’ultimo afflato di vita: verso la Morte per l’una e Resurrezione per l’altro.
La stretta finale è la sciocca illusione di voler perpetrare la vita da un corpo ormai destinato alla decadenza che consentirsi d’amare non può far altro che accompagnare di là.
Sempre che, tutto questo fosse Amore e non una parentesi allo scorrersi della narrazione, tanto Eros e Thanatos sono abituati a sollazzarsi in lenzuola d’ombra tra le pagine scritte.
La seconda ipotesi fa troppo per imporsi, saccente, come al solito.
Così in una cabaletta di parole a memoria, com’era giusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti.

Erebos, Eros, Erine

Per ultima arriva la Vendetta cenciosa come un danse macabre, dicono che abbia sapore dolciastro, come sangue di polmoni, dicono che si appoggi dovunque: sugli stipiti delle porte, sulle lenzuola di una notte d’amore, sulle guance dei bambini, lei è Vendetta dai capelli di serpe e i denti di cagna.
E si dice di come la vendetta più subdola sia quella dell’untore, dell’appestatore, di colui che sanguina miasmi in luogo d’aria, di come si voglia ridiscendere alle altezze della vita attiva giusto per illividire di gelosia.
Si dice che ci fu un uomo che aveva un occhio solo, chiese come dono che tutti gli altri divenissero ciechi. Ma non si dice mai di come egli si sentì in colpa per essere l’unico a vederci ancora nella sua piccola compagnia di orbi.
Così l’unzione, la malattia come alibi al male, diventa tollerabile eticamente e addirittura ricercata, il grido veterotestamentario di muoia Sansone con tutti i Filistei riceve incarnazione qui, nella città sana, concava e pronta per accogliere uno sputo mortale.
Si dice che sia un lavoro da untore anche quello di voler notare a piè di pagina gli intenti di una lingua millimetrica ed altissima,quello di voler comandare le sinapsi di colui che si ferma a leggere queste epigrafi smemorate sul bordo della strada, vanamente illuso che non ricapiti quello che già in vita successe loro: essere dimenticati.
Era stata una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire.

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5 commenti:

  1. Apprezzo molto, a livello personale, che Athena scriva qui. Il libro, Diceria dell'untore, è qualcosa come uno pneumotorace letterario, uno squarcio sul respiro interiore della malattia. L'analisi qui sopra è intelligente, soprattutto nella misura in cui scopre e dispiega la strumentalità mitopoietica della morte, che infine è la macabra saltimbancheria con cui Bufalino la inocula nel mondo dei vivi, come un catalizzatore organico di sublimità - e, allo stesso tempo, la promessa del suo superamento, batterio e vaccino. Le troppo ingenue formulazioni, che la vita sia un discorso di morte o che la morte parli dei vivi che prima c'erano, vengono quindi superate e risolte nella coscienza che il mito, vita assoluta nella propria antifattualità, è la lunga storia di enormità mostruose, il sentire portato al suo stremo insalubre, eroi e mostri che sprofondano indistinti in un oceano molteplice.

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  2. Un esordio davvero molto bello, ho ammirato sia lo stile sia il contenuto. Quando il sire in una delle sue lettere la descrisse, cara Athena, quale "penna arguta e tagliente" io pensai "boh, secondo me ha bevuto anche stasera". Erravo, come sempre.

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  3. Ho apprezzato molto questo brano. Brandello. Insomma. E perciò saluto con entusiasmo la nuova arrivata.

    Io ho sempre sospettato che la morte fosse qualcosa di profondo. Ma qui, sotto lo sterno. Come una ghiandola ad orologeria.
    Un dolore intercostale, il corpo che si piega. Poi finisce l'aria del mondo, inghiottita nel circuito della morte.
    E non abbiamo branchie, ed è sparita anche l'acqua.
    Così la morte ci muore in gola, aggrappata alla laringe.
    E tutto questo è molto triste, converrete.

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  4. Felice di essere stata tanto ben accolta in questo (non)luogo così stimolante, grazie a voi tutti e a Phlebas, in particolare, per avermi invitata qui.

    Invidio coloro che riescono a pensare alla morte quasi come a una categorizzazione kantiana, che possono spiegarne i confini, che ne operano un distacco razionale.
    Sì, anche io trovo molto triste il morso di morte che muore di cui parla noluntas, c'è da capire se si tratta di una sconfitta solo nel doverlo spiegare, cosa che io credo.
    In questo è grande Bufalino qui, nella spiegazione, la mitopoiesi mortifera di cui parla Phlebas come superamento, che per me altro non è che l'ennesima gorgone apotropaica atta ad esorcizzare Thanatos.
    O è solo dovuto ad un problema mio, ovvero quello di vivere la morte, sooprattutto immaginarne la propria, come un distacco netto, un colpo di coltello improvviso che lascia il vuoto della ragione attorno.
    L'horror vacui del non pensiero.

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  5. Un libro che è come lo sconosciuto che ti abborda in un bar e ti tiene fino alle 6 del mattino a parlare di se...
    Il pazzo destabilizzante, lo stile gonfio come un annegato...
    Non puo non ispirare un lettore attento...
    Ma stupisce ugualmente il contributo di Athena.
    Entrambi lei e "l'originale", cercano di leggere la vita partendo dalla fine, dal contrario...Una poesia dall'ultimo al primo verso.

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