mercoledì 24 febbraio 2010

De Cantautorato Italico Vol.1

Era da tempo che qualcuno qui dentro mi parlava del progetto di un excursus nella musica italiana, (quella che ha un senso ovviamente N.d.A.) quindi, poiché le promesse vanno mantenute, se no volano via e non lo si ritrova più quando fanno la transumanza, prima che sgeli sarà il caso che si compiano.
Fatta questa premessa non necessaria ma doverosa, che si avvii questa rubrichetta amena, leggera leggera come le note delle canzoni e, poiché chi scrive è fissata con la cronologia, che s’inizi pure, in ordine cronologico ma senza la pretesa dell’esaustività.
Avviso: queste pagine saranno profondamente autarchiche ed autoreferenziali, così, per evitare equivoci.

C’era sempre gente su una vespa, negli anni ‘60, le ragazze si sedevano dietro, all’amazzone, i ragazzi avevano la brillantina sui capelli, e mangiavano gelati, negli anni ’60 era sempre estate e s’indossavano occhiali da sole, per vezzo s’intende.
Poi c’erano i jukebox, in Italia, negli anni ’60, in ogni localino seppur stupido era un susseguirsi di canzoni a richiesta, quello che c’era dentro contava fin lì, l’importante è che suonasse qualcosa, si doveva ballare come imperativo categorico.
C’era anche lo struggimento di qualche bellissimo cantante dagli occhi tristi, ma questa è un’altra storia che merita delle righe in esclusiva.
E il tempo era quello delle gonne a sbuffo,
il tempo era quello adatto a dividerseli, i gelati
uno da una parte e una dall’altra.
Amore così, presi per mano.
E allora che si pensi a Genova in quegli anni, che si pensi a poeti menestrelli e ai nomi noti e a quelli quasi cancellati dall’avanzata dell’acqua sulla battigia, che si pensi a delle melodie orchestrali sontuose, che si pensi ad Umberto Bindi.
Dediche d’amore di uno struggimento disperato, la stessa disperazione dell’amor proibito dalla censura, dell’impossibilità dell’unione tra Montecchi e Capuleti che non potrà sfociare nella felicità di Romeo e Romeo, siamo sempre nei primi anni ’60, ci si tiene per mano, ma a condizione che almeno uno dei due indossi una gonna; gli costerà la partecipazione a Sanremo (ora pro nobis!).
Così ci si arriva alla fine, all’estremo di una musica orchestrale che sembra eterna, ci si arriva dall’ultimo angolo, quando la musica è finita, quando ormai non c’è più niente da dire e rimane solo il sonno di una solitudine costretta, di una vita senza, dove il “con” era la possibilità di suonarla in due.
Si deve ritornare indietro seguendo la scia di un salotto musicale sontuosamente arredato, il mal d’amore declinato con note struggenti (sì, struggente è la parola mantra) perché dedicare una canzone è troppo poco quando si può pensare ad un intero concerto, l’importante, negli anni ’60 era tenersi per mano.
È un canto delicato e desolato, la ragione capitale dell’essere musico e vivente, quello di conservare in una tasca tutto l’amore del mondo e aprirlo ogni volta che se ne ha bisogno, la realtà circoscritta della totalizzante passione d’amore quella che non fa andare al di là di sé stessi, quella che si fa rinchiudere nel proprio mondo.
Questa è una storia che finisce all’inizio, con la prima canzone che è un addio, originale che si inizi con un arrivederci, perlomeno si sta arrivando a qualcosa se si opta per l’abbandono.
Solitudine come situazione esistenziale per questo cantante dello struggimento.
E poi nella scuola genovese ce qualcun altro, nascosto tra le pieghe della storia della musica, noto ai meno, soprattutto se quei meno hanno più di 50 anni.
C’è da parlare di testi poetici, un po’ trasognati un po’ iperrealistici come contraddizione in termini s’intende, che fa sempre piacere.
Il ruolo di cantare le storie spettava a Lauzi, di raccontarle con il piglio del narratore pure, sia che fossero fiabe per bambini, sia che fossero storie di adulti: persi nel gioco e nell’assenzio e sceglieremo questa, una su tutte, di rappresentanza perché non deve esserci nessun tedio nella meraviglia.
Una canzone manifesto, una scelta letteraria, un amore, l’ennesimo, non corrisposto, perso tra le carte gli appunti e quelle da gioco.
La storia di un poeta che parrebbe un cliché se non fosse così, vera più del vero.
Ché c’è sempre un po’ di nostalgia degli anni ’60 anche se non si sono vissuti mai, c’è una nostalgia di qualcosa che si può ascoltare, meglio se in vinile, c’è la nostalgia e la consapevolezza del dolore del nostos, come motore universale.
E su queste note, quelle della speranza di un possibile ritorno, mettiamo a dormire i vecchi vinili e gli occhiali da sole sotto la battigia.

mercoledì 17 febbraio 2010

Inno al -Coniglio- Perduto

(una cosa che devo ricordarmi di fare)

L'ha chiamata "eudemonia", o forse ero distratta, ma doveva assomigliare a qualcosa di simile. Col tempo ho imparato a riconoscere i respiri dell'atmosfera (anche se non sappiamo il numero dei respiri, e la direzione). La parola ha una cadenza come di passi, fuori, affannati, sulle scale -si, sento passi, sulle scale-. Ma la parola e i passi sono anime della stessa danza; rivolti all'indietro, quest'ultimi, sanno ancora di possibile, lecito, concesso.._
Parlare no, è un tintinnio disturbante: -tacchi, non propriamente passi, passi con tacchi- un puntello fisso al centro degli emisferi, petulante, nelle orecchie, sotto il cemento. Comincio a realizzare di essere stata murata viva col mio suono, nelle orecchie, sempre, ad ogni modo. Come sentirlo, annunciato appena e con timore, un rimorso incisivo sulla luna che incendia la notte, ronza (solo non posso saperlo) invece che.._

-Scusi, lei ne ha mai perso uno?-
-Di cosa, perdoni (dannatamente distratta, già)-
-Del Sonno, ha mai perso del Sonno, le chiedo. Penso che la cosa sia interessante, da un certo punto di svista.-

Sonno, quando parlo tendo continuamente a soffocare, declinare col vuoto (è il problema del grafico a dispersione, sul foglio elettronico), silenzio, calma..- "Io ho sonno", temerariamente, ma non vorrei ritrovarmi al centro della tenda, mi pare evidente; scappo dal sonno, ho fretta, arretro a ritmi decrescenti fino allo scadere del sole. Dovrei imparare, un giorno (sarà il caso di sognarlo ancora. Per non dimenticare) -come le foibe- Per adesso so solo andare a gattoni, a volte perdo le lettere, le lancette incollate, fiori di legno. (o meglio faccio di tutto un affare letterario, penso) Ma anche per forza di cose, mi servono tutte le zampe (le mani, i caratteri maiuscoli), non ho proprio nulla, mi occorre ogni libertà per agevolare il corso (il corso è traditore, come la tomba dell'anima).
Dalle profondità auricolari nascono anche le immagini più calde. Oh, per Cartesio, almeno così mi assicura, siamo tutti visionari. E l'immensità compone il premere, incorpora tutta la pressione attivando lo spazio, così due parole divise da sè, però anche dalla libertà, perchè ogni parola è il proprio grido -che compenetra l'angelo, un sonno antropomorfo.._
"Io sonno", grazie alla grammatica, grazie molte (segno rosso): "Io sono".
Credo di non aver perso alcunchè (ma le strade, i palazzi, un cielo più alto, basso se teso sul mare, sul ponte: una tensione del lago, e poi forse le campane nelle orecchie, immagini vive/e/o/morte, le castagne, per figure e figure sul fondo e_
Si, ma non il Sonno, comunque. O l'Essere, se volete.


-No, non credo. (...)-
-Ci vorrà molto, penso, perchè ti passi (si struscia il naso - ode al pan tarei)-
-Vorrei parlarle ancora di Sonno. Oppure quella frase di Montaigne..com'era..-

(viltà di dialogare, si sono ancora invertite le parti)
Delle orecchie, già. Ci vorrebbero delle orecchie nuove.

A proposito di uno che conoscevo

Il latte alle ginocchia lui
lo sentiva quando s’abbassavano le veneziane
e la folla caciarona, tutt’intorno, si ritirava
schiumava via leggera, come dileguandosi
ai bordi. Allora nel suo petto si raggrumava
una fredda iperventilazione – sugli occhi
il clangore ineluttabile della cassaforte
blindata – la Vergine di Norimberga –
silenzio altissimo s’incuneava
come scheggia nichelata,
apriva un lacero immane, una balza a capofitto
che raggelava.

Era la claustrofobia
dell’immobile – una frangia
richiusa, il barattolo di vetro
senza fori sul suo capo di falena – il Battista
nel deserto, il gabbio di Sant’Anna squarciato
dai lampi, la particella di sodio
nell’acqua minerale.

Diffuso nelle alte orbite
l’SOS restava
inascoltato – nessuna radio
lo captava – il suo farfuglio
entrava da un orecchio ed usciva dall’altro.

«Non sono, come me stesso, ancora solo» ripeteva in quei casi
Poi, disperato, componeva svelto [ingannandosi.
il numero che solo lui sapeva.
«Guarda, mi spiace, ho qui l’esito
dell’esame» diceva lei, pietosa
sulla soglia. «E’ positivo».
L’esitazione durava il tempo di un’alzata di spalle.
«Vieni ed entra, attingi a mani basse» diceva lui. «Pazienza
per i T - helper».

A volte l’uggiosa compagnia del vuoto
fa più paura dell’immunodeficienza acquisita;
poter parlare solo con ceneri e ombre,
più della trascrittasi inversa – e il bisogno di carezze
vince sui femori il ribrezzo della toxoplasmosi.
L’incubo peggiore – sappiate –
può essere quello del soldato giapponese
abbandonato sull’atollo del Pacifico.

venerdì 12 febbraio 2010

baco

Per cortesia, sarebbe il caso di smetterla. Lo sussurrano i tasti (muti) su cui affondo queste dita unte, sudate. Lo bisbigliano i pixel di questo monitor formicolando obbedienti; le palpebre pesanti, gli occhi affaticati, la testa ronzante.
Sarebbe proprio il caso di smetterla.
Crisalide perenne, nata marcia, il baco sgattaiolando nel bel mezzo di ogni metamorfosi.
Fossili prolettici, chimere futuribili incapsulate nell'ambra: una pioggia di dadi, e un vecchio che sbuffa. (Il baco al bar, con qualche falena.) Gentilissimi cristalli scintillanti, menzogne surgelate e verità imbalsamate. Apeiron di ricorsione, significativi barlumi di onniscienza – gorgoglii pregni di fascino. Le vite ad una ad una come perle su un filo di non senso; (Un altro po' di birra) e le parche miopi e un oltresciacallo sdentato. Ossa di mollica, briciole di tendini: strutture buone a seppellirsi da sole, automatiche, il segreto nel mordersi la coda. (Giù per la gola, solo; le farfalle, tutte morte. Pessima compagnia.)

lunedì 8 febbraio 2010

la presa

(di passo in passo, per la traccia
che possiedo, al fiato morto
di ogni strada detta, o cercata)

... e a cercare mi ripeto fin dove
il segno si interrompe, perché io
finisco se finiscono le orme,
le ombre in cui si allargano le vie;

proseguo a palmi su di te basta
che mi credi ma non chiedermi
di quelle nebbie più avanti o se
un gioco come il tempo basti
davvero al peso di un distacco

facciamo presto stasera, che sia
fra sterno e sterno di un dolore
alla radice del battere, e il calcare
delle cose in convulsione, o la stretta
distratta al battito di sempre, il vero
al vero che mi hai detto di cercare

cosa il respiro se non viscera
cosa riluce se non di beatitudine
ridata è un niente a finire
in una terra che ci sposta via

benedicimi di te se puoi:
dalle ossa alle ossa si è solo mani
di mani a mancare
l'ultima presa,
un oscillare, occhi ed occhi
a ritenere il vuoto, alla caduta


domenica 7 febbraio 2010

Supplizio

Un vecchio, abbandonate le speranze della vita, si affaccia alla finestra per stendere il bucato e reca con se una pesante bacinella ricolma di panni. Finita dopo penosa attività la preparazione del festone casalingo, un tenace colpo di vento strattona i maggiori tra i teli che, di conseguenza, fanno vibrare poderosamente il filo dello stenditoio e tutti i panni stesi, saltate le mollette, rovinano in basso, nella melma dell'orto. Il vecchio, che ha assistito alla scena, allora indossa un cappotto, scende le scale del palazzo, entra nel giardino e ricupera i teli. Poi, risalito, fa partire una nuova lavatrice con ancora gli stessi vestiti e lenzuola.
Accortosi che ormai è sopraggiunta la sera si prepara un brodino e si corica sognando mari in tempesta mentre in sottofondo risuona lo sciabordio del lavaggio dei panni.
Oh, Sisifo, demone dei pensionati, quanto ancora ti rode la futilità della tua arguzia di fronte la personificazione viziosa della vita?

lunedì 1 febbraio 2010

R come

repulisti. Sistemando la camera di quelle cose vecchie cioè, e la loro duplice fedeltà e le cartacce sparse eccetera, penso che da piccolo sempre mi regalavano diari, diari segreti, agendine e altri fogli bianchi da sporcare e ancora adesso, con la convinzione che chi piace leggere forse, ma soprattutto i diari, non tanto il comune che tange dei propri panni in piazza, ma propri poi o di tutti o soli nella comune insignificanza, che una luce radente solo, un taglio analitico o scorcio, mette in ombra, in luce, riscatta, ma quel caro diario, che attacco, principio di frase più atto a intimorire, io credo, e la sua minaccia di giorni lì, immobile fino al futuro da venire repulisti.

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(Prima cosa da un po' che penso possa avere un suo significato pure a stare qui, magari pure da tacere, pure brutta, ma un po' mi toccava il solo commentare, che insomma...)

lunedì 25 gennaio 2010

Coda con gatto

D'improvviso un impiegato delle poste che sta lavorando ad uno sportello s'accorge che i suoi piedi si sono trasformati in zampe da gatto. Sorpreso, si rende comunque conto che la trasformazione per come è avvenuta è sostanzialmente inutile (a nessuno servono soltanto un paio di zampe da gatto) e per questo si rattrista.
Allora l'impiegato salta giù dalla sedia e si mette carponi a miagolare, sperando così di completare il processo.
Ma non accade nulla e nel frattempo la persone davanti lo sportello cominciano a battere sul vetro perché si dia attenzione ai loro problemi.

sabato 23 gennaio 2010

nobiliare

io e il sire. un ver(s)o a testa (spezzati e divisi, all'occasione, per distribuire il dolore). un falso d'autore. non è divertissement. se non altro perché, in vita nostra, non ci siamo mai divertiti. senza ombra di dubbio. senza macchia. ma abbiamo paura (e per questo siamo santi, non eroi).
navigare è necessario.
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l'upupa imbottigliata è un'altra
- impagliate a stento, lungo i sopori domenicali
rispondono al richiamo e non somigliano
a noi, ritratti per i molteplici compleanni, le comunioni, le patenti
trapuntati nei nostri piumini a schermo, in faccia all'inverno
ma con le dita ghiacciate e la brina
inesplosa. Il pedaggio con l'obolo sotto, una suola,
guadagnare l'ascesa alle acque
superne, le nevi, che ricordano
alle cose il metallo, la membrana minerale: pur sempre
una nascita, l'opposto del principio, un primissimo
dolore delle cime - infine, un satellite.
La misura di quanto ricade, oltre l'ora e la traslazione
è un trasloco di palloni, mongolfiere, una rimonta fino alla febbre
e rimane, segno e paradosso, emblema
girandola e mulinello, alle correnti.
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- ecco, abbiamo scritto una cosa
. da aggiungere alle altre
. forse un giorno ci saliremo sopra
. e raggiungeremo lo scaffale
. dei biscotti

- o la corda

venerdì 22 gennaio 2010

radiocomando e radiografia (in punta di secolo)

i responsabili, questa volta, due (per spartirsi la colpa): io e kyuss, quando io non gli chiedo cose, e lui non mi avvisa che per l'esame è troppo tardi ma si può rimediare ed è quasi tardi anche per questo, ma non proprio, non ancora.

non siamo seri. siamo ieri.

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la macchinina, non il volume
dell'ora in cui si chiudono gli scuri
apre i fari a un rilancio, un cortile - un credo, quasi a svanire, dalla scocca -
ai metri un pistone, un barometro, la cerniera
di nebbia celebrativa, il grilletto, e sia
lo sterzo a centrifuga, sfasciato, le leghe scagliate
e scisse alla stretta delle luci, la torsione di un muro
- se l'allarme è domani, viola di sirene -
quindi i cancelli piegano un nome, un cilindro e ancora
trovo che l'oltre sia telaio e taglio di lamiera
e una valvola dove entrano a taniche, a iniezioni
per chi ne ha cura, in dosi e soglie approssimate, le frizioni
occluse fino alle maniche, alla curva magra del lunotto.

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- chiudere una poesia con "lunotto"!
- si beh, anche iniziare con macchinina è bello

giovedì 21 gennaio 2010

Saggistica post-bilancio: L' Hentai come arte della guerra

Gli occhi negli occhi affilati, un vuoto areeo che circonda la terra col cranio frantumato del sole, la protezione del caldo. Da due crocette d'inchiostro rosso lo stratega mobilita l'interesse altrove: su una patacca di sugo stantio. Non acido, proprio "stantio", come le cantine sotto il livello del male (che è proprio "male"), in trincea, le quattro di pomeriggio più lontane che si possa pensare. Processioni con i bulbi rossi, infossati dal freddo nascosto tra i nodi dei capelli; ampie direttrici crude e virili che spaventano le pupille circondate dal sangue, gli usberghi affacciati al secolo, pendenti. A volte si inorridiscono al punto di dividere la carne, il morso della bocca dirignata di un compagno. Una paura Controvento: l'apogeo della vittoria.
Dalle palizzate del monte rotolano a valle palle di fieno (è musicale: un coraggio, una noia, un'attesa..), il suono di quantità granulari si avventa sul silenzio -dagli scarponi-, un sole tintinna sulla punta della lancia arrugginita, l'armatura riflette il suono simile allo scalpiccio della gente sopra stendardi a brandelli. Criptato. I comandanti, l'esercito e quelli a cavallo, tutti con la loro criniera posticcia, sotto l'afa soffocante, che decifrano pazientemente l'incandescenza dell'aria fino alla remodulazione ASCII. Lo 0 e l'1, Questo e l'Altro -pellegrinaggio al monte Tabor-.
Sono delle liane ad unire le armi, i denti a vibrare sui cannoni quando tutto l'universo manicheo della scacchiera esplode nel cerebro di una sola pedina.
C'è un'insanità nel dolore, una supplica nello scongiuro. Anche la violenza ha la sua ellisse attorno ad infiniti mondi prima di richiamarsi all'interno dell'arena, nel casco carminio abbandonato sulla forca, nella finezza della prensione del piccolo portabandiera con i calzoni slargati. La mano lenta: un adagio dei gesti infiniti.
E arrivati iniziano il prima possibile a sventolare l'alabarda; l'importante è guardarsi poco, intuire geometrie e finesse, rasentare le delimitazioni dello spirito.
L'attimo di reciproca identificazione rispecchia un suicidio tra le carte del tempo nell'infallibilià dello stratega affannato su un piatto stracolmo di amatriciana, l'affondo della forchetta col desiderio carnale, le squame al fianco di ferite purulente che cercano istancabilmente possesso sul nemico. "Nemico" (ne-mi-co) designa tutto ciò che si vuole, uno stakeholder, il mittente di una forte pretesa e poi un'inversione di campi, rivoluzione su bianchi o gialli. A seconda di quale deserto si stia parlando.
Il contatto visivo scompare nel desiderio, diventa esso stesso pura brama, sudorazione a fior di pelle, sul filo della sega: un impeto metallico, ma lascivo. La luce soffusa fa del conturbante l'arte di apparire nascosti dalla scimmia: una coda d'ombra solleva la perpendicolare al cielo, che poi è una simbologia del sogno, uno spazio freudiano, la Venus Meretrix della morte in battaglia.
Corpi. Bisogna fracassare la testuggine così come una dolorosa penetrazione senza sensi, il muscolo che scatta ("clak", comunemente l'onomatopea viene resa con "clang"), rompe una tribolazione malsana su carta carbone -dulpicare ciò che duplica-. L'esplosione del padiglione d'oro colora lo squallore dell'alba, la genesi è giustificata dalla polvere che allinea le trame insignificanti su cui scorrono i quadricipiti disarticolati. In fondo ad ogni vicolo cieco c'è una seconda strada verticale che a volte assomiglia all'affresco stirato del tramonto, un sipario trionfale, orgasmo nella gloria. L'ombra alta della bandiera sfiora il limite del mondo -vignetta all'interno di galassie sovrapponibili- (harakiri/karakiri improvvisato: enfasi).
Io non so bene come si faccia la guerra, cioè, non mi si può chiedere un saggio sulla guerra, ma penso che presi due oranghi con un bastone in mano di possa già parlare di guerra. Però so disegnare hentai, il che in definitiva è la stessa cosa.

Lenzuola

Augusto Doreloff un giorno, mentre stirava, si ritrovò fra le mani un lenzuolo giallo molto brutto.
“Questo tessuto è davvero orrendo” disse e lo accantonò senza stirarlo.
Il giorno dopo aprì l'armadio, dovendo rifarsi il letto, per procurarsi dei teli adatti alla bisogna ma scostate le ante si ritrovò davanti, perfettamente ripiegato, un lenzuolo giallo davvero molto brutto.
“Non credo che userò mai questo orrore – disse – Non fa che occuparmi spazio, farò meglio a liberarmene” e buttò il telo nell'immondizia che poi la sera si preoccupò di andare a gettare nel cassonetto condominiale.
La mattina seguente Augusto Doreloff si svegliò con una insolita sensazione. Andò a prepararsi la colazione e si lavò senza riuscire a togliersi di dosso il senso di disagio. Quando tornò in camera per vestirsi scoprì il fattore che tanto gli causava disturbo: un orrido lenzuolo giallo attendeva senza macchie e senza pieghe sul comodino accanto al letto di essere utilizzato.
Augusto Doreloff gridò:” Non posso credere di aver comprato per questa casa una cosa così costipante! È disgustoso e chissà cosa mi sarà costato. Caverò questa cosa fuori da casa, costi quel che costi, così sono convinto che convenga.”
Afferrò dunque il lenzuolo e corse in bagno dove gettò il telo nella vasca da bagno. Poi prese dell'alcool che teneva in casa e ne impregnò il tessuto. Indi accese un fiammifero e ve lo gettò sopra.
Stette a guardare seduto sulla tazza del gabinetto finché tutto non fu ridotto in cenere e quella sera andò a dormire sereno.
Al risveglio, Augusto Doreloff si ritrovò avvolto in un terribile lenzuolo giallo. Non disse nulla e si rimise a dormire.

lunedì 4 gennaio 2010

L'orizzonte degli eventi - ovvero lo spazio è freddo, fa freddo anche qui e in ogni caso, se si grida, nessuno ci sente

Non so a voi, ma a me di rado capitano cose. L'altro giorno mi è capitato il mio nome, ma è stato un caso.

Voglio dirvi, anzitutto, che il freddo non finirà mai di sorprendermi. La fisionomia del freddo è così sporgente, pronunciata intorno alle cose e agli eventi, sbalzata fuori, piuttosto che sigillata nel loro recinto. ll freddo è, forse, un assetto delle distanze, il più ampio. (Questo spiega, ad esempio, perché la Russia è tanto lontana*).
Veniamo, però, agli eventi (prima che loro av-vengano a noi - ci si viene incontro, insomma, ben oltre il compromesso. Siamo compromessi, questo sì. Decisamente). 
Gli eventi - i famigerati eventi - discendono, io penso, direttamente dal freddo. Delle cose sappiamo, dopotutto, che non succedono, si succedono. Ereditariamente. E' possibile che la vita - né razionale né, tantomeno, razionata - sia però reazionaria. Conservatrice.
Che la vita conservi se stessa, è facile crederlo. Quanto a noi, invece: è la morte a custodirci. La morte che, infatti, ci risparmia. Non siamo noi che pensiamo alla morte (e nemmeno pensiamo la morte – ultima roccaforte della vita, giacché la morte si può solo vivere), ma la morte che pensa a noi, ci fa da badante (e noi, neppure a dirlo, sbadati).
Se esiste un evento degno di questo nome, infatti, tale evento non potrà che prodursi laddove non v'è anticipazione, né orizzonte. Non si può dare evento che non sia escluso dall'immagine, che non appartenga alla sua propria (e unica?) distanza e non abiti il suo esilio. Ed è il buco nero della morte ad appiattire ogni cosa sull'orizzonte degli eventi, a spogliare il mondo della “rappresentazione”, risparmiando giusto il fantasma del Wille – un poltergeist, ad esser precisi.
L'evento è, più compiutamente, ciò che noi non vediamo (av)venire, ciò che non dovrebbe esserci esattamente là dove non dovrebbe essere, il ribaltamento della profezia, l'impossibilità stessa della profezia e di Dio. Il clinamen, l'esitazione nella pioggia atomica, il singulto minimo della caduta. Nell'evento non siamo tanto soli, quanto ultimi (tanto è vero che esistono solo ultime ore).
L' evento non accade, l'evento cade, piomba dall'alt(r)o. Cose che capit(ol)ano. Una s-venuta (Maria Teresa), meglio ancora uno svenimento - e una sventura, anche.
L'evento non è spettrale e non è fantasmatico, l'evento non è un'epifania. L'evento è, io credo, inchiodato alla croce. E il sepolcro vuoto non è la resurrezione, ma il miracolo della scomparsa. La (s)venuta (il venir meno) che si conferma pre-matura, il sigillo di una morte precipitata. 
L'unicità degli eventi sta nel fatto che esista un solo ed unico evento. Una stessa matrice, che insiste sulla realtà e la (de)forma. Se gli eventi siano, a questo punto, una faccenda seria (come il nome dei gatti), non saprei dire. Di certo, però, gli eventi sono seriali. Come il cibo in scatola e come gli assassini.
E ancora: noi. Noi siamo visti dall'immagine (abscondita), come lo spettro di Amleto, e siamo fatti dai (mis)fatti. Soprattutto, siamo detti dalla parola. Siamo predetti, predestinati. Se il mondo reale viene meno, e così pure quello apparente, allora non siamo nel nichilismo, ma ancora nel lutto. Poiché restano le vittime (quel grido di redenzione che attraversa il cosmo di Anassimandro), le vittime sopra alla Storia e all'eternità e ad ogni ragionevole dubbio. Restano i morti, e i morti sono tutto ciò che abbiamo (io ho anche un macbook, ma non importa).
Per questo motivo non esiste evento che non sia intimamente Dresda o crocefissione (simulacro del simulacro o semplice simulacro). Intendo dire, in definitiva, che l'evento è sempre tragico, lo è strutturalmente (e necessariamente nella misura in cui, privo di aspetto, abita anche la necessità).
Non esiste, dunque, un "tempo" o un "luogo" dell'evento. Gli eventi sono sempre fuori luogo e fuori tempo (una sagoma del ritardo, se vogliamo - anche nell'accezione umoristica del termine), alla stessa maniera dell'ironia. I tempi comici sono, insomma, tremendamente affini ai tempi morti.
Abbiamo davanti, signori, il pessimismo co(s)mico.

Quello che accade - e accade continuamente (in ciò sta il miracolo) - non è altro che il freddo. E non è neppure il nostro freddo, giacché noi, del freddo, siamo incapaci. Il freddo appartiene invece ai morti, è il loro lascito. E' superfluo inferire (ed infierire), a questo punto, che questo freddo dei morti altro non è che la morte medesima. E che il freddo è osceno (\fuori) e sta intorno alle cose come un avvoltoio, ed è il modo in cui la morte si comunica e ci scomunica, ed è anche per questo che la neve è equanime e somiglia alla morte (semper eadem...).

Quindi: prendiamo oggi. Oggi, ad esempio, mi è successa la morte. Oggi e sempre. E questo, infine, è l'inverno del nostro malcontento, ed è sconfinato.

(La poesia è, in certo senso, una cronaca – “in tutto quel che faccio esiste un miscuglio di giornalismo e metafisica” - non già della "dimensione interiore", ma della dimensione anteriore. Uno sguardo all'imbuto degli eventi, al gorgo che stride. Rigorosamente in silenzio, come ad una processione funebre: muti - e d'altronde che uno sguardo parli, e magari dica qualcosa, non s'è mai visto . La poesia che non "combina" niente (neppure io!), ma è combinatoria fino allo scontro e/o all'incastro. Alle uguaglianze che, d'un tratto, si schiudono nel prodigio della divina in-differenza, nella statua che partecipa del "meriggio" fino alle estreme conseguenze, fino all'identità. L'eternità in cui "tutto è deserto",il cucchiaio in cui tutti si è ricomposto, ed è finito. E chi era, forse La Rochefoucauld, a dire: "esistere è differire la morte"? Non ricordo).

Perciò, se mi chiedono degli eventi, io non so che rispondere. A parte questo wall of text intorno agli eventi (fisicamente intorno: una presa in giro, direte voi, soprattutto Luca). Confido, comunque, che il freddo sia arrivato un po' ovunque. Anche nelle vostre stanze.
Se invece mi chiedono delle cose - e di cose-parole, allora mi trovano quantomeno "preparato" (essere preparati agli eventi, se davvero ci sono, è naturalmente impossibile).

Io sono, fondamentalmente, una persona religiosa. Poiché in profondità, dove "tutto diventa legge", non esiste abitudine che non sia liturgia.
L'abitudine è il sentimento che proviamo davanti alle cose. La fedeltà delle cose ai loro luoghi e alle nostre mappe. Un affetto, riconoscimento e riconoscenza - forse, addirittura, pietas. 
Sicché io sono davvero affetto da abitudine. E posso dire che, nell'abitudine, si vive la morte oltre la Storia, oltre la concatenazione (\catena di montaggio, serialità) degli eventi. Si vive (se diamo retta a Derrida e l'affermazione è sempre nel passato - da cui deriva che la parola è postuma) l'aldilà dei "fatti". 
E gli eventi, in ultimo, sono certamente "fatti". Fatti e finiti*.


* con tanto freddo, era impossibile non incappare in qualche freddura. Perdonatemi.

domenica 3 gennaio 2010

Una mattinata

Accarezzato dalla brezza mattutina, cullato dal rumorìo del boschetto vicino, Claudio si avvicinò con passo sicuro - e quasi solenne - al grosso faggio.
L'albero si trovava in cima ad un prato in salita, e il ragazzo ebbe da faticare, tanto che quando lo raggiunse dovette appoggiarsi al fusto per riprendere fiato.

Claudio non era esattamente in forma. Intendiamoci, non era un ciccione incommensurabile, non uno di quei fenomeni da baraccone da fast-food americano.
No, era piuttosto un rammollito. Un metabolismo nella norma, una struttura fisica altrettanto nella norma. Era stato reso soffice, solo quello, da uno stile di vita sedentario.
Che colpa ne aveva, del resto, se le corde del suo animo versatile e magmatico venivano pizzicate con tanto vigore da quelle attività che necessitano di una lampada e d'una sedia soltanto? La letteratura, in ogni sua forma, era per lui tanto concreta quanto lo era la realtà, e certamente più varia! Questo aveva constatato nei suoi diciott'anni, e davvero non ci aveva mai trovato niente di male.
Pertanto, il suo vivere era costellato di fughe virtuali impilate l'una sopra l'altra, fughe dai confini indecisi e mutevoli, che talvolta penetravano l'una nell'altra, a volte si confondevano anche con la sua vita, e di certo lo influenzavano in ogni suo gesto, a partire dalla quotidianeità.
Il termine 'fughe' trasmette forse una sfumatura inappropriata, carica di malizia e d'insoddisfazione: ma queste non tangevano l'animo di Claudio, giacché egli non percepiva alcuno iato tra le varie esperienze che s'impilavano dentro di lui, fossero esse vissute sulla pelle o dentro le fibre del suo pensiero.

Il giorno prima, Claudio si trovava nella sua casa di montagna, insieme ai nonni. Era arrivato in montagna dopo un viaggio che gli aveva occupato metà mattinata (mentre l'altra metà l'aveva trascorsa raccogliendo frutti di bosco lì, nel giardino), e se ne sarebbe andato il pomeriggio del giorno successivo. Aveva portato con sé, per ingannare il tempo, Il Barone Rampante di Italo Calvino, e lo stava leggendo davanti ad un focherello crepitante. Più o meno a metà del libro, Claudio incontrò un difetto di stampa, tale che tutti i quarti successivi erano parte di un altro libro. Un po' infastidito da quell'errore, Claudio chiuse il libro e lo poggiò sul tavolino, sbuffando. Quella situazione gli ricordò allora l'analogo difetto di stampa in cui incappò il 'protagonista' di Se una notte d'inverno un viaggiatore, dello stesso autore del libro che stava leggendo. A differenza sua, tuttavia, Claudio non era in condizione di raggiungere la libreria per farsi cambiare il volume. Sorrise, incrociò le braccia e posò lo sguardo sul fuoco. Le lingue colorate di quest'ultimo l'avevano sempre affascinato, e anche oggi catturarono la sua attenzione per il modo in cui danzavano nell'aria e si proiettavano verso l'alto, per lo scoppiettare delle pigne che erano state lanciate nel camino ad alimentare le fiamme, per via di quella luminosità cangiante e instabile.
Ritrovava, nel fuoco, se stesso: la sua mente leggera, tanto da sollevarsi verso l'alto, e duttile, tanto da fondere ricordi, sensazioni e riflessioni ad ogni nuovo respiro. Ciò che accadde anche allora, tanto che la lettura interrotta poco prima risvegliò in lui il ricordo del faggio su cui a sei o sette anni d'età era uso arrampicarsi. Il tepore delle fiamme diradò allora una foschia di vecchi ricordi, quel bagaglio d'infanzia felice che era suo e suo soltanto, cui si abbandonò dolcemente. Fu forse lo scoppio improvviso d'una pigna, che lo fece sobbalzare, a scombussolare i suoi pensieri ed il suo umore, e per questo se n'accorse: desiderava arrampicarsi su quell'albero ancora una volta. Era certo una persona diversa dal bambino d'un tempo, ma quel pensiero diventò un chiodo fisso fino al termine della giornata, e una volta al buio sotto le coperte, nella cameretta che era sua da sempre, decise che al risveglio sarebbe salito sul faggio.

Ed eccolo a riprendere fiato appoggiato alla corteccia, in parte intagliata da innamorati d'altri tempi. Sollevò il capo e volse lo sguardo tra le fronde rigogliose, attraverso le quali s'infiltravano raggi di sole ancora giovani. Claudio si fece coraggio, sollevò la gamba ed appoggiò il piede su una sporgenza all'altezza del suo stomaco, fece un leggero balzo col piede rimasto a terra e s'aggrappò con le mani ad un ramo molto robusto proprio sopra la sua testa. Appoggiò sulla stabile sporgenza anche l'altro piede, e quando si sentì sicuro alzò di nuovo una gamba - tenendo ben stretto il ramo - e spostò il corpo in cima alla parte principale del fusto (all'altezza di circa un metro e ottanta), da cui gettavano tutti i rami più robusti. Uno di essi si diramava ulteriormente in un ramo ancora molto robusto, e per questo Claudio lo scelse per continuare l'arrampicata. Le mani gli tremavano un po', per una leggera emozione o forse per lo sforzo, ma riuscì velocemente a raggiungere il ramo appoggiandosi a molti altri e con non eccessiva fatica (l'albero era molto adatto alla 'scalata'). Si trovava già molto in alto, quindi si sedette lì dove era arrivato e rivolse gli occhi verso la valle del Casentino, che l'aria vitrea permetteva quel giorno di apprezzare pienamente. Il suo sguardo volò su quei paesini, poi sui vasti boschi, sulle curve dolci dei colli, su quelle più dure di alcune montagne lontane, sul candore delle poche soffici nuvole, e si posò infine sulla propria casetta, a poche decine di metri da lì, che veniva amabilmente incorniciata dalle fronde da cui gettava lo sguardo.
Annegando in un mare di gioia e nostalgia, Claudio si accorse che la casa su cui posava gli occhi non era semplicemente una casa: era la fonte, la matrice, da cui tutto ciò che suscitava in lui quelle sensazioni aveva attinto negli anni. Solo allora gli apparve con tanta chiarezza, fu un'epifania così vigorosa da immobilizzarlo e struggerlo. Si accorgeva che su quell'albero ci si era arrampicato innumerevoli volte, sfogliando pagine e fotogrammi partoriti da menti lontane nel tempo e nello spazio. Apprendeva che quella casetta di montagna, quel suo posto delle fragole, era conficcato tanto in profondità nella sua anima da poterlo definire una parte di lui. Visse per pochi istanti sulla pelle una sorta di panismo dannunziano, si sentì albero e monte ed erba e casa. Poi, quell'accesso epifanico di forti emozioni scemò, e Claudio, con un sospiro, sintetizzò il suo stato d'animo in un sorriso, che fu poi digerito e rasserenò il resto della giornata.

Scese dall'albero e rincasò.
Prese un foglio e una penna dalla scrivania del nonno e scrisse un testo identico a questo.

mercoledì 30 dicembre 2009

Gli impagliati

Le dominazioni, e le potenze.


“Qual è, dunque, quella piccola?”
“Il dolore.”
“Il dolore? Possibile che sia cosí importante... in questo caso?”
(cit)


E' un determinato numero di chiardiluna a scandire la foschia.Sale l'ululato monotono delle pale che stanno alla propria traiettoria (non come le gocce di pioggia), si spande per divaricazioni filiformi, è la solitudine collettiva incipriata di luna. Le mosche nel tempo, nessun amore sprecato, ma la vita si. Non sapere che ricordare significa vivere all'indietro.Le costellazioni si alternano secondo i ritmi di un astrolabio d'oro. E dov'è il motore immobile? La campagna si prostra al ronzio della meccanica, le colline incupiscono prevedendo l'intima ripercussione, l'efflato violento di un'orma mattiniera pronta a ferire la delicata superficie erbosa. Poi la lama che fende una valle di lacrime. I fori dei suoi occhi bucano il cielo, un fascio malformato di rette spezzate, l'aborto della geometria nella dominazione campestre, un brutto sogno attraversa il campo senza pensare. E lo spaventapasseri ride. La visiera calata fino alla disturbante posizione di un naso dovuto, ma dimenticato a dovere.A differenza degli uomini con il naso i baubau impagliati hanno un pudore naturale a cui fa testimonianza spiacevole un pessimo e sempiterno vestiario sgualcito dall'estate passata, da quella dopo, senza alcuna differenza. La rovina è la rovina, non importa quanto sia ingente il danno, chi rompe paga. Un corvo svampito gli si posa sul cappello ingiallito, duplice insulto alla natura e alla dignità annerito da un'imperfezione nella purezza delle metafore. Il fallimento di un processo, l'incongruenza sottile di una svista lasciata sul bordo dell'infinito, il sonno appassionato di due ali ripiegate sul mostro ed un disprezzo immobile incuneato nel disprezzo cosmico. A questi livelli l'impotenza si moltiplica perpetrando una duplicazione vettoriale, l'identità (e l'ideologia) che di nulla si può fare altrimenti e che il giudizio rifugga un contatto incompleto come la spedizione su una retta infinita. Fedeli all'essenza ci si prefigge il raggiungimento di menomazioni posizionate all'ingresso dell'attimo a venire, esistono paesaggi inconsueti sotto lo sguardo inceneritore del sole, rarità elargite dal futurismo galattico, gridi particolarmente forti e sordità particolarmente impenetrabili.Sentire il grano che spalleggia; c'è un'eleganza nel preservare il tutto dal nostro grido, anche una stupidità. Le tenebre rivestono con analoga premura la fragilità delle capocchie rivolte all'ingiù con l'offesa silenziosa tra debolezze affiancate dal disturbo. Una civetta che vola di giorno muta lo spavento in affetto, qualche insetto divora l'organicità del tempo, ma prima o poi, se non si è pietrificati dal gelo si vola via. Le pietre singolari sono preziose quanto fragili, l'incanto del mondo si mantiene per un periodo condecente alla genetica. Forse allora la cosa peggiore è che qui fa freddo. Sotto le lastre sovrapposte del terreno esistono delle sospensioni puntiformi separate dal passato, l'abbondanza con la penuria oggi lamentano una neve immensa. Lo scricchiolio di una piccola fuga congelata abbraccia l'affanno della paglia cristallizzando simulacri fuori dal tempo, il licenziamento dei controllori impagliati a cui una sterilità cinerea dei campi suggerisce la crocefissione. E il cielo e la terra si dividono uno spartito di convocazioni ugualmente trascurato, inetto, dove la vita si è disposta alla maniera della morte.

domenica 27 dicembre 2009

Una partecipazione onerosa

Una partecipazione onerosa

E si perdono i denti,
e si perdono gli occhi
ad urtare
contro l'identicità
dei versi.

Compatire chi
per primo nota
la rugiada e non
le urla della vegetazione

(un tornaconto per vivere).

lunedì 21 dicembre 2009

La dignità del braccio fratturato

Liberalo dallo scendere nel sepolcro,

io ho trovato il riscatto [Giobbe, 33, 24]

Spesso mi sono leccato le ferite sotto le rigide gru

alte nel cielo come colli di brachiosauro.

Altre volte, nella mia prosopopea di diciannovenne,

ho cercato di vibrare una pugnalata

nell’interno coscia d’un venditore d’arance.

Poi la mia voce da fanello, unta di fanghiglia mestruale,

si è spezzata

come lo stecco catramoso, che tu mi negasti

(per impedirmi di affumicare gli alveoli, dicesti)

o un grumo di Pangea conteso fra due opposti poli.

C’è stato (mi pare) un crack! – la decapitazione

di un’innocente scopa di saggina –

nel buio dell’epiglottide.

Il mio braccio – la mia penna? – penzolava, inerte, dalla putrella

gemente fin negli osteoblasti.

E’ stato lì che ho sentito, misto al cigolio sospetto delle giunture,

il tiepido formicolio della vita, farsi largo,

avvolgere, emulsionare, l’ululato strozzato della frattura;

proprio là, dove picchiava lo staffile,

diffondersi come un piacevole anestetico.

E il petto mi scoppiava di orgoglio.

Una foca dalla lustra pelliccia, solenne e dignitosa sul ciglione dell’iceberg,

mi ha spiegato che nobil natura è,

quella che grande e forte mostra sé nel soffrir,

mentre un profluvio di sangue le gorgogliava da sotto il ventre

denso come nettare da una ghirba lacerata.

Là in basso, nella zuffa delle correnti, uno squalo bianco

portava fra la ferramenta delle mascelle un pezzo di carne

strappato all’adipe di quella stessa pinnipede.

Qualche vecchio ed una riva

È un piccolo molo, un corto frangiflutti penzola spavaldo sulle piccole onde del golfo. Sopra i massi è stato gettato un po' di cemento così da potervici camminare sopra e raggiungere poi la piccola piazzola in fondo, dove da tempo ormai brilla di sera una piccola lampada
Lì, sotto la luce ancora in potenza, cioè spenta, è seduto un uomo, per terra. Una gamba è distesa parallela al cemento ed un piede sporge al di là, appeso sull'acqua. L'altra gamba è tirata su e la cingono le braccia dell'uomo con delicatezza. Le mani sono coperte da pesanti guanti in montone. Il capo invece è coperto da una calda coppola e da un'abbondante sciarpa scozzese, rossa. Poi, dopo il collo, la sciarpa scende sotto l'impermeabile grigio e questo è tutto ciò che vediamo dell'uomo. Gli occhi, quelli non li vediamo. Non possiamo vederli perché non sappiamo dove cercarli, non sappiamo come cercarli. Vitrei bulbi azzurri circondati da pendule carni rugose, ma non sono occhi. Lo sguardo dell'uomo è rivolto all'orizzonte, e riflette il rosso sanguigno della sera, ma non sta guardando quello, gli occhi sono altrove. In tasca, forse, per tenerli al riparo dal vento.
Un onda più alta esplode sul frangiflutti.
L'uomo, da seduto che era allarga le braccia, le punta al suolo e con tenacia si tira su. Appoggia un gomito sulla lanterna e guarda indietro, verso la terra.
Ora, sopra il sentiero di cemento, si trova un'altra persona. Cammina, va avanti e man mano che avanza sembra catturi e possieda dentro di se ogni cosa egli guardi. Dietro di lui c'è solo il grigio cielo rannuvolato. Il paese, la spiaggia, il porto non hanno alcuna importanza, non si vedono più, non sono mai stati. L'uomo indossa un cappotto verde e si aiuta nel cammino con un nodoso bastone. Dalla tasca del cappotto spunta fuori il negozio di barche del vecchio Sergej; è in bilico, non che la tasca sia troppo piccola ma sta per cadere. Difatti cade.
Giù, giù e quando tocca terra si stacca il tetto.
L'uomo col cappotto verde se ne accorge. Sbuffa, la cosa lo annoia. Il suo viso, al contrario dell'altro uomo è ben visibile. Indossa anche lui una sciarpa (bianca, come i pantaloni) ma la tiene annodata sotto il collo. Il viso è lungo, un paio di baffi sotto il naso prominente. Una cicatrice lunga quattro centimetri scende sotto l'occhio sinistro. L'occhio sinistro, si, di quest'uomo vediamo anche gli occhi, degli occhi neri, e guardano il negozio di barche caduto per terra. Sbuffa di nuovo e si china. Passa il bastone di mano e tende il braccio di quella libera. Sembra si sforzi più di allungare il braccio che di piegarsi sulle ginocchia, ma il braccio non si allunga abbastanza. Allora si piega ma un colpo di vento colpisce il cappello che l'uomo portava sul capo e vola via. Il cappello, non il colpo di vento.
Vola, vola il cappello, vola in alto nel cielo assieme alle foglie, alla polvere ed alle finestre (stanche queste ultime di stare solo a guardare ma spaventate dalla forza con cui vengono spinte dal vento. Sbattono le ante come vecchie signore). Incontra il freddo e ricade giù, verso il basso, dove viene raccolto dall'altro uomo sul molo, quello con la coppola.
“Grazie Miguel”
Miguel tende la mano e restituisce il cappello, il cappello marrone, il cappello dal taglio classico con le falde larghe, il cappello bagnato, cappello fatato, quel cappello tanto agognato.
“Miguel, ora però tira fuori gli occhi. Il tramonto è davvero bello”
Miguel obbedisce, si trova d'accordo. Tira fuori gli occhi dalla tasca con una mano mentre con l'altra si toglie la sciarpa dal viso. Ha una folta barba, Miguel, da pescatore ed è bianca. Folta. Miguel indossa gli occhi, il tramonto è davvero bello.
“Andiamo adesso” dice l'uomo dentro cui si trova di tutto.
Mani dietro la schiena allora si voltano e vanno: lasciano il molo, lasciano il mondo.
Il tramonto perde colore, appare ormai candida una luna inumana, il mare ed il cielo ritrovano la scura confusione ancora una volta.
Due giorni più tardi il vecchio Sergej nutriva dubbi sulle profonde crepe apparse in negozio.

domenica 20 dicembre 2009

Choralyst - Ostensori di nebbia


"Per favore non date da mangiare ai troll"

Non si raccolga sigarette per strada, è un'offesa alla vedetta dei lampioni, le vecchie mura ce la faranno pagare. In sogno. Con un tetragono, geometrismo crismatico degli equivoci.

Vedono. Certo non vedono tutto, ma già il fatto di "vedere" rappresenta in sè una novità e una condanna. Invece gli uccelli scrutano, rovinano i simulacri su San Marco, frammentano le sfaccettature dell'acqua in voci ancora più piccole. Sospetto che nel canto delle ali un certo incantesimo risponda alla vanità dell'Oceano, la seduzione suadente che procacciano le illusioni attorno al fuoco non riempie i canyon della stessa solitudine?
Scrutare è la speranza dell'analisi, un gesto fine, puro, quindi tagliente. Le cose pure sono taglienti, solo gli specchi stregati rispondono con rose alla propria regina, l'elogio spinge le sue sere oltre il dolo, altere visioni dell'amabile, incendi d'ombre ortogonali. Io non mi permetto mai di indagare, nemmeno con gli occhi; se una soglia si screpola in cima al campanile ho cura di voltarmi, rispetto queste cose che non hanno pudore di mostrare la loro invisibilità sotto le losangature boreali, ma è finita lì. Se osservo qualcosa faccio riferimento alle ellissi eteroclite della materia, i flutti concatenati di innumerevoli soli ibernati (le stelle vanno in letargo nei cassetti) quindi in fin dei conti non focalizzo proprio nulla, mi godo il vago macerato dai tetti.
Per me il tutto rappresenta una distesa partitiva di numeri primi, l'infinità discreta dell'indivisibile trascesa da qualche parte nel deserto atomico. Dispersione di una fuga nella fuga. (Sto giocando con le parole, ma ci si perde anche ascoltando Beethoven) Ricordo l'androgino platonico, adesso che il tutto ha smesso di essere la somma delle parti si sono scambiati i ruoli, i tronchi degli alberi hanno smesso di pulsare e quel qualcosa in più rende inaccettabile ogni divisione, i conti si ritorcono contro loro stessi quasi perforando la retina. Quella finestra che emana l'effluvio delle orchidee ha superato ogni livello prismatico per deflagrare l'innocenza primaverile, per questo una stagione non è l'evento atmosferico racchiuso nelle variazioni bizzarre di conchiglie in fiocchi nivei; gli elementi si raggiungono, i viaggi incomparabili delle risonanze abitano l'osservatore ed ogni cosa percepita non è più sè stessa, o meglio, è se sè stessa e una visione. La predizione dicotomica naturale concerneva un ordine molto differente, in cui proliferavano i pari, l'armonia, il tempo scevro della storia che gli fa da corpo e le bilance tendevano i piatti sul livello del mare. La trinità è la prima eresia.
Siamo nell'occhio della maledizione di Mida, ciò che tocchiamo cambia di forma proprio perchè lo tocchiamo. Portate a vivere i vostri cappelli altrove, ad altre piogge battenti. Maya abita tutti i cinque sensi che si perdono con la morte, ma si sbagliava Trofimov, non ne possono rimanere novantacinque da inventare, forse novantasette.
Tra le parzialità della ragione si alternano selezioni variabili, elezioni alla rovescia. Passano davanti ai lampioni mariti e mogli senza figli, roghi post dannazione, il terzetto è una degenerazione dualistica congenere a sempiterne corruzioni, i katun dei secoli, le ali fradice delle api che torturano un fiore. Datemi retta, ai tempi in cui il tempo sussisteva incorporeo l'universo era uno scontro tra potenze mentre adesso corriamo alla ricerca di un logaritmo con argomento negativo, lo specchio ci ha spezzato, gli occhi dei lampioni trasmettono ancestrali cecità della luce.
I numeri primi sono una sillabazione rotta, combinazioni isolanti, indispensabili teschi; se si potesse rincondurre la loro genealogia al malinteso allora arriverebbe a casa mia. Gli uffici accesi dopo le ventitrè appartengono ai nervi contratti dei buoni dispari di famiglia, alle sfilate i dispari si applaudono vicendevoli, lo spazio è infinito perchè è pari.
L'ago della bilancia alberga qui, ai piedi dell'umida vetustà di questa raccolta cittadina che lentamente si sveglia dividendosi per due. Un gruppo di vecchietti claudicanti mi ha appena sorpassato.
Anche gli angeli si appoggiano sulle spalle dei compagni per dimenticare le puntuali divisioni sul nulla, i primi esistono da sempre, sono le anime che non si muovono da sole. Se i grandi pensieri si misconoscono autonomamente è perchè consistono nell'assemblaggio di numeri senza immagine, incomprensibili negazioni, casualità indispensabili alla naturale somma delle eventualità. Non zero, forse novantasette.
Novantasette modi di udire il tonfo della nebbia e il coperchio della bara che si chiude.

An Empty Shroud

Oggi. È un mozzicone in tasca: gettare una presenza che
magari si piega e poi se ne scorre via, riprende un flusso
subitaneo, e rivoli e rivoli, giù nel lavabo, nelle tubature
che prendono il colpo d’ariete, è questa una redenzione?

Ma no… è solo che sono qui ancora, sì, ma con l’equilibrio
compromesso di una cenere ritorta, nelle corse del vento
dall’estremità che ho acceso; io non so se è il fumo o cosa,
ma disimparo la vita: su una parola, il sonno che il tempo

ritiene al suo oscillare: anche la grondaia ha uno specchio;
mi guardo, e di traverso apprendo e so che è proprio così,
e non c’è né un modo né il momento per capire come fare
a rivedermi come lì, e non c’è quel qualcosa che s’avvera,

come una luce che s’accenna al muro, o giù, e all’indietro
e in avanti, ed è come l’aria da cui tendi a risalire: prendo
questa tua frazione, escissa dalla luce quando l’acqua non
ritorna più di qui, e tu diventi sporca, opaca, e non ti vedo

come dall’ingresso delle case; spazi ricreati, e ricreabili, se
penso in due: c’è la stessa inesistenza incredibile, davvero
mi presto uno stupore ed è come fossi prossimo al cadere;
ed è in un modo che, come dire, è giorno, immagine di noi.