lunedì 4 gennaio 2010

L'orizzonte degli eventi - ovvero lo spazio è freddo, fa freddo anche qui e in ogni caso, se si grida, nessuno ci sente

Non so a voi, ma a me di rado capitano cose. L'altro giorno mi è capitato il mio nome, ma è stato un caso.

Voglio dirvi, anzitutto, che il freddo non finirà mai di sorprendermi. La fisionomia del freddo è così sporgente, pronunciata intorno alle cose e agli eventi, sbalzata fuori, piuttosto che sigillata nel loro recinto. ll freddo è, forse, un assetto delle distanze, il più ampio. (Questo spiega, ad esempio, perché la Russia è tanto lontana*).
Veniamo, però, agli eventi (prima che loro av-vengano a noi - ci si viene incontro, insomma, ben oltre il compromesso. Siamo compromessi, questo sì. Decisamente). 
Gli eventi - i famigerati eventi - discendono, io penso, direttamente dal freddo. Delle cose sappiamo, dopotutto, che non succedono, si succedono. Ereditariamente. E' possibile che la vita - né razionale né, tantomeno, razionata - sia però reazionaria. Conservatrice.
Che la vita conservi se stessa, è facile crederlo. Quanto a noi, invece: è la morte a custodirci. La morte che, infatti, ci risparmia. Non siamo noi che pensiamo alla morte (e nemmeno pensiamo la morte – ultima roccaforte della vita, giacché la morte si può solo vivere), ma la morte che pensa a noi, ci fa da badante (e noi, neppure a dirlo, sbadati).
Se esiste un evento degno di questo nome, infatti, tale evento non potrà che prodursi laddove non v'è anticipazione, né orizzonte. Non si può dare evento che non sia escluso dall'immagine, che non appartenga alla sua propria (e unica?) distanza e non abiti il suo esilio. Ed è il buco nero della morte ad appiattire ogni cosa sull'orizzonte degli eventi, a spogliare il mondo della “rappresentazione”, risparmiando giusto il fantasma del Wille – un poltergeist, ad esser precisi.
L'evento è, più compiutamente, ciò che noi non vediamo (av)venire, ciò che non dovrebbe esserci esattamente là dove non dovrebbe essere, il ribaltamento della profezia, l'impossibilità stessa della profezia e di Dio. Il clinamen, l'esitazione nella pioggia atomica, il singulto minimo della caduta. Nell'evento non siamo tanto soli, quanto ultimi (tanto è vero che esistono solo ultime ore).
L' evento non accade, l'evento cade, piomba dall'alt(r)o. Cose che capit(ol)ano. Una s-venuta (Maria Teresa), meglio ancora uno svenimento - e una sventura, anche.
L'evento non è spettrale e non è fantasmatico, l'evento non è un'epifania. L'evento è, io credo, inchiodato alla croce. E il sepolcro vuoto non è la resurrezione, ma il miracolo della scomparsa. La (s)venuta (il venir meno) che si conferma pre-matura, il sigillo di una morte precipitata. 
L'unicità degli eventi sta nel fatto che esista un solo ed unico evento. Una stessa matrice, che insiste sulla realtà e la (de)forma. Se gli eventi siano, a questo punto, una faccenda seria (come il nome dei gatti), non saprei dire. Di certo, però, gli eventi sono seriali. Come il cibo in scatola e come gli assassini.
E ancora: noi. Noi siamo visti dall'immagine (abscondita), come lo spettro di Amleto, e siamo fatti dai (mis)fatti. Soprattutto, siamo detti dalla parola. Siamo predetti, predestinati. Se il mondo reale viene meno, e così pure quello apparente, allora non siamo nel nichilismo, ma ancora nel lutto. Poiché restano le vittime (quel grido di redenzione che attraversa il cosmo di Anassimandro), le vittime sopra alla Storia e all'eternità e ad ogni ragionevole dubbio. Restano i morti, e i morti sono tutto ciò che abbiamo (io ho anche un macbook, ma non importa).
Per questo motivo non esiste evento che non sia intimamente Dresda o crocefissione (simulacro del simulacro o semplice simulacro). Intendo dire, in definitiva, che l'evento è sempre tragico, lo è strutturalmente (e necessariamente nella misura in cui, privo di aspetto, abita anche la necessità).
Non esiste, dunque, un "tempo" o un "luogo" dell'evento. Gli eventi sono sempre fuori luogo e fuori tempo (una sagoma del ritardo, se vogliamo - anche nell'accezione umoristica del termine), alla stessa maniera dell'ironia. I tempi comici sono, insomma, tremendamente affini ai tempi morti.
Abbiamo davanti, signori, il pessimismo co(s)mico.

Quello che accade - e accade continuamente (in ciò sta il miracolo) - non è altro che il freddo. E non è neppure il nostro freddo, giacché noi, del freddo, siamo incapaci. Il freddo appartiene invece ai morti, è il loro lascito. E' superfluo inferire (ed infierire), a questo punto, che questo freddo dei morti altro non è che la morte medesima. E che il freddo è osceno (\fuori) e sta intorno alle cose come un avvoltoio, ed è il modo in cui la morte si comunica e ci scomunica, ed è anche per questo che la neve è equanime e somiglia alla morte (semper eadem...).

Quindi: prendiamo oggi. Oggi, ad esempio, mi è successa la morte. Oggi e sempre. E questo, infine, è l'inverno del nostro malcontento, ed è sconfinato.

(La poesia è, in certo senso, una cronaca – “in tutto quel che faccio esiste un miscuglio di giornalismo e metafisica” - non già della "dimensione interiore", ma della dimensione anteriore. Uno sguardo all'imbuto degli eventi, al gorgo che stride. Rigorosamente in silenzio, come ad una processione funebre: muti - e d'altronde che uno sguardo parli, e magari dica qualcosa, non s'è mai visto . La poesia che non "combina" niente (neppure io!), ma è combinatoria fino allo scontro e/o all'incastro. Alle uguaglianze che, d'un tratto, si schiudono nel prodigio della divina in-differenza, nella statua che partecipa del "meriggio" fino alle estreme conseguenze, fino all'identità. L'eternità in cui "tutto è deserto",il cucchiaio in cui tutti si è ricomposto, ed è finito. E chi era, forse La Rochefoucauld, a dire: "esistere è differire la morte"? Non ricordo).

Perciò, se mi chiedono degli eventi, io non so che rispondere. A parte questo wall of text intorno agli eventi (fisicamente intorno: una presa in giro, direte voi, soprattutto Luca). Confido, comunque, che il freddo sia arrivato un po' ovunque. Anche nelle vostre stanze.
Se invece mi chiedono delle cose - e di cose-parole, allora mi trovano quantomeno "preparato" (essere preparati agli eventi, se davvero ci sono, è naturalmente impossibile).

Io sono, fondamentalmente, una persona religiosa. Poiché in profondità, dove "tutto diventa legge", non esiste abitudine che non sia liturgia.
L'abitudine è il sentimento che proviamo davanti alle cose. La fedeltà delle cose ai loro luoghi e alle nostre mappe. Un affetto, riconoscimento e riconoscenza - forse, addirittura, pietas. 
Sicché io sono davvero affetto da abitudine. E posso dire che, nell'abitudine, si vive la morte oltre la Storia, oltre la concatenazione (\catena di montaggio, serialità) degli eventi. Si vive (se diamo retta a Derrida e l'affermazione è sempre nel passato - da cui deriva che la parola è postuma) l'aldilà dei "fatti". 
E gli eventi, in ultimo, sono certamente "fatti". Fatti e finiti*.


* con tanto freddo, era impossibile non incappare in qualche freddura. Perdonatemi.

5 commenti:

  1. io non posso più restare qui, mi sento così piccolo e ignorante e poco simpa(te)tico.

    (io odio commentare per i motivi di cui sopra, per questo lo faccio con le cose che ho scritto sopra, forse per emulare una qualche forma di apprezzamento: di solito non lo faccio per non far vergognare chi riceve il mio parere)

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  2. secondo me sei simpatico e ti piacciono i pokémon, invece.
    i tuoi budini mi piacciono e hanno sempre gli occhi.

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  3. "Io sono fondamentalmente una persona religiosa" - che dramma, però! :P

    tra l'altro non so chi diceva "Inverno è la mia stagione"...

    bhe, poco altro da dire, non so: complimenti ? :P

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  4. ...è "agghiacciante" quanto mi senta minuscola.

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  5. In tutto ciò di rado capitano cose...
    Oggi mi è capitato di incontrare tra le tue righe variazioni con-gelate del Bene ed è di questo ciò, tra i vari ciò, che ti ringrazio.

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