mercoledì 24 febbraio 2010

De Cantautorato Italico Vol.1

Era da tempo che qualcuno qui dentro mi parlava del progetto di un excursus nella musica italiana, (quella che ha un senso ovviamente N.d.A.) quindi, poiché le promesse vanno mantenute, se no volano via e non lo si ritrova più quando fanno la transumanza, prima che sgeli sarà il caso che si compiano.
Fatta questa premessa non necessaria ma doverosa, che si avvii questa rubrichetta amena, leggera leggera come le note delle canzoni e, poiché chi scrive è fissata con la cronologia, che s’inizi pure, in ordine cronologico ma senza la pretesa dell’esaustività.
Avviso: queste pagine saranno profondamente autarchiche ed autoreferenziali, così, per evitare equivoci.

C’era sempre gente su una vespa, negli anni ‘60, le ragazze si sedevano dietro, all’amazzone, i ragazzi avevano la brillantina sui capelli, e mangiavano gelati, negli anni ’60 era sempre estate e s’indossavano occhiali da sole, per vezzo s’intende.
Poi c’erano i jukebox, in Italia, negli anni ’60, in ogni localino seppur stupido era un susseguirsi di canzoni a richiesta, quello che c’era dentro contava fin lì, l’importante è che suonasse qualcosa, si doveva ballare come imperativo categorico.
C’era anche lo struggimento di qualche bellissimo cantante dagli occhi tristi, ma questa è un’altra storia che merita delle righe in esclusiva.
E il tempo era quello delle gonne a sbuffo,
il tempo era quello adatto a dividerseli, i gelati
uno da una parte e una dall’altra.
Amore così, presi per mano.
E allora che si pensi a Genova in quegli anni, che si pensi a poeti menestrelli e ai nomi noti e a quelli quasi cancellati dall’avanzata dell’acqua sulla battigia, che si pensi a delle melodie orchestrali sontuose, che si pensi ad Umberto Bindi.
Dediche d’amore di uno struggimento disperato, la stessa disperazione dell’amor proibito dalla censura, dell’impossibilità dell’unione tra Montecchi e Capuleti che non potrà sfociare nella felicità di Romeo e Romeo, siamo sempre nei primi anni ’60, ci si tiene per mano, ma a condizione che almeno uno dei due indossi una gonna; gli costerà la partecipazione a Sanremo (ora pro nobis!).
Così ci si arriva alla fine, all’estremo di una musica orchestrale che sembra eterna, ci si arriva dall’ultimo angolo, quando la musica è finita, quando ormai non c’è più niente da dire e rimane solo il sonno di una solitudine costretta, di una vita senza, dove il “con” era la possibilità di suonarla in due.
Si deve ritornare indietro seguendo la scia di un salotto musicale sontuosamente arredato, il mal d’amore declinato con note struggenti (sì, struggente è la parola mantra) perché dedicare una canzone è troppo poco quando si può pensare ad un intero concerto, l’importante, negli anni ’60 era tenersi per mano.
È un canto delicato e desolato, la ragione capitale dell’essere musico e vivente, quello di conservare in una tasca tutto l’amore del mondo e aprirlo ogni volta che se ne ha bisogno, la realtà circoscritta della totalizzante passione d’amore quella che non fa andare al di là di sé stessi, quella che si fa rinchiudere nel proprio mondo.
Questa è una storia che finisce all’inizio, con la prima canzone che è un addio, originale che si inizi con un arrivederci, perlomeno si sta arrivando a qualcosa se si opta per l’abbandono.
Solitudine come situazione esistenziale per questo cantante dello struggimento.
E poi nella scuola genovese ce qualcun altro, nascosto tra le pieghe della storia della musica, noto ai meno, soprattutto se quei meno hanno più di 50 anni.
C’è da parlare di testi poetici, un po’ trasognati un po’ iperrealistici come contraddizione in termini s’intende, che fa sempre piacere.
Il ruolo di cantare le storie spettava a Lauzi, di raccontarle con il piglio del narratore pure, sia che fossero fiabe per bambini, sia che fossero storie di adulti: persi nel gioco e nell’assenzio e sceglieremo questa, una su tutte, di rappresentanza perché non deve esserci nessun tedio nella meraviglia.
Una canzone manifesto, una scelta letteraria, un amore, l’ennesimo, non corrisposto, perso tra le carte gli appunti e quelle da gioco.
La storia di un poeta che parrebbe un cliché se non fosse così, vera più del vero.
Ché c’è sempre un po’ di nostalgia degli anni ’60 anche se non si sono vissuti mai, c’è una nostalgia di qualcosa che si può ascoltare, meglio se in vinile, c’è la nostalgia e la consapevolezza del dolore del nostos, come motore universale.
E su queste note, quelle della speranza di un possibile ritorno, mettiamo a dormire i vecchi vinili e gli occhiali da sole sotto la battigia.

4 commenti:

  1. Maestro, la ringrazio e aggiungo: meglio tardi che tordi, anche perché sono degli animali oltremodo antiestetici.

    Il commento di prima è stato eliminato perché scritto con una sintassi mutuata dal congolese arcaico.

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  2. interessante... aspetto il resto per saggiare la mia sconvolgente ignoranza in materia :P

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  3. concordo con roger, la sintassi mutuata dal congolese arcaico è indubbiamente interessante.

    per quanto riguarda l'attesa, cara cassandra, noi siamo i suoi amanti. e a napoli gli autobus arrivano due ore dopo, sempre.

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