lunedì 21 dicembre 2009

La dignità del braccio fratturato

Liberalo dallo scendere nel sepolcro,

io ho trovato il riscatto [Giobbe, 33, 24]

Spesso mi sono leccato le ferite sotto le rigide gru

alte nel cielo come colli di brachiosauro.

Altre volte, nella mia prosopopea di diciannovenne,

ho cercato di vibrare una pugnalata

nell’interno coscia d’un venditore d’arance.

Poi la mia voce da fanello, unta di fanghiglia mestruale,

si è spezzata

come lo stecco catramoso, che tu mi negasti

(per impedirmi di affumicare gli alveoli, dicesti)

o un grumo di Pangea conteso fra due opposti poli.

C’è stato (mi pare) un crack! – la decapitazione

di un’innocente scopa di saggina –

nel buio dell’epiglottide.

Il mio braccio – la mia penna? – penzolava, inerte, dalla putrella

gemente fin negli osteoblasti.

E’ stato lì che ho sentito, misto al cigolio sospetto delle giunture,

il tiepido formicolio della vita, farsi largo,

avvolgere, emulsionare, l’ululato strozzato della frattura;

proprio là, dove picchiava lo staffile,

diffondersi come un piacevole anestetico.

E il petto mi scoppiava di orgoglio.

Una foca dalla lustra pelliccia, solenne e dignitosa sul ciglione dell’iceberg,

mi ha spiegato che nobil natura è,

quella che grande e forte mostra sé nel soffrir,

mentre un profluvio di sangue le gorgogliava da sotto il ventre

denso come nettare da una ghirba lacerata.

Là in basso, nella zuffa delle correnti, uno squalo bianco

portava fra la ferramenta delle mascelle un pezzo di carne

strappato all’adipe di quella stessa pinnipede.

1 commento:

  1. La negazione dello stecco catramoso è una delle cose che più mi mettono in agitazione, lo ammetto. Ho apprezzato, comunque.

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