mercoledì 17 febbraio 2010

A proposito di uno che conoscevo

Il latte alle ginocchia lui
lo sentiva quando s’abbassavano le veneziane
e la folla caciarona, tutt’intorno, si ritirava
schiumava via leggera, come dileguandosi
ai bordi. Allora nel suo petto si raggrumava
una fredda iperventilazione – sugli occhi
il clangore ineluttabile della cassaforte
blindata – la Vergine di Norimberga –
silenzio altissimo s’incuneava
come scheggia nichelata,
apriva un lacero immane, una balza a capofitto
che raggelava.

Era la claustrofobia
dell’immobile – una frangia
richiusa, il barattolo di vetro
senza fori sul suo capo di falena – il Battista
nel deserto, il gabbio di Sant’Anna squarciato
dai lampi, la particella di sodio
nell’acqua minerale.

Diffuso nelle alte orbite
l’SOS restava
inascoltato – nessuna radio
lo captava – il suo farfuglio
entrava da un orecchio ed usciva dall’altro.

«Non sono, come me stesso, ancora solo» ripeteva in quei casi
Poi, disperato, componeva svelto [ingannandosi.
il numero che solo lui sapeva.
«Guarda, mi spiace, ho qui l’esito
dell’esame» diceva lei, pietosa
sulla soglia. «E’ positivo».
L’esitazione durava il tempo di un’alzata di spalle.
«Vieni ed entra, attingi a mani basse» diceva lui. «Pazienza
per i T - helper».

A volte l’uggiosa compagnia del vuoto
fa più paura dell’immunodeficienza acquisita;
poter parlare solo con ceneri e ombre,
più della trascrittasi inversa – e il bisogno di carezze
vince sui femori il ribrezzo della toxoplasmosi.
L’incubo peggiore – sappiate –
può essere quello del soldato giapponese
abbandonato sull’atollo del Pacifico.

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