il richiamo, la coazione a ripetere
dei farisei; le percorrenze, la curva
e lo sbrego nello schienale, i fogli
delle prescrizioni feudali, gli ovuli
infiniti, di fibra in fibra: la ferocia
che dissipa il calco, l'avantreno,
lo scarto pneumatico di un solco
monocorde, scollato, all'asintoto
- il rasoio di Occam, l'indicazione
da fraintendere, l'accorgimento
ripreso al suo contrario -
una firma numerata per lo scavo
delle mani; gli accidenti del canto,
le spallucce degli altri, il contro
vento che porta a farsi bastare
il mozzicone: il porfido acclarato,
la cordatura del mondo, presa
allo slancio, concessa alla parte
del dileguo, attesa all'amnesia
lunedì 31 maggio 2010
domenica 30 maggio 2010
Un testimonio che tu sei uno scrittore mediocre
"...La disperazione demoniaca è la forma più potenziata della disperazione che disperatamente vuol esser sè stessa. Questa disperazione non vuole neppure essere sè stessa in un'infatuazione stoica e in una autoidolatria; non in questa forma che, pur essendo menzognera, rappresenta in un certo senso la propria perfezione; no, essa vuol essere sè stessa nell'odio contro l'esistenza, essere sè stessa nella sua miseria; essa preferisce essere sè stessa non in ostinazione ed ostinatamente, ma per ostinazione; essa neppure vuole in ostinazione, staccare il suo io dalla potenza che lo ha posto, ma vuole, per malizia attenersi a lei- si capisce, un'obiezione maliziosa deve soprattutto badare di attenersi a ciò contro cui è indirizzata. Essa crede, ribellandosi contro tutta l'esistenza, di aver ottenuto una prova contro l'esistenza, un aprova contro la bontà dell'esistenza. L'individuo disperato crede di essere lui stesso questa prova, ed è ciò che egli vuol essere; vuol essere se stesso, essere se stesso per potere, con questo tormento, protestare contro tutta l'esistenza. Mentre chi si dispera per debolezza non vuol saper niente del conforto che l'eternità puà avere per lui, così anche chi a questo modo è disperato non ne vuole sapere, ma per un'altra ragione: proprio perchè sarebbe proprio questo conforto che lo annienterebbe -come obiezione contro tutta l'esistenza-. E, per illustrarlo con un'immagine, è come se a uno scrittore fosse sfuggito un errore e poi se ne accorgesse -forse non era proprio un errore, ma, in senso molto più alto, un elemento che interessa essenzialmente tutta la rappresentazione - è come se ora questo errore si ribellasse contro l'autore e per odio contro di lui gli impedisse di rettificarlo, dicendogli, con ostinazione pazza: no, non voglio essere cancellato, voglio restare come testimonio contro di te, un testimonio che tu sei uno scrittore mediocre."
(cit. S. Kierkegaard / Anti-Climacus/ "La malattia mortale")
(cit. S. Kierkegaard / Anti-Climacus/ "La malattia mortale")
sabato 29 maggio 2010
far "west"
Ricordo la passeggiata
di Hobbes, le strade premute come cefalopodi - soprattutto di ogni passo
l'origine, la gabbia intercostale. Poiché la secchezza delle fauci
vale come carestia
per queste vie brachiali, percorse ora a un fianco
ora in mezzo al torace, dove
il sangue è reciproco e la sintassi
dispari – il “più bel legame”, il vertice che attira
gli insetti. Un viale alberato, per me, è un cordone sanitario
dove il centro sta per miracolo, mentre i lati toccano
alle epidemie. Per comodità, separo la predicazione
dal contagio - ma decisiva è l'inclusione, la corsa
ai linfonodi. (Le cose più piccole, per esistere
devono eccedere in numero, sfasare il tetto, tramutare la cifra
in effetto). Ma come gestire le gambe, tutto – se il corpo contiene
vuoti ricorrenti
ricavati tra le spugne – come, se accoglie
ogni schiacciamento
e teste enormi. La peste è un'unità
piramidale, affogata dove tutto è più molle - è una camera
sottoscapolare, un tessuto
poroso. E raggiunta la sua sede, trema:
esattamente un budino.
di Hobbes, le strade premute come cefalopodi - soprattutto di ogni passo
l'origine, la gabbia intercostale. Poiché la secchezza delle fauci
vale come carestia
per queste vie brachiali, percorse ora a un fianco
ora in mezzo al torace, dove
il sangue è reciproco e la sintassi
dispari – il “più bel legame”, il vertice che attira
gli insetti. Un viale alberato, per me, è un cordone sanitario
dove il centro sta per miracolo, mentre i lati toccano
alle epidemie. Per comodità, separo la predicazione
dal contagio - ma decisiva è l'inclusione, la corsa
ai linfonodi. (Le cose più piccole, per esistere
devono eccedere in numero, sfasare il tetto, tramutare la cifra
in effetto). Ma come gestire le gambe, tutto – se il corpo contiene
vuoti ricorrenti
ricavati tra le spugne – come, se accoglie
ogni schiacciamento
e teste enormi. La peste è un'unità
piramidale, affogata dove tutto è più molle - è una camera
sottoscapolare, un tessuto
poroso. E raggiunta la sua sede, trema:
esattamente un budino.
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venerdì 21 maggio 2010
Forza Bayer(n)
Perché non è senza difetto agli ingressi, alle acque rimosse
che il siero inocula non la cura ma la terapia, i diversi
momenti, la somministrazione, i prima dopo i pasti – a settentrione
degli altari, la mano sulla testa e nei lavacri
pondera il dosaggio, la sospensione orale
resa al fuoco, ai granuli che avvolgono nel mucchio
i sorsi e il fiato. La posologia depone
la tonsura, butta calce alle spose, al bestiame minuto
dei farmaci da banco, da una sola devozione e lo schieramento
delle compresse minaccia da uno scompartimento, da un vetro
quanti tra noi
non mangino del sangue alle oblazioni incapsulate
ai propri memoriali, perché non agitino i veli
in sinergia alle inavvertenze, alle fessure – queste, espanse
sugli enzimi e non c'è pace
finché resta il veicolo, il bicchiere stravolto
che il siero inocula non la cura ma la terapia, i diversi
momenti, la somministrazione, i prima dopo i pasti – a settentrione
degli altari, la mano sulla testa e nei lavacri
pondera il dosaggio, la sospensione orale
resa al fuoco, ai granuli che avvolgono nel mucchio
i sorsi e il fiato. La posologia depone
la tonsura, butta calce alle spose, al bestiame minuto
dei farmaci da banco, da una sola devozione e lo schieramento
delle compresse minaccia da uno scompartimento, da un vetro
quanti tra noi
non mangino del sangue alle oblazioni incapsulate
ai propri memoriali, perché non agitino i veli
in sinergia alle inavvertenze, alle fessure – queste, espanse
sugli enzimi e non c'è pace
finché resta il veicolo, il bicchiere stravolto
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mercoledì 12 maggio 2010
Io e Jerry passavamo tanti bei momenti insieme.
"[...] Jerry parlava e io ascoltavo. A poco a poco, appresi sempre più cose sulla sua vita, mentre lui, si può dire senza timore di essere smentiti, sapeva di me sempre meno. A causa della mia connaturata reticenza, poteva fare quel che gli pareva riguardo alla mia personalità. Poteva fare di me, più o meno, chiunque volesse, e presto mi fu chiaro, con tutto il dolore che la cosa comportava, che quando lui mi guardava quel che vedeva soprattutto era un animale carino, clownesco e un po' stupido, una specie di piccolissimo cane con gli incisivi sporgenti. Non aveva la minima idea della mia vera indole, di quanto fossi in verità terribilmente cinico, abbastanza depravato e malinconico, un genio malinconico, né aveva idea del fatto che io avessi letto più libri di lui. Amavo Jerry, ma temevo che la creatura di cui ricambiava l'amore non fossi io, ma una creazione della sua fantasia. Sapevo benissimo cosa significava essere innamorati di immagini che erano frutto della fantasia. Per quanto volessi far finta che le cose stessero altrimenti, in cuor mio avevo sempre saputo che, quando lui beveva e parlava, durante le nostre serate insieme, in realtà stava semplicemente parlando con se stesso. Sogghignate, vero? Pensate di avermi smascherato! Lo so, lo so che prima ho detto - ho confessato, asserito e, nella mia irragionevole caparbietà, mi sono persino vantato della mia passione per le fessure, del mio bisogno quasi patologico di nascondermi, della mia predilizione per le maschere. Vi chiedete perchè dunque mi lagni adesso dinanzi a una nuova possibilità di camuffarmi, all'occasione d'oro che mi si offre di rannicchiarmi inosservato dietro le impenetrabili sembianze di un animaletto che ispira tenerezza? Be', ecco il perché: la differenza tra assumere una maschera, che è sempre un'occasione di libertà, e averla imposta è la stessa che intercorre tra un rifugio e una prigione. Sarei stato ben felice di attraversare l'intera esistenza a passi decisi, magari un po' goffi, ricoperto della corazza di pelliccia del mio travestimento da animaletto domestico, se fossi stato persuaso che avrei potuto sbarazzarmene in qualsiasi momento lo desiderassi, strappare via quella adorabile faccia tenera e far balzare fuori la creatura che sapevo di essere. Salve, Jerry, sono io! Non l'avrei mai fatto, certo, ma mi piaceva la sola idea di poterlo fare. [...]"
Sam Savage, Firmino.
Sam Savage, Firmino.
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mercoledì 5 maggio 2010
Neppure questa è l'acqua.
Più o meno tutti, qui, sappiamo di Wallace e dell'acqua. C'è questo libro, insomma, che non solo è di Wallace ma ha anche un titolo, e in questo titolo c'è una grande promessa, una promessa ancora più clamorosa della “Storia Universale Dell'Infamia”. Il titolo è: “Questa è l'acqua”. E indovinate? Quella non è affatto l'acqua, neppure lontanamente, è tutto tranne che l'acqua. Per fortuna, però, non è neppure Infinite Jest. (Sarebbe stata l'acqua, forse, se il Wallace in questione fosse stato Richard, quello di Parigi e delle 66 fontanelle). Possiamo facilmente immaginare, tuttavia, che se Wallace avesse preferito all'acqua, non so, il vino, allora più nulla avrebbe separato il suo libro dall'ultimo di Woody Allen, cinico ma pieno di buoni sentimenti e discorsi ai giovani. Questa introduzione è così giustificabile: non ci piace Wallace. A me, al maestro Frank, secondo alcune indiscrezioni anche a Marica, di sicuro ad Enixa. Inoltre, quando a scuola sostenevano avessi un cattivo rapporto con l'acqua, avevano ragione. (Marica ora non linkare la ragazza Diadora solo perché non si lava i capelli, non basta, per l'acqua occorrono maggiori credenziali). Detto questo: io mi sento in dovere, in qualche modo, di riparare al torto subito dall'acqua (ma anche da me e Frank ed Enixa e forse Marica). Mi vedo cioè costretto a tornare sull'acqua.
Poi spero di smettere l'acqua una volta per tutte, come un vizio assurdo o un vestito.
Disclaimer: a un certo punto scriverò “oggi”, così nessuno vorrà accusarmi di essere metafisico o metametafisico o metametacritico o, peggio ancora, famedoro (per precauzione, a proposito, mi asterrò dal citare Lukács. Al suo posto, mi impegno solennemente a citare almeno una volta BATTIATO).
L'acqua, lo sapete, è una realtà che ci tocca tutti (anche se non ci laviamo, nostro malgrado), che ci riguarda da vicino, e questa mi sembra un'ottima occasione per stare attenti e sentirvi socialmente impegnati, proprio come se aveste ancora i capelli lunghi e il quadernone sgualcito di Emergency. Badate: non sto dicendo che vi spiegherò l'acqua, perché l'acqua non si può spiegare, niente nessuno mai (non sto neanche dicendo che i capelli ricresceranno: non ricresceranno). Non proverò neppure a darvi l'acqua, ma tenterò piuttosto di dirvi l'acqua - magari non tutta, magari solo un bicchiere, che sembra una miseria ma vi sbagliate, un bicchiere è, de facto, un ingrandimento dell'acqua, l'acqua messa a fuoco, un primo piano, un particolare, un'acqua al dettaglio e nel dettaglio. Sto dicendo, insomma, che ve lo farete bastare.
Oggi ad esempio c'era un rubinetto, e non bastava girare, serviva tirare, spingere verso l'alto. L'acqua si creava cioè senza i giri, senza accartocciarsi, ma con uno slancio cervicale, si inarcava, si levava come se non potesse esserci acqua senza un soffitto a custodirla, come se il soffitto fosse per l'acqua un garante, come dio per l'etica, o per meglio dire un nume tutelare. Le macchie d'umido.
In tutta onestà, io non so se ciò che ho visto, oggi, immediatamente dopo lo stacco e i giri, è l'acqua, davvero l'acqua, o se invece è un bacino, la stanza premuta in una conca, una lordosi del piatto oftalmico, un accerchiamento olografico, una saturazione di ciascuna cosa ma come dall'interno, un embolo o ancora il sonno, che è una bolla e non si smentisce. Sta di fatto che l'acqua non si può vedere, ma solo avvistare (e avvitare, nel più fortunato dei casi: pensiamo proprio ai rubinetti) e a maggior ragione oggi, che ciascuna America è stata scoperta e nessuno grida più “terra”.
Questa non è solo l'acqua di oggi, ma un primo modo di estrarre l'acqua, che diremo “parabolico”e che sprigiona quasi un'acqua-vapore, che si sviluppa in altezza, un'acqua-boa (sia serpente sia galleggiante) e conclusa in se stessa, perfino autoreferenziale, autarchica, indipendente, un'isola; un'acqua-uovo ermetica, a tenuta stagna, liscia e impermeabile, capace di almanaccare il mondo tubo per tubo, uno stato sovrano, un potere centrale e un taglio dei ponti, la ragione intima di ogni embargo, un'acqua gerarchizzante e giurista e giurata, come un nemico o una promessa, infine costitutiva e, quel che più importa, integra.
Coi lavabi e le manopole, comunque, non abbiamo ancora chiuso. (All'acqua vera e propria, invece, arriveremo solo in un secondo momento). Abbiamo trattato l'acqua verticale, l'acqua analoga alle travi, etc.
Ma va detto che a volte succede il contrario, succede che uno debba spingere verso il basso, esercitare pressione (un po' come accade per il gas), esercitarsi fino all'acqua. Ecco un primo avvertimento: per l'acqua occorre allen(t)amento, non si può arrivare all'acqua impreparati, poiché l'acqua è liquida ma inflessibile e ci ripudia. Questo è un secondo modo dell'acqua, ed è una sorta di pantano, è una condotta più goffa, impacciata, pesante e in qualche modo enfatica; è un'acqua che esaspera la sua uniformità, la tende e la dilata finché non diviene lentezza.
(Un capitolo a parte, invece, meriterebbero i materassi ad acqua, che usano cioè l'acqua come carburante per innescare il sonno, e a dire il vero non si capisce dove finisce l'acqua e dove comincia il sonno, sicché il rischio è quello di dormire l'acqua, e non riesco proprio a figurarmi, a quel punto, cosa potrebbe succedere. Forse il mare. Di Dirac).
Risalendo la corrente, ci accorgiamo che non esiste divario tra l'acqua e una teoria dell'acqua, giacché l'acqua è sempre in teoria e mai in pratica, è impraticabile, come le strade dissestate e la neve. E' anche inservibile nella misura in cui non ammette culti, non può essere venerata, non ha vesti né vestali, si rende inavvicinabile, oppone realmente dighe alle nostre rotte (che sono poi ripiegamenti). Non possiamo toccare l'acqua, l'unica via è immergersi, ed è chiaro che tutto questo avvicina l'acqua a Dio (un Dio senza religione), limitando le possibilità di contatto alla mistica. Dicevamo che non è possibile comprendere l'acqua, che l'acqua è insolubile, e non parlavamo a sproposito: nessuna abduzione, ma piuttosto abluzione; bisogna essere sommozzatori, non logici.
Ma veniamo all'anatomia dell'acqua. L'acqua è quella pellicola, quel diaframma che si frappone tra noi e il mondo e che non è il freddo, o almeno non del tutto. Questa si può dire, a ragione, una buona approssimazione dell'acqua. (La differenza principale che sussiste tra acqua e freddo, e che ci permette di distinguerli con discreta precisione, sta nell'evidenza che l'acqua può essere “aperta”, “chiusa”, “messa”, “controllata”, “buttata”, "tirata" - a me è capitato addirittura di “stringerla”, magari al petto – mentre niente di tutto questo può essere fatto al freddo. Abbiamo dunque sull'acqua un margine di intervento, di partecipazione che col freddo ci è invece precluso). Ma noi vogliamo essere più scrupolosi, vogliamo andare a fondo, vogliamo affondare. Chi tra di voi si è mai imbattuto nell'acqua allo stato “selvatico”, se così si può dire;, chi ha sbirciato l'acqua anche una sola volta, anche di sfuggita, sa che ai lati è squamata, che normalmente ha la forma di una spirale e quando e dove finisce si nota distintamente una coda. Se invece l'acqua è bloccata, allora si compatta, si infittisce, sigilla le scaglie, si contrae, come in preda a un crampo, si carica a molla e sembra sul punto di esplodere da un momento all'altro. E a lasciarci sbigottiti non è mai il contenitore ma il contenimento, questo accumulo impensabile di (es)tensione che si eterna, oserei dire si tramanda, e non si scompone davanti a nulla, neppure ai nostri pigiami a righe, ai nostri spazzolini sciupati, ai tubetti Colgate, e viene da pensare quasi ad una dignità dell'acqua, a un portamento, un contegno. (L'acqua, almeno quella nelle bottiglie, ha un'etichetta vera e propria, fateci caso). L'ipotesi più attendibile, a questo punto, è quella che vuole l'acqua come l'antichità che si conforma (e conferma) non tanto al presente ma alla presenza, non al sito, alla falda temporale, ma allo scandalo. L'antichità infatti non appartiene al passato ma all'inesistenza, consiste nella semplice continuità della scomparsa, cui certamente non si può porre rimedio, poiché la memoria si arrende non già dove è passata la Storia, ma dove la Storia si è stabilita. Non possiamo collocare l'antichità davanti a noi e neppure dietro di noi, possiamo tutt'al più porla sopra o sotto o intorno. (Attenzione: non è una circostanza ambientale, un contesto, è invece un testo, una nota notte a m-argine, un fattore esogeno o, meglio ancora, idrogeno). La faccenda assume quindi i connotati di un assedio, una guerra realmente "fredda", e non di uno scontro - tantomeno di un dialogo. Similmente avviene per l'acqua, che infatti non è in discussione: e se è vero che noi possiamo passare sopra all'acqua, possiamo attraversarla o sorvolarla, occuparcene o ignorarla, è altrettanto certo che l'acqua non passerà sopra a noi, non farà finta di non vedere, e se non laverà (che è altra cosa da “levare”, è più “tirare a lucido”) le nostre colpe, non è detto che voglia graziare anche i nostri capelli. Qui serve un raccordo, una giuntura che ci porti un passo indietro, dall'acqua all'antichità. L'antichità, dicevamo, è questa continua proroga dell'attimo immediatamente successivo, è barare ma fuori dai giochi, muero porque no muero, quello che l'universo sarebbe stato senza il cedimento della creazione. La cosa peggiore, infatti, è quando le acque si rompono, improvvisamente plurali, divise, faziose, quando si scuce la falla e cede l'ordine, il criterio dell'acqua, ed è allora che accadono le cose più terribili.
L'antichità è, anche, un appuntamento costantemente mancato, la vita in rinvio ma a ritroso, questa colonia della morte nella Storia, la morte – è il caso di dirlo – sotto mentite spoglie o, più precisamete, il bastione, l'avamposto da cui irradia i suoi tentacoli. Ma, intendiamoci, non ci tocca, neppure ci sfiora: diversamente, ci sovrasta. (Penso al deus sive natura spinoziano e alle sue increspature – una creatura acquatica - e concludo: deus sine natura).
Io non so se credete ai mostri marini, o almeno al calcare, ma sappiate che i tubi servono proprio a questo scopo, a proseguire la morte come un discorso, a consentire una diffusione capillare non esattamente della morte quanto del suo elemento, del suo pronostico; a permetterne anche un deflusso, una scappatoia – non l'uscita d'emergenza ma l'emergenza dell'uscita. L'accadimento non storico ma istoriato, scalfito, la selce scheggiata, l'amigdala poi conficcata sopra il tronco cerebrale, la visione dell'allarme.
Vi voglio mettere in guardia: la morte per acqua è davvero una storia di commerci, di biremi. Immaginate l'acqua, se volete, come un furbo contrabbandiere macedone, dal momento che l'acqua arriva ma pretende qualcosa in cambio, è assetata (eheh) di conquista, è imperialista, tende ad occupare tutto lo spazio e nessuno può assicurarci che un giorno non reclamerà proprio il nostro.
Niente abissi, però. L'acqua è proprio una forza opposta agli abissi, una tensione del tutto superficiale, l'acqua è anzi sfacciata, è tutta in superficie, sta in alto, più in alto della terra.
Come se non bastasse, tutto questo di norma prende l'esatta forma della nostra vasca da bagno, e allora come trattenere lo sconcerto. (Io mi consolo pensando questo: a quanto ne so, non esistono vasche da bagno con le fattezze di Nayuta). E se pensiamo che l'acqua ammonta a tre quarti della superficie terrestre e, soprattutto, all'interezza delle terre emerse - in particolare i bagni, allora sarà chiara l'entità della minaccia. Per darvi l'idea dell'enormità dell'acqua basti questo: è quasi sicuramente più grande delle balene - anche se di poco.
E' vero, abbiamo preso le nostre contromisure, abbiamo argini, grondaie, canali di scolo, questi tentativi laterali di formare fermare l'acqua, di educarla, disciplinarla, di iscriverla nel piano cartesiano, di cavarne una geografia leggibile. Non sto dicendo la forza della natura, gli uragani e POMPEI. L'ho già scritto, e lo ripeto: distrazione, non distruzione. L'acqua sostanzialmente passa, e così noi. Non si ferma e non si sofferma, non indaga e non studia. Non si muove dal letto e non va neppure agli esami. Sempre come noi. E ora piove, lo giuro, quindi ho finito.
Non penso, in questo modo, di aver sciolto o sezionato o illustrato l'acqua (ma giusto un abbozzo, uno schizzo), perché l'acqua è inestricabile. Non penso di averla esaurita. E nessuno di voi, infatti, lo ha creduto, e mi rendo conto che a questo punto potrebbe essere deludente, ma vedetela così: significa che ne resta in abbondanza, che “ce n'è per tutti”, direbbe Zuccaro (direbbe anche “fatevi sotto che”, prima). Non pretendo di essere stato adeguato, o consono, perché l'argomento lo impedisce. Non vedo come potrei essere appropriato all'acqua. Lo specifico perché si potrebbe pensare altrimenti, si potrebbe pensare che io sia un acque-dotto.
Volevate l'acqua, ed io vi capisco, ma dovrete accontentarvi di un ri-scontro parziale (e non è neppure buona parte, o la parte "buona").
Ciò che mi auguro, umilmente, è di aver corretto quanto era corrotto, quello sgarro all'acqua che parte dai procarioti, passa per Wallace e sbuca direttamente dalle nostre docce. Una cosa da niente, come bere un bicchier di - non preoccupatevi, sembra la fine e lo è. O voi tutti assestati venite all'acqua.
Poi spero di smettere l'acqua una volta per tutte, come un vizio assurdo o un vestito.
Disclaimer: a un certo punto scriverò “oggi”, così nessuno vorrà accusarmi di essere metafisico o metametafisico o metametacritico o, peggio ancora, famedoro (per precauzione, a proposito, mi asterrò dal citare Lukács. Al suo posto, mi impegno solennemente a citare almeno una volta BATTIATO).
L'acqua, lo sapete, è una realtà che ci tocca tutti (anche se non ci laviamo, nostro malgrado), che ci riguarda da vicino, e questa mi sembra un'ottima occasione per stare attenti e sentirvi socialmente impegnati, proprio come se aveste ancora i capelli lunghi e il quadernone sgualcito di Emergency. Badate: non sto dicendo che vi spiegherò l'acqua, perché l'acqua non si può spiegare, niente nessuno mai (non sto neanche dicendo che i capelli ricresceranno: non ricresceranno). Non proverò neppure a darvi l'acqua, ma tenterò piuttosto di dirvi l'acqua - magari non tutta, magari solo un bicchiere, che sembra una miseria ma vi sbagliate, un bicchiere è, de facto, un ingrandimento dell'acqua, l'acqua messa a fuoco, un primo piano, un particolare, un'acqua al dettaglio e nel dettaglio. Sto dicendo, insomma, che ve lo farete bastare.
Oggi ad esempio c'era un rubinetto, e non bastava girare, serviva tirare, spingere verso l'alto. L'acqua si creava cioè senza i giri, senza accartocciarsi, ma con uno slancio cervicale, si inarcava, si levava come se non potesse esserci acqua senza un soffitto a custodirla, come se il soffitto fosse per l'acqua un garante, come dio per l'etica, o per meglio dire un nume tutelare. Le macchie d'umido.
In tutta onestà, io non so se ciò che ho visto, oggi, immediatamente dopo lo stacco e i giri, è l'acqua, davvero l'acqua, o se invece è un bacino, la stanza premuta in una conca, una lordosi del piatto oftalmico, un accerchiamento olografico, una saturazione di ciascuna cosa ma come dall'interno, un embolo o ancora il sonno, che è una bolla e non si smentisce. Sta di fatto che l'acqua non si può vedere, ma solo avvistare (e avvitare, nel più fortunato dei casi: pensiamo proprio ai rubinetti) e a maggior ragione oggi, che ciascuna America è stata scoperta e nessuno grida più “terra”.
Questa non è solo l'acqua di oggi, ma un primo modo di estrarre l'acqua, che diremo “parabolico”e che sprigiona quasi un'acqua-vapore, che si sviluppa in altezza, un'acqua-boa (sia serpente sia galleggiante) e conclusa in se stessa, perfino autoreferenziale, autarchica, indipendente, un'isola; un'acqua-uovo ermetica, a tenuta stagna, liscia e impermeabile, capace di almanaccare il mondo tubo per tubo, uno stato sovrano, un potere centrale e un taglio dei ponti, la ragione intima di ogni embargo, un'acqua gerarchizzante e giurista e giurata, come un nemico o una promessa, infine costitutiva e, quel che più importa, integra.
Coi lavabi e le manopole, comunque, non abbiamo ancora chiuso. (All'acqua vera e propria, invece, arriveremo solo in un secondo momento). Abbiamo trattato l'acqua verticale, l'acqua analoga alle travi, etc.
Ma va detto che a volte succede il contrario, succede che uno debba spingere verso il basso, esercitare pressione (un po' come accade per il gas), esercitarsi fino all'acqua. Ecco un primo avvertimento: per l'acqua occorre allen(t)amento, non si può arrivare all'acqua impreparati, poiché l'acqua è liquida ma inflessibile e ci ripudia. Questo è un secondo modo dell'acqua, ed è una sorta di pantano, è una condotta più goffa, impacciata, pesante e in qualche modo enfatica; è un'acqua che esaspera la sua uniformità, la tende e la dilata finché non diviene lentezza.
(Un capitolo a parte, invece, meriterebbero i materassi ad acqua, che usano cioè l'acqua come carburante per innescare il sonno, e a dire il vero non si capisce dove finisce l'acqua e dove comincia il sonno, sicché il rischio è quello di dormire l'acqua, e non riesco proprio a figurarmi, a quel punto, cosa potrebbe succedere. Forse il mare. Di Dirac).
Risalendo la corrente, ci accorgiamo che non esiste divario tra l'acqua e una teoria dell'acqua, giacché l'acqua è sempre in teoria e mai in pratica, è impraticabile, come le strade dissestate e la neve. E' anche inservibile nella misura in cui non ammette culti, non può essere venerata, non ha vesti né vestali, si rende inavvicinabile, oppone realmente dighe alle nostre rotte (che sono poi ripiegamenti). Non possiamo toccare l'acqua, l'unica via è immergersi, ed è chiaro che tutto questo avvicina l'acqua a Dio (un Dio senza religione), limitando le possibilità di contatto alla mistica. Dicevamo che non è possibile comprendere l'acqua, che l'acqua è insolubile, e non parlavamo a sproposito: nessuna abduzione, ma piuttosto abluzione; bisogna essere sommozzatori, non logici.
Ma veniamo all'anatomia dell'acqua. L'acqua è quella pellicola, quel diaframma che si frappone tra noi e il mondo e che non è il freddo, o almeno non del tutto. Questa si può dire, a ragione, una buona approssimazione dell'acqua. (La differenza principale che sussiste tra acqua e freddo, e che ci permette di distinguerli con discreta precisione, sta nell'evidenza che l'acqua può essere “aperta”, “chiusa”, “messa”, “controllata”, “buttata”, "tirata" - a me è capitato addirittura di “stringerla”, magari al petto – mentre niente di tutto questo può essere fatto al freddo. Abbiamo dunque sull'acqua un margine di intervento, di partecipazione che col freddo ci è invece precluso). Ma noi vogliamo essere più scrupolosi, vogliamo andare a fondo, vogliamo affondare. Chi tra di voi si è mai imbattuto nell'acqua allo stato “selvatico”, se così si può dire;, chi ha sbirciato l'acqua anche una sola volta, anche di sfuggita, sa che ai lati è squamata, che normalmente ha la forma di una spirale e quando e dove finisce si nota distintamente una coda. Se invece l'acqua è bloccata, allora si compatta, si infittisce, sigilla le scaglie, si contrae, come in preda a un crampo, si carica a molla e sembra sul punto di esplodere da un momento all'altro. E a lasciarci sbigottiti non è mai il contenitore ma il contenimento, questo accumulo impensabile di (es)tensione che si eterna, oserei dire si tramanda, e non si scompone davanti a nulla, neppure ai nostri pigiami a righe, ai nostri spazzolini sciupati, ai tubetti Colgate, e viene da pensare quasi ad una dignità dell'acqua, a un portamento, un contegno. (L'acqua, almeno quella nelle bottiglie, ha un'etichetta vera e propria, fateci caso). L'ipotesi più attendibile, a questo punto, è quella che vuole l'acqua come l'antichità che si conforma (e conferma) non tanto al presente ma alla presenza, non al sito, alla falda temporale, ma allo scandalo. L'antichità infatti non appartiene al passato ma all'inesistenza, consiste nella semplice continuità della scomparsa, cui certamente non si può porre rimedio, poiché la memoria si arrende non già dove è passata la Storia, ma dove la Storia si è stabilita. Non possiamo collocare l'antichità davanti a noi e neppure dietro di noi, possiamo tutt'al più porla sopra o sotto o intorno. (Attenzione: non è una circostanza ambientale, un contesto, è invece un testo, una nota notte a m-argine, un fattore esogeno o, meglio ancora, idrogeno). La faccenda assume quindi i connotati di un assedio, una guerra realmente "fredda", e non di uno scontro - tantomeno di un dialogo. Similmente avviene per l'acqua, che infatti non è in discussione: e se è vero che noi possiamo passare sopra all'acqua, possiamo attraversarla o sorvolarla, occuparcene o ignorarla, è altrettanto certo che l'acqua non passerà sopra a noi, non farà finta di non vedere, e se non laverà (che è altra cosa da “levare”, è più “tirare a lucido”) le nostre colpe, non è detto che voglia graziare anche i nostri capelli. Qui serve un raccordo, una giuntura che ci porti un passo indietro, dall'acqua all'antichità. L'antichità, dicevamo, è questa continua proroga dell'attimo immediatamente successivo, è barare ma fuori dai giochi, muero porque no muero, quello che l'universo sarebbe stato senza il cedimento della creazione. La cosa peggiore, infatti, è quando le acque si rompono, improvvisamente plurali, divise, faziose, quando si scuce la falla e cede l'ordine, il criterio dell'acqua, ed è allora che accadono le cose più terribili.
L'antichità è, anche, un appuntamento costantemente mancato, la vita in rinvio ma a ritroso, questa colonia della morte nella Storia, la morte – è il caso di dirlo – sotto mentite spoglie o, più precisamete, il bastione, l'avamposto da cui irradia i suoi tentacoli. Ma, intendiamoci, non ci tocca, neppure ci sfiora: diversamente, ci sovrasta. (Penso al deus sive natura spinoziano e alle sue increspature – una creatura acquatica - e concludo: deus sine natura).
Io non so se credete ai mostri marini, o almeno al calcare, ma sappiate che i tubi servono proprio a questo scopo, a proseguire la morte come un discorso, a consentire una diffusione capillare non esattamente della morte quanto del suo elemento, del suo pronostico; a permetterne anche un deflusso, una scappatoia – non l'uscita d'emergenza ma l'emergenza dell'uscita. L'accadimento non storico ma istoriato, scalfito, la selce scheggiata, l'amigdala poi conficcata sopra il tronco cerebrale, la visione dell'allarme.
Vi voglio mettere in guardia: la morte per acqua è davvero una storia di commerci, di biremi. Immaginate l'acqua, se volete, come un furbo contrabbandiere macedone, dal momento che l'acqua arriva ma pretende qualcosa in cambio, è assetata (eheh) di conquista, è imperialista, tende ad occupare tutto lo spazio e nessuno può assicurarci che un giorno non reclamerà proprio il nostro.
Niente abissi, però. L'acqua è proprio una forza opposta agli abissi, una tensione del tutto superficiale, l'acqua è anzi sfacciata, è tutta in superficie, sta in alto, più in alto della terra.
Come se non bastasse, tutto questo di norma prende l'esatta forma della nostra vasca da bagno, e allora come trattenere lo sconcerto. (Io mi consolo pensando questo: a quanto ne so, non esistono vasche da bagno con le fattezze di Nayuta). E se pensiamo che l'acqua ammonta a tre quarti della superficie terrestre e, soprattutto, all'interezza delle terre emerse - in particolare i bagni, allora sarà chiara l'entità della minaccia. Per darvi l'idea dell'enormità dell'acqua basti questo: è quasi sicuramente più grande delle balene - anche se di poco.
E' vero, abbiamo preso le nostre contromisure, abbiamo argini, grondaie, canali di scolo, questi tentativi laterali di formare fermare l'acqua, di educarla, disciplinarla, di iscriverla nel piano cartesiano, di cavarne una geografia leggibile. Non sto dicendo la forza della natura, gli uragani e POMPEI. L'ho già scritto, e lo ripeto: distrazione, non distruzione. L'acqua sostanzialmente passa, e così noi. Non si ferma e non si sofferma, non indaga e non studia. Non si muove dal letto e non va neppure agli esami. Sempre come noi. E ora piove, lo giuro, quindi ho finito.
Non penso, in questo modo, di aver sciolto o sezionato o illustrato l'acqua (ma giusto un abbozzo, uno schizzo), perché l'acqua è inestricabile. Non penso di averla esaurita. E nessuno di voi, infatti, lo ha creduto, e mi rendo conto che a questo punto potrebbe essere deludente, ma vedetela così: significa che ne resta in abbondanza, che “ce n'è per tutti”, direbbe Zuccaro (direbbe anche “fatevi sotto che”, prima). Non pretendo di essere stato adeguato, o consono, perché l'argomento lo impedisce. Non vedo come potrei essere appropriato all'acqua. Lo specifico perché si potrebbe pensare altrimenti, si potrebbe pensare che io sia un acque-dotto.
Volevate l'acqua, ed io vi capisco, ma dovrete accontentarvi di un ri-scontro parziale (e non è neppure buona parte, o la parte "buona").
Ciò che mi auguro, umilmente, è di aver corretto quanto era corrotto, quello sgarro all'acqua che parte dai procarioti, passa per Wallace e sbuca direttamente dalle nostre docce. Una cosa da niente, come bere un bicchier di - non preoccupatevi, sembra la fine e lo è. O voi tutti assestati venite all'acqua.
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martedì 4 maggio 2010
Quella volta che andai al mare in bici.
Era ormai calata la notte e stavo camminando per tornare a casa. Lo stomaco ancora gonfio di cibo (tuttora ne risento degli effetti) mi rallentava sia nel corpo che nello spirito e sebbene procedessi su di un marciapiede angusto, che quasi non mi consentiva di poggiare oltre alle suole il bastone, ero come distantissimo dalle varie vetture che alla maniera napoletana mi correvano accanto. D'improvviso tuttavia molto docemente, sfocio in una piazzetta che non ricordavo avessi sul cammino (non ricordavo in realtà nemmeno il cammino, facevo sperimentazioni sull'automatismo) e altrettanto dolcemente svanisco.
Non ci sono più, il panorama perde di rilevanza, ogni cosa smette finalmente di affannarsi nel tentare di darsi una ragione e tutto, sebbene non perda di consistenza, si abbandona al non essere.
In pace.
Ho fatto dei calcoli e suppergiù devo essere rimasto in quello stato per una ventina di minuti. Fu un leggero sussulto di una delle palpebre a riportarmi alla realtà.
È quello che istintivamente mi dissi: «Sono tornato alla realtà.» e ripresi a camminare.
Il preciso istante successivo mi resi oggetto del più sincero ed impareggiabile tra i disgusti.
Non ci sono più, il panorama perde di rilevanza, ogni cosa smette finalmente di affannarsi nel tentare di darsi una ragione e tutto, sebbene non perda di consistenza, si abbandona al non essere.
In pace.
Ho fatto dei calcoli e suppergiù devo essere rimasto in quello stato per una ventina di minuti. Fu un leggero sussulto di una delle palpebre a riportarmi alla realtà.
È quello che istintivamente mi dissi: «Sono tornato alla realtà.» e ripresi a camminare.
Il preciso istante successivo mi resi oggetto del più sincero ed impareggiabile tra i disgusti.
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sabato 1 maggio 2010
La realtà tutta spietata
"ita res accendent lumina rebus."
Non so se dovrei ringraziare qualcuno, d'altronde è piuttosto frustrante pensare a quanto c'è di bello sotto i balconi. Quanto c'è di stoffa negli atomi della Grande Idea, oppure tra cielo e cielo, perchè di norma avanzano sempre frammenti di plastica grigia, e si inficcano negli ultimi occhi cielanti. Le scale sono cresciute nel deserto, una pianura di vele con la luna nel mezzo, ma alla luna nel pozzo, sotto i balconi cadenti, le stelle invecchiate, le pietre aguzze che cadono dal cielo, nessuno ha mai sufficientemente guardato a fondo, ossia nel suo scialle coperto di muffa e arcobaleno. Cieli bassi, falsi, cieli che non ricordano più nulla e rovistano a fondo l'anima fumosa di tutte le tempeste.
Non ci sono più tempeste. Però rovi intricati e tracolli sotto i lumi distanti attutiti dal tonfo inceneritore del giorno. Dove deve mai andare, noi che ci affatichiamo con duplice cura__perchè vada e vada bene? perchè tornino gli argobaleni di psichedelici sogni invocati per nome. Per dire "Ma magari.."(anche se lo sfigology di Jurambalco prevede che io dica -d'altra parte..-) dopo "oggi non c'è".
Una tonalità più bassa sulla torre stacca i petali, dai cieli bassi, con calore, immagino. Dalle montagne rotte di corde, dalla dispersione della forza, nell'aria zitta, dall'infinito chiasso. E' una neve nera, di volte celesti in spire che piangono sui colletti spiegazzati degli impiegati di borsa (la borsa chiude le contrattazioni verso le 17, mi pare, poi c'è la rivalutazione di chiusura). Dal ridere, l'eterno chiasso che si possono permettere gli dei.
E nell'estrema debolezza che rilutta la luna nel pozzo, scogli arroventati dell'unico fiore in mezzo al deserto: la coordinazione di più piani di inferno, spazio e tempo. Non la ginestra, che non si fa derubare e prorompe anche nella più lunga onda di vuoto. Dimostra, dico solo che c'è voglia di dimostrare nella ginestra, di sublimare la sconfitta.
Dall'orologio che batte il tempo, l'allegoria del tuono. Corolle sbiadite cadere con leggerezza infinita, per tutti i viali che non ci sono nel deserto, nella nebbia, nel buio.
Ci si perde per le tubature, le ultime strade del testo.
E nessuno mi toglierà mai dalla mente fino all'anno scorso, che l'orologio conta i passi e che gli dei calpestano solo margherite. Di giorno, alla luce del sole.
Non so se dovrei ringraziare qualcuno, d'altronde è piuttosto frustrante pensare a quanto c'è di bello sotto i balconi. Quanto c'è di stoffa negli atomi della Grande Idea, oppure tra cielo e cielo, perchè di norma avanzano sempre frammenti di plastica grigia, e si inficcano negli ultimi occhi cielanti. Le scale sono cresciute nel deserto, una pianura di vele con la luna nel mezzo, ma alla luna nel pozzo, sotto i balconi cadenti, le stelle invecchiate, le pietre aguzze che cadono dal cielo, nessuno ha mai sufficientemente guardato a fondo, ossia nel suo scialle coperto di muffa e arcobaleno. Cieli bassi, falsi, cieli che non ricordano più nulla e rovistano a fondo l'anima fumosa di tutte le tempeste.
Non ci sono più tempeste. Però rovi intricati e tracolli sotto i lumi distanti attutiti dal tonfo inceneritore del giorno. Dove deve mai andare, noi che ci affatichiamo con duplice cura__perchè vada e vada bene? perchè tornino gli argobaleni di psichedelici sogni invocati per nome. Per dire "Ma magari.."(anche se lo sfigology di Jurambalco prevede che io dica -d'altra parte..-) dopo "oggi non c'è".
Una tonalità più bassa sulla torre stacca i petali, dai cieli bassi, con calore, immagino. Dalle montagne rotte di corde, dalla dispersione della forza, nell'aria zitta, dall'infinito chiasso. E' una neve nera, di volte celesti in spire che piangono sui colletti spiegazzati degli impiegati di borsa (la borsa chiude le contrattazioni verso le 17, mi pare, poi c'è la rivalutazione di chiusura). Dal ridere, l'eterno chiasso che si possono permettere gli dei.
E nell'estrema debolezza che rilutta la luna nel pozzo, scogli arroventati dell'unico fiore in mezzo al deserto: la coordinazione di più piani di inferno, spazio e tempo. Non la ginestra, che non si fa derubare e prorompe anche nella più lunga onda di vuoto. Dimostra, dico solo che c'è voglia di dimostrare nella ginestra, di sublimare la sconfitta.
Dall'orologio che batte il tempo, l'allegoria del tuono. Corolle sbiadite cadere con leggerezza infinita, per tutti i viali che non ci sono nel deserto, nella nebbia, nel buio.
Ci si perde per le tubature, le ultime strade del testo.
E nessuno mi toglierà mai dalla mente fino all'anno scorso, che l'orologio conta i passi e che gli dei calpestano solo margherite. Di giorno, alla luce del sole.
mercoledì 28 aprile 2010
Il bel marinaretto e altre storie della buonanotte
Ora, prima, guardavo alla televisione una cosa del Parlamento e mi dicevo che proprio non vale la pena, mi dicevo che è tutto finto come si dice a qualcuno quando ha paura dei film dell'orrore, è tutto finto. Mi dicevo che è tutto finto perché non ci credo, che le cose succedano fuori da questa stanza e arrivino strisciando la lingua sul pavimento come Filippide, a ragguagliarmi sull'esito di battaglie ben poco interessanti, e io posso rispondere sì, va bene, e tornare a controllare la produzione delle celle di energia in qualche videogioco, che così si guadagnano i soldi, nel videogioco. Non ci credo, Grecia o non Grecia, la Grecia di ieri e quella dell'altroieri, le persone possedute dagli dèi - indiarsi, numen inest, robaccia, Dante non piace a nessuno - che è la versione arcaica e pura e completa e nonebraica, nonduale del perdono tramite Cristo: perdono tramite assenza, ecco. Io non ci sono, non ci saranno i miei figli, non c'erano i miei avi sul balcone con i loro occhiali tondi, non erano lì, perdònati o Signore perché sei stato tu. Io, vedete, scrivo sempre le stesse cose e sono grato a Manuel e quegli altri due che non mi ricordo come si chiamano perché loro scrivono cose diverse e sommando tutto facciamo quasi mezza persona, diciamo un invalido di guerra. Sono grato, in realtà, a queste persone perché ho visto che la fila è lunga e sono tornato a casa, come faccio sempre agli esami, visto che ho sonno e c'è tanta gente. Gli altri, voi lo sapete, Sartre diceva che l'inferno sono gli altri: io poi dico che Sartre era un marxista, ecco, e che l'inferno qui risiede nello scioglimento dei nodi pragmatici, nella diluizione della storia. Io dico, forse proclamo, che c'è un solo crimine ed è il furto: ci siamo spartiti come ladroni, voi sapete. Ecco, guardavo quella cosa del Parlamento e pensavo che qualcuno mi ha scippato la storia, ma Sartre era un marxista e io no, io non sono un marxista, quindi io torno a dormire senza nemmeno allacciarmi le scarpe. Voi lo sapete, la mia Postepay scade nel Giugno del 2015: ecco da dove stilla la tristezza. Pensavo che ho quasi ventisei anni, questa volta, e i gradini del treno tornano a dimensioni naturalissime, pratiche, e che in tutta la mia vita non avrò mai più paura di cadere. Pensavo che è tutto finito. Scusate se non vi rispondo, intendo voi che scrivete i messaggi, ma non vi rispondo. Intendo proprio, scusate se non vi rispondo ma non vi rispondo. Mi annoio a morte e ogni volta che scrivo ne esce uno stream e voi lo sapete che lo stream è buono giusto per le ragazzine sedicenni occassionalmente gotiche e a volte no, raramente gnocche, ma non certo per qualcuno che ha santificato la propria irrilevanza. Un giorno, dico, mi siederò davanti a questa tastiera e scriverò una poesia, intendo un'altra. Vorrei dirvi, voi che avete letto, che non c'è niente di bello al mondo, non c'è mai stato e non ci sarà mai. Vorrei dirvi, voi che avete letto, di non mangiare dalle mani degli uomini e di stare attenti al veleno che sprizza in archi liquidi sopra i cancelli. Poi non so più niente, ho smesso di leggere i libri finché l'ennesima esplosione non li stamperà sulle pareti come ombre atomiche, e lì rimarranno e allora basterà la pietà e non la forza. Pregate che moriamo tutti il prima possibile, pregate.
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sabato 24 aprile 2010
poesia a quattro mani e pochissimi capelli
io e kyuss. i capelli sono tutti miei, le mani un po' dell'uno un po' dell'altro, vai a sapere.
____________
la miniaturizzazione del follicolo è una cosa da iperuranio, da paludi. invece significa, spiana le tempie in sezione binaria, un minutaggio
ai riflessi, al suffragio dei cicli
e cioè il momento, il guizzo, la semplificazione che conduce all'acqua, in caduta libera
dai terminali e dai placebo: l'inversione o la vergogna dei bulbi. L'acqua invece si crea negli attraversamenti, ed è clamoroso. sto dicendo: un governo
ai canoni e agli effluvi di caduta, una prova per nuovi reticolati
e a ritroso fino alla presenza, alla parità degli affluenti
Un corso posticcio in condizioni di mancanza, dai fusti ai cerchi impilati, barricati in qualche nodo al pavimento
uno sviluppo costitutivo, e sgombra il temporale occipitale ad anelli, a cristalli liquidi
frangibili dai venti, mai più recuperati: un sagrato di villi (la precedenza è scorrere accanto, defilarsi, un tubo più stretto)
per cui maledire il telogen, l'idraulica, i giunti in espansione: schermata Samsung.
volevo dirlo anche io: Samsung. Alludiamo ai cerchi nell'acqua ai wallpaper di default.
____________
la miniaturizzazione del follicolo è una cosa da iperuranio, da paludi. invece significa, spiana le tempie in sezione binaria, un minutaggio
ai riflessi, al suffragio dei cicli
e cioè il momento, il guizzo, la semplificazione che conduce all'acqua, in caduta libera
dai terminali e dai placebo: l'inversione o la vergogna dei bulbi. L'acqua invece si crea negli attraversamenti, ed è clamoroso. sto dicendo: un governo
ai canoni e agli effluvi di caduta, una prova per nuovi reticolati
e a ritroso fino alla presenza, alla parità degli affluenti
Un corso posticcio in condizioni di mancanza, dai fusti ai cerchi impilati, barricati in qualche nodo al pavimento
uno sviluppo costitutivo, e sgombra il temporale occipitale ad anelli, a cristalli liquidi
frangibili dai venti, mai più recuperati: un sagrato di villi (la precedenza è scorrere accanto, defilarsi, un tubo più stretto)
per cui maledire il telogen, l'idraulica, i giunti in espansione: schermata Samsung.
volevo dirlo anche io: Samsung. Alludiamo ai cerchi nell'acqua ai wallpaper di default.
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mercoledì 7 aprile 2010
29/03/2010
Cerco di vedere ancora il mosaico di Lenin che s'inclina
ad una stretta colpevole, un vecchio lascito; che l'arresto
stia in quell'altra parte del tempo, dove oscilla il tremore
dal pensiero che si stava o si è stati dove lo scoppio
ora è casto, dove la morte e quanto ne consegue
porta a deflettere o sparire:
perché ogni cosa deflagri dove il treno, dalla propria
unica origine di viscera, prende una forma che ripete
i vuoti e i pieni; l'odio per quei lampadari
e il ronzio stanco di vetri, i vagoni in cui passare
e le guardie coi fucili, o i brindisi spianati
di vodka al tavolo assieme a qualche stronzo
e poi via di nuovo, verso nuove ricevute:
nulla viene semplice, nulla dice da sé
che alla stazione della Lubyanka, proprio
due anni fa, in tempi non diversi
nulla potesse esplodere come il nulla
che ricorda ieri; che la Sokolnicheskaya
sia rossa o che si scenda a Loreto
che importa? Nei vestiboli è lo stesso giorno,
nei chador che rievocano il visto, il passaporto,
il blu sbiadito dei timbri; dopo un anno, un altro,
si è quasi là, mentre l'acconto dei viaggi
squassa la terra come le carrozze
sulle piattaforme alle sette e cinquanta
del mattino; due anni prima quattro
chili di tritolo revocano il testimone
delle corse da Yugo-Zapadnaya, partite
alla medesima ora, con le bende
allacciate alla chiusura delle porte,
fuori dal pendere di quel mezzanino
inerte, quasi come ciò che continua
ad irradiare i suoi tremiti di donna
dalla detonazione di Lubyanka.
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venerdì 2 aprile 2010
Aponia dei solchi
Nulla da dire, sollievo fra le fosse___ma inenarrabile noia,
e l'estate del silenzio inzuppa l'arte, la riva in tralice delle strade nel mare, chi ripercorre
come sempre le solite tappe(zzature) sui contorni__Finestre.
(o almeno muri da cui si può guardare il vizio dei petali,
la ricorrenza stonata, un augurio della primavera)
Vuoto, ancora, scivolano fuori dai fianchi
beccucci, manici vermicolari stecchiti, intricati
di veleno come di rovi(nate)
teiere
E' un clamore sintetico dalle stanze della Regina,
ma non che si ricordi qualcosa tranne la ruvidezza del cuscino:una tomba bianca
di umbratile, sola e soffice pie-tàzza fumante
trivellata fino un peso costipato___(che poi, questa mole interdetta
gira ancora, in tutte le parole che verranno
si fa sentire, grava in modo particolare sulle Rivelazioni)
stelle lente
una notte nera di stelle, arrotolate allo spazio, sole
per inciso__(li?) la cruenta fermentazione dei mondi
si dischiude, sparisce per distensioni
sbadigli lunghi, incenerendosi corde per rigagnoli azzurri.
-Buonanotte, dunque!-
Dall'imbuto__dietro l'aratro
un inenarrabile canto di noia.
(Fa male)
mercoledì 10 marzo 2010
Clima(x)
Come certamente saprete, sono ancora un Poeta e scrivo ancora Poesie. E neppure i titoli sono cambiati, i titoli che non smettono di divertire. Manca didomi.
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L'aria compressa che sale dalle gallerie, dal basso,
che corre dall'abisso agli occhi - e cioè dalle caverne, le stalattiti i soffitti - ora investe il cristallino, la capsula, e all'impatto
è già collirio, goccia. Un primo sortilegio, una patina e non è dolore - ma l'astuccio
che precede il pianto, uno strumento, la cintura di fiato. Le mani
foderate, l'imbocco, una regione transennata, un avamposto alle ringhiere. E il colpo, l'infarto termico dilaga, spalanca questa falla liquida, una congiuntivite dei tunnel. Si innesta come un diaframma
tra le zone del freddo e il mondo, uno steccato del vapore, soprattutto gli occhiali. (La condensa è un ingresso, un'iniziazione ai ghiacci - che, immensi, abitano la montatura. La pellicola, la mucosa
che setaccia l'inverno, e cola. Similmente la doccia, la filigrana del vetro.)
E dunque questa anticamera-antiscivolo, la gomma, le piastrelle e la ghisa
un intero polmone lucente, flessibile, il metallo lanciato
a coprire un arrivo. Voglio dire che a riemergere, con uno sbuffo,
sono io-allegoria, io-termometro - voglio dire le tacche, il (de)grado.
Intercede, per noi, il vento. Siccome ogni atrio e ad ogni ora è un incanto di ombre
e marmi e ancora, fino allo sconcerto - e la morte invece così, nebulizzata, lo smog, la peste-spray e mi piace.
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L'aria compressa che sale dalle gallerie, dal basso,
che corre dall'abisso agli occhi - e cioè dalle caverne, le stalattiti i soffitti - ora investe il cristallino, la capsula, e all'impatto
è già collirio, goccia. Un primo sortilegio, una patina e non è dolore - ma l'astuccio
che precede il pianto, uno strumento, la cintura di fiato. Le mani
foderate, l'imbocco, una regione transennata, un avamposto alle ringhiere. E il colpo, l'infarto termico dilaga, spalanca questa falla liquida, una congiuntivite dei tunnel. Si innesta come un diaframma
tra le zone del freddo e il mondo, uno steccato del vapore, soprattutto gli occhiali. (La condensa è un ingresso, un'iniziazione ai ghiacci - che, immensi, abitano la montatura. La pellicola, la mucosa
che setaccia l'inverno, e cola. Similmente la doccia, la filigrana del vetro.)
E dunque questa anticamera-antiscivolo, la gomma, le piastrelle e la ghisa
un intero polmone lucente, flessibile, il metallo lanciato
a coprire un arrivo. Voglio dire che a riemergere, con uno sbuffo,
sono io-allegoria, io-termometro - voglio dire le tacche, il (de)grado.
Intercede, per noi, il vento. Siccome ogni atrio e ad ogni ora è un incanto di ombre
e marmi e ancora, fino allo sconcerto - e la morte invece così, nebulizzata, lo smog, la peste-spray e mi piace.
lunedì 1 marzo 2010
i dentici
Ciao a tutti. Siccome sono un poeta scrivo poesie. Marica, il nord è meglio e mi dispiace. Non ho capito bene di Didomi. In realtà ho capito, volevo dire che spero bene.
Questa è una poesia, siccome sono un poeta (Didomi invece è un coniglio e forse non si trova, ma come detto spero di no). Il titolo, inoltre, è molto divertente. Per scrupolo ribadisco che questa è una poesia e che sono un poeta:
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L'acqua è una cosa che dimentico. Aperta. A una sbarra, una colla.
Ma chiudere l'acqua, altrimenti. E' biblico. Voglio dire sacrilego.
Le tenaglie le cesoie, le plastiche. E cioè un'acqua a trazione, un'asta. La morsa lo scafo, la ghiera. E' capillare, ha una struttura, una pianta. Il decumano insomma le centurie. Una civiltà dell'acqua.
Ed esiste davvero e ha un luogo, è l' acqua dei perimetri, cardinale. Infine è presente, prima ancora dei rubinetti, prima, precede la cellula e il serbatoio. E' in anticipo, una colonizzazione.
Si può: ad una parete, alle piastrelle, è possibile. Davvero laccata, uno smalto. Dunque debole, un bottone, avvitata e non solo. Basculante.
Quindi tirare l'acqua, che è come elastica, una fionda.
Non pensavo dell'acqua, eppure è difficile, gocciola. Scorre soccorre. Dei nasi lo stesso. La complessità è proprio un fatto di tubature, tentacolare. Un tragitto dell'acqua, il letto. (I mostri esistono, anche loro, e sono marini o comunque acquatici, dicevamo le piovre, ed è intelligente se pensiamo ai tubi). Sono dove l'acqua è passata.
L'acqua è sempre un'altra, ma non qui. Ad esempio nei fiumi. Invece addomesticata è terribile, è un battesimo, è la mia stanza. Rimane. Un getto. Quando è urbana rimane. Negli appartamenti, e quindi appartata. E' intelligente, di nuovo, per via delle tubature.
Sbriciola il gesto, il pugno, annienta. Fino al paradosso zenoniano, in particolare alle tartarughe. Non esiste forza. L'acqua se è alta, o intorno
ci rende innocui. L'acqua è proprio questa infinita striscia di rese. La storia della rinuncia. La storia maiuscola. Non distruzione, distrazione. Oltre l'acqua, nulla è possibile. Comunque, se l'acqua è una casa, non è possibile e non mi capacito.
Io mai avrei detto prima l'acqua, poi la casa
e prima ancora, prima àncora. Secondo me l'acqua è sconcertante.
Questa è una poesia, siccome sono un poeta (Didomi invece è un coniglio e forse non si trova, ma come detto spero di no). Il titolo, inoltre, è molto divertente. Per scrupolo ribadisco che questa è una poesia e che sono un poeta:
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L'acqua è una cosa che dimentico. Aperta. A una sbarra, una colla.
Ma chiudere l'acqua, altrimenti. E' biblico. Voglio dire sacrilego.
Le tenaglie le cesoie, le plastiche. E cioè un'acqua a trazione, un'asta. La morsa lo scafo, la ghiera. E' capillare, ha una struttura, una pianta. Il decumano insomma le centurie. Una civiltà dell'acqua.
Ed esiste davvero e ha un luogo, è l' acqua dei perimetri, cardinale. Infine è presente, prima ancora dei rubinetti, prima, precede la cellula e il serbatoio. E' in anticipo, una colonizzazione.
Si può: ad una parete, alle piastrelle, è possibile. Davvero laccata, uno smalto. Dunque debole, un bottone, avvitata e non solo. Basculante.
Quindi tirare l'acqua, che è come elastica, una fionda.
Non pensavo dell'acqua, eppure è difficile, gocciola. Scorre soccorre. Dei nasi lo stesso. La complessità è proprio un fatto di tubature, tentacolare. Un tragitto dell'acqua, il letto. (I mostri esistono, anche loro, e sono marini o comunque acquatici, dicevamo le piovre, ed è intelligente se pensiamo ai tubi). Sono dove l'acqua è passata.
L'acqua è sempre un'altra, ma non qui. Ad esempio nei fiumi. Invece addomesticata è terribile, è un battesimo, è la mia stanza. Rimane. Un getto. Quando è urbana rimane. Negli appartamenti, e quindi appartata. E' intelligente, di nuovo, per via delle tubature.
Sbriciola il gesto, il pugno, annienta. Fino al paradosso zenoniano, in particolare alle tartarughe. Non esiste forza. L'acqua se è alta, o intorno
ci rende innocui. L'acqua è proprio questa infinita striscia di rese. La storia della rinuncia. La storia maiuscola. Non distruzione, distrazione. Oltre l'acqua, nulla è possibile. Comunque, se l'acqua è una casa, non è possibile e non mi capacito.
Io mai avrei detto prima l'acqua, poi la casa
e prima ancora, prima àncora. Secondo me l'acqua è sconcertante.
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mercoledì 24 febbraio 2010
De Cantautorato Italico Vol.1
Era da tempo che qualcuno qui dentro mi parlava del progetto di un excursus nella musica italiana, (quella che ha un senso ovviamente N.d.A.) quindi, poiché le promesse vanno mantenute, se no volano via e non lo si ritrova più quando fanno la transumanza, prima che sgeli sarà il caso che si compiano.
Fatta questa premessa non necessaria ma doverosa, che si avvii questa rubrichetta amena, leggera leggera come le note delle canzoni e, poiché chi scrive è fissata con la cronologia, che s’inizi pure, in ordine cronologico ma senza la pretesa dell’esaustività.
Avviso: queste pagine saranno profondamente autarchiche ed autoreferenziali, così, per evitare equivoci.
C’era sempre gente su una vespa, negli anni ‘60, le ragazze si sedevano dietro, all’amazzone, i ragazzi avevano la brillantina sui capelli, e mangiavano gelati, negli anni ’60 era sempre estate e s’indossavano occhiali da sole, per vezzo s’intende.
Poi c’erano i jukebox, in Italia, negli anni ’60, in ogni localino seppur stupido era un susseguirsi di canzoni a richiesta, quello che c’era dentro contava fin lì, l’importante è che suonasse qualcosa, si doveva ballare come imperativo categorico.
C’era anche lo struggimento di qualche bellissimo cantante dagli occhi tristi, ma questa è un’altra storia che merita delle righe in esclusiva.
E il tempo era quello delle gonne a sbuffo,
il tempo era quello adatto a dividerseli, i gelati
uno da una parte e una dall’altra.
Amore così, presi per mano.
E allora che si pensi a Genova in quegli anni, che si pensi a poeti menestrelli e ai nomi noti e a quelli quasi cancellati dall’avanzata dell’acqua sulla battigia, che si pensi a delle melodie orchestrali sontuose, che si pensi ad Umberto Bindi.
Dediche d’amore di uno struggimento disperato, la stessa disperazione dell’amor proibito dalla censura, dell’impossibilità dell’unione tra Montecchi e Capuleti che non potrà sfociare nella felicità di Romeo e Romeo, siamo sempre nei primi anni ’60, ci si tiene per mano, ma a condizione che almeno uno dei due indossi una gonna; gli costerà la partecipazione a Sanremo (ora pro nobis!).
Così ci si arriva alla fine, all’estremo di una musica orchestrale che sembra eterna, ci si arriva dall’ultimo angolo, quando la musica è finita, quando ormai non c’è più niente da dire e rimane solo il sonno di una solitudine costretta, di una vita senza, dove il “con” era la possibilità di suonarla in due.
Si deve ritornare indietro seguendo la scia di un salotto musicale sontuosamente arredato, il mal d’amore declinato con note struggenti (sì, struggente è la parola mantra) perché dedicare una canzone è troppo poco quando si può pensare ad un intero concerto, l’importante, negli anni ’60 era tenersi per mano.
È un canto delicato e desolato, la ragione capitale dell’essere musico e vivente, quello di conservare in una tasca tutto l’amore del mondo e aprirlo ogni volta che se ne ha bisogno, la realtà circoscritta della totalizzante passione d’amore quella che non fa andare al di là di sé stessi, quella che si fa rinchiudere nel proprio mondo.
Questa è una storia che finisce all’inizio, con la prima canzone che è un addio, originale che si inizi con un arrivederci, perlomeno si sta arrivando a qualcosa se si opta per l’abbandono.
Solitudine come situazione esistenziale per questo cantante dello struggimento.
E poi nella scuola genovese ce qualcun altro, nascosto tra le pieghe della storia della musica, noto ai meno, soprattutto se quei meno hanno più di 50 anni.
C’è da parlare di testi poetici, un po’ trasognati un po’ iperrealistici come contraddizione in termini s’intende, che fa sempre piacere.
Il ruolo di cantare le storie spettava a Lauzi, di raccontarle con il piglio del narratore pure, sia che fossero fiabe per bambini, sia che fossero storie di adulti: persi nel gioco e nell’assenzio e sceglieremo questa, una su tutte, di rappresentanza perché non deve esserci nessun tedio nella meraviglia.
Una canzone manifesto, una scelta letteraria, un amore, l’ennesimo, non corrisposto, perso tra le carte gli appunti e quelle da gioco.
La storia di un poeta che parrebbe un cliché se non fosse così, vera più del vero.
Ché c’è sempre un po’ di nostalgia degli anni ’60 anche se non si sono vissuti mai, c’è una nostalgia di qualcosa che si può ascoltare, meglio se in vinile, c’è la nostalgia e la consapevolezza del dolore del nostos, come motore universale.
E su queste note, quelle della speranza di un possibile ritorno, mettiamo a dormire i vecchi vinili e gli occhiali da sole sotto la battigia.
Fatta questa premessa non necessaria ma doverosa, che si avvii questa rubrichetta amena, leggera leggera come le note delle canzoni e, poiché chi scrive è fissata con la cronologia, che s’inizi pure, in ordine cronologico ma senza la pretesa dell’esaustività.
Avviso: queste pagine saranno profondamente autarchiche ed autoreferenziali, così, per evitare equivoci.
C’era sempre gente su una vespa, negli anni ‘60, le ragazze si sedevano dietro, all’amazzone, i ragazzi avevano la brillantina sui capelli, e mangiavano gelati, negli anni ’60 era sempre estate e s’indossavano occhiali da sole, per vezzo s’intende.
Poi c’erano i jukebox, in Italia, negli anni ’60, in ogni localino seppur stupido era un susseguirsi di canzoni a richiesta, quello che c’era dentro contava fin lì, l’importante è che suonasse qualcosa, si doveva ballare come imperativo categorico.
C’era anche lo struggimento di qualche bellissimo cantante dagli occhi tristi, ma questa è un’altra storia che merita delle righe in esclusiva.
E il tempo era quello delle gonne a sbuffo,
il tempo era quello adatto a dividerseli, i gelati
uno da una parte e una dall’altra.
Amore così, presi per mano.
E allora che si pensi a Genova in quegli anni, che si pensi a poeti menestrelli e ai nomi noti e a quelli quasi cancellati dall’avanzata dell’acqua sulla battigia, che si pensi a delle melodie orchestrali sontuose, che si pensi ad Umberto Bindi.
Dediche d’amore di uno struggimento disperato, la stessa disperazione dell’amor proibito dalla censura, dell’impossibilità dell’unione tra Montecchi e Capuleti che non potrà sfociare nella felicità di Romeo e Romeo, siamo sempre nei primi anni ’60, ci si tiene per mano, ma a condizione che almeno uno dei due indossi una gonna; gli costerà la partecipazione a Sanremo (ora pro nobis!).
Così ci si arriva alla fine, all’estremo di una musica orchestrale che sembra eterna, ci si arriva dall’ultimo angolo, quando la musica è finita, quando ormai non c’è più niente da dire e rimane solo il sonno di una solitudine costretta, di una vita senza, dove il “con” era la possibilità di suonarla in due.
Si deve ritornare indietro seguendo la scia di un salotto musicale sontuosamente arredato, il mal d’amore declinato con note struggenti (sì, struggente è la parola mantra) perché dedicare una canzone è troppo poco quando si può pensare ad un intero concerto, l’importante, negli anni ’60 era tenersi per mano.
È un canto delicato e desolato, la ragione capitale dell’essere musico e vivente, quello di conservare in una tasca tutto l’amore del mondo e aprirlo ogni volta che se ne ha bisogno, la realtà circoscritta della totalizzante passione d’amore quella che non fa andare al di là di sé stessi, quella che si fa rinchiudere nel proprio mondo.
Questa è una storia che finisce all’inizio, con la prima canzone che è un addio, originale che si inizi con un arrivederci, perlomeno si sta arrivando a qualcosa se si opta per l’abbandono.
Solitudine come situazione esistenziale per questo cantante dello struggimento.
E poi nella scuola genovese ce qualcun altro, nascosto tra le pieghe della storia della musica, noto ai meno, soprattutto se quei meno hanno più di 50 anni.
C’è da parlare di testi poetici, un po’ trasognati un po’ iperrealistici come contraddizione in termini s’intende, che fa sempre piacere.
Il ruolo di cantare le storie spettava a Lauzi, di raccontarle con il piglio del narratore pure, sia che fossero fiabe per bambini, sia che fossero storie di adulti: persi nel gioco e nell’assenzio e sceglieremo questa, una su tutte, di rappresentanza perché non deve esserci nessun tedio nella meraviglia.
Una canzone manifesto, una scelta letteraria, un amore, l’ennesimo, non corrisposto, perso tra le carte gli appunti e quelle da gioco.
La storia di un poeta che parrebbe un cliché se non fosse così, vera più del vero.
Ché c’è sempre un po’ di nostalgia degli anni ’60 anche se non si sono vissuti mai, c’è una nostalgia di qualcosa che si può ascoltare, meglio se in vinile, c’è la nostalgia e la consapevolezza del dolore del nostos, come motore universale.
E su queste note, quelle della speranza di un possibile ritorno, mettiamo a dormire i vecchi vinili e gli occhiali da sole sotto la battigia.
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mercoledì 17 febbraio 2010
Inno al -Coniglio- Perduto
(una cosa che devo ricordarmi di fare)
L'ha chiamata "eudemonia", o forse ero distratta, ma doveva assomigliare a qualcosa di simile. Col tempo ho imparato a riconoscere i respiri dell'atmosfera (anche se non sappiamo il numero dei respiri, e la direzione). La parola ha una cadenza come di passi, fuori, affannati, sulle scale -si, sento passi, sulle scale-. Ma la parola e i passi sono anime della stessa danza; rivolti all'indietro, quest'ultimi, sanno ancora di possibile, lecito, concesso.._
Parlare no, è un tintinnio disturbante: -tacchi, non propriamente passi, passi con tacchi- un puntello fisso al centro degli emisferi, petulante, nelle orecchie, sotto il cemento. Comincio a realizzare di essere stata murata viva col mio suono, nelle orecchie, sempre, ad ogni modo. Come sentirlo, annunciato appena e con timore, un rimorso incisivo sulla luna che incendia la notte, ronza (solo non posso saperlo) invece che.._
-Scusi, lei ne ha mai perso uno?-
-Di cosa, perdoni (dannatamente distratta, già)-
-Del Sonno, ha mai perso del Sonno, le chiedo. Penso che la cosa sia interessante, da un certo punto di svista.-
Sonno, quando parlo tendo continuamente a soffocare, declinare col vuoto (è il problema del grafico a dispersione, sul foglio elettronico), silenzio, calma..- "Io ho sonno", temerariamente, ma non vorrei ritrovarmi al centro della tenda, mi pare evidente; scappo dal sonno, ho fretta, arretro a ritmi decrescenti fino allo scadere del sole. Dovrei imparare, un giorno (sarà il caso di sognarlo ancora. Per non dimenticare) -come le foibe- Per adesso so solo andare a gattoni, a volte perdo le lettere, le lancette incollate, fiori di legno. (o meglio faccio di tutto un affare letterario, penso) Ma anche per forza di cose, mi servono tutte le zampe (le mani, i caratteri maiuscoli), non ho proprio nulla, mi occorre ogni libertà per agevolare il corso (il corso è traditore, come la tomba dell'anima).
Dalle profondità auricolari nascono anche le immagini più calde. Oh, per Cartesio, almeno così mi assicura, siamo tutti visionari. E l'immensità compone il premere, incorpora tutta la pressione attivando lo spazio, così due parole divise da sè, però anche dalla libertà, perchè ogni parola è il proprio grido -che compenetra l'angelo, un sonno antropomorfo.._
"Io sonno", grazie alla grammatica, grazie molte (segno rosso): "Io sono".
Credo di non aver perso alcunchè (ma le strade, i palazzi, un cielo più alto, basso se teso sul mare, sul ponte: una tensione del lago, e poi forse le campane nelle orecchie, immagini vive/e/o/morte, le castagne, per figure e figure sul fondo e_
Si, ma non il Sonno, comunque. O l'Essere, se volete.
-No, non credo. (...)-
-Ci vorrà molto, penso, perchè ti passi (si struscia il naso - ode al pan tarei)-
-Vorrei parlarle ancora di Sonno. Oppure quella frase di Montaigne..com'era..-
(viltà di dialogare, si sono ancora invertite le parti)
Delle orecchie, già. Ci vorrebbero delle orecchie nuove.
L'ha chiamata "eudemonia", o forse ero distratta, ma doveva assomigliare a qualcosa di simile. Col tempo ho imparato a riconoscere i respiri dell'atmosfera (anche se non sappiamo il numero dei respiri, e la direzione). La parola ha una cadenza come di passi, fuori, affannati, sulle scale -si, sento passi, sulle scale-. Ma la parola e i passi sono anime della stessa danza; rivolti all'indietro, quest'ultimi, sanno ancora di possibile, lecito, concesso.._
Parlare no, è un tintinnio disturbante: -tacchi, non propriamente passi, passi con tacchi- un puntello fisso al centro degli emisferi, petulante, nelle orecchie, sotto il cemento. Comincio a realizzare di essere stata murata viva col mio suono, nelle orecchie, sempre, ad ogni modo. Come sentirlo, annunciato appena e con timore, un rimorso incisivo sulla luna che incendia la notte, ronza (solo non posso saperlo) invece che.._
-Scusi, lei ne ha mai perso uno?-
-Di cosa, perdoni (dannatamente distratta, già)-
-Del Sonno, ha mai perso del Sonno, le chiedo. Penso che la cosa sia interessante, da un certo punto di svista.-
Sonno, quando parlo tendo continuamente a soffocare, declinare col vuoto (è il problema del grafico a dispersione, sul foglio elettronico), silenzio, calma..- "Io ho sonno", temerariamente, ma non vorrei ritrovarmi al centro della tenda, mi pare evidente; scappo dal sonno, ho fretta, arretro a ritmi decrescenti fino allo scadere del sole. Dovrei imparare, un giorno (sarà il caso di sognarlo ancora. Per non dimenticare) -come le foibe- Per adesso so solo andare a gattoni, a volte perdo le lettere, le lancette incollate, fiori di legno. (o meglio faccio di tutto un affare letterario, penso) Ma anche per forza di cose, mi servono tutte le zampe (le mani, i caratteri maiuscoli), non ho proprio nulla, mi occorre ogni libertà per agevolare il corso (il corso è traditore, come la tomba dell'anima).
Dalle profondità auricolari nascono anche le immagini più calde. Oh, per Cartesio, almeno così mi assicura, siamo tutti visionari. E l'immensità compone il premere, incorpora tutta la pressione attivando lo spazio, così due parole divise da sè, però anche dalla libertà, perchè ogni parola è il proprio grido -che compenetra l'angelo, un sonno antropomorfo.._
"Io sonno", grazie alla grammatica, grazie molte (segno rosso): "Io sono".
Credo di non aver perso alcunchè (ma le strade, i palazzi, un cielo più alto, basso se teso sul mare, sul ponte: una tensione del lago, e poi forse le campane nelle orecchie, immagini vive/e/o/morte, le castagne, per figure e figure sul fondo e_
Si, ma non il Sonno, comunque. O l'Essere, se volete.
-No, non credo. (...)-
-Ci vorrà molto, penso, perchè ti passi (si struscia il naso - ode al pan tarei)-
-Vorrei parlarle ancora di Sonno. Oppure quella frase di Montaigne..com'era..-
(viltà di dialogare, si sono ancora invertite le parti)
Delle orecchie, già. Ci vorrebbero delle orecchie nuove.
A proposito di uno che conoscevo
Il latte alle ginocchia lui
lo sentiva quando s’abbassavano le veneziane
e la folla caciarona, tutt’intorno, si ritirava
schiumava via leggera, come dileguandosi
ai bordi. Allora nel suo petto si raggrumava
una fredda iperventilazione – sugli occhi
il clangore ineluttabile della cassaforte
blindata – la Vergine di Norimberga –
silenzio altissimo s’incuneava
come scheggia nichelata,
apriva un lacero immane, una balza a capofitto
che raggelava.
Era la claustrofobia
dell’immobile – una frangia
richiusa, il barattolo di vetro
senza fori sul suo capo di falena – il Battista
nel deserto, il gabbio di Sant’Anna squarciato
dai lampi, la particella di sodio
nell’acqua minerale.
Diffuso nelle alte orbite
l’SOS restava
inascoltato – nessuna radio
lo captava – il suo farfuglio
entrava da un orecchio ed usciva dall’altro.
«Non sono, come me stesso, ancora solo» ripeteva in quei casi
Poi, disperato, componeva svelto [ingannandosi.
il numero che solo lui sapeva.
«Guarda, mi spiace, ho qui l’esito
dell’esame» diceva lei, pietosa
sulla soglia. «E’ positivo».
L’esitazione durava il tempo di un’alzata di spalle.
«Vieni ed entra, attingi a mani basse» diceva lui. «Pazienza
per i T - helper».
A volte l’uggiosa compagnia del vuoto
fa più paura dell’immunodeficienza acquisita;
poter parlare solo con ceneri e ombre,
più della trascrittasi inversa – e il bisogno di carezze
vince sui femori il ribrezzo della toxoplasmosi.
L’incubo peggiore – sappiate –
può essere quello del soldato giapponese
abbandonato sull’atollo del Pacifico.
lo sentiva quando s’abbassavano le veneziane
e la folla caciarona, tutt’intorno, si ritirava
schiumava via leggera, come dileguandosi
ai bordi. Allora nel suo petto si raggrumava
una fredda iperventilazione – sugli occhi
il clangore ineluttabile della cassaforte
blindata – la Vergine di Norimberga –
silenzio altissimo s’incuneava
come scheggia nichelata,
apriva un lacero immane, una balza a capofitto
che raggelava.
Era la claustrofobia
dell’immobile – una frangia
richiusa, il barattolo di vetro
senza fori sul suo capo di falena – il Battista
nel deserto, il gabbio di Sant’Anna squarciato
dai lampi, la particella di sodio
nell’acqua minerale.
Diffuso nelle alte orbite
l’SOS restava
inascoltato – nessuna radio
lo captava – il suo farfuglio
entrava da un orecchio ed usciva dall’altro.
«Non sono, come me stesso, ancora solo» ripeteva in quei casi
Poi, disperato, componeva svelto [ingannandosi.
il numero che solo lui sapeva.
«Guarda, mi spiace, ho qui l’esito
dell’esame» diceva lei, pietosa
sulla soglia. «E’ positivo».
L’esitazione durava il tempo di un’alzata di spalle.
«Vieni ed entra, attingi a mani basse» diceva lui. «Pazienza
per i T - helper».
A volte l’uggiosa compagnia del vuoto
fa più paura dell’immunodeficienza acquisita;
poter parlare solo con ceneri e ombre,
più della trascrittasi inversa – e il bisogno di carezze
vince sui femori il ribrezzo della toxoplasmosi.
L’incubo peggiore – sappiate –
può essere quello del soldato giapponese
abbandonato sull’atollo del Pacifico.
venerdì 12 febbraio 2010
baco
Per cortesia, sarebbe il caso di smetterla. Lo sussurrano i tasti (muti) su cui affondo queste dita unte, sudate. Lo bisbigliano i pixel di questo monitor formicolando obbedienti; le palpebre pesanti, gli occhi affaticati, la testa ronzante.
Sarebbe proprio il caso di smetterla.
Crisalide perenne, nata marcia, il baco sgattaiolando nel bel mezzo di ogni metamorfosi.
Fossili prolettici, chimere futuribili incapsulate nell'ambra: una pioggia di dadi, e un vecchio che sbuffa. (Il baco al bar, con qualche falena.) Gentilissimi cristalli scintillanti, menzogne surgelate e verità imbalsamate. Apeiron di ricorsione, significativi barlumi di onniscienza – gorgoglii pregni di fascino. Le vite ad una ad una come perle su un filo di non senso; (Un altro po' di birra) e le parche miopi e un oltresciacallo sdentato. Ossa di mollica, briciole di tendini: strutture buone a seppellirsi da sole, automatiche, il segreto nel mordersi la coda. (Giù per la gola, solo; le farfalle, tutte morte. Pessima compagnia.)
Sarebbe proprio il caso di smetterla.
Crisalide perenne, nata marcia, il baco sgattaiolando nel bel mezzo di ogni metamorfosi.
Fossili prolettici, chimere futuribili incapsulate nell'ambra: una pioggia di dadi, e un vecchio che sbuffa. (Il baco al bar, con qualche falena.) Gentilissimi cristalli scintillanti, menzogne surgelate e verità imbalsamate. Apeiron di ricorsione, significativi barlumi di onniscienza – gorgoglii pregni di fascino. Le vite ad una ad una come perle su un filo di non senso; (Un altro po' di birra) e le parche miopi e un oltresciacallo sdentato. Ossa di mollica, briciole di tendini: strutture buone a seppellirsi da sole, automatiche, il segreto nel mordersi la coda. (Giù per la gola, solo; le farfalle, tutte morte. Pessima compagnia.)
lunedì 8 febbraio 2010
la presa
(di passo in passo, per la traccia
che possiedo, al fiato morto
di ogni strada detta, o cercata)
... e a cercare mi ripeto fin dove
il segno si interrompe, perché io
finisco se finiscono le orme,
le ombre in cui si allargano le vie;
proseguo a palmi su di te basta
che mi credi ma non chiedermi
di quelle nebbie più avanti o se
un gioco come il tempo basti
davvero al peso di un distacco
facciamo presto stasera, che sia
fra sterno e sterno di un dolore
alla radice del battere, e il calcare
delle cose in convulsione, o la stretta
distratta al battito di sempre, il vero
al vero che mi hai detto di cercare
cosa il respiro se non viscera
cosa riluce se non di beatitudine
ridata è un niente a finire
in una terra che ci sposta via
benedicimi di te se puoi:
dalle ossa alle ossa si è solo mani
di mani a mancare l'ultima presa,
un oscillare, occhi ed occhi
a ritenere il vuoto, alla caduta
che possiedo, al fiato morto
di ogni strada detta, o cercata)
... e a cercare mi ripeto fin dove
il segno si interrompe, perché io
finisco se finiscono le orme,
le ombre in cui si allargano le vie;
proseguo a palmi su di te basta
che mi credi ma non chiedermi
di quelle nebbie più avanti o se
un gioco come il tempo basti
davvero al peso di un distacco
facciamo presto stasera, che sia
fra sterno e sterno di un dolore
alla radice del battere, e il calcare
delle cose in convulsione, o la stretta
distratta al battito di sempre, il vero
al vero che mi hai detto di cercare
cosa il respiro se non viscera
cosa riluce se non di beatitudine
ridata è un niente a finire
in una terra che ci sposta via
benedicimi di te se puoi:
dalle ossa alle ossa si è solo mani
di mani a mancare l'ultima presa,
un oscillare, occhi ed occhi
a ritenere il vuoto, alla caduta
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Poliphilus
domenica 7 febbraio 2010
Supplizio
Un vecchio, abbandonate le speranze della vita, si affaccia alla finestra per stendere il bucato e reca con se una pesante bacinella ricolma di panni. Finita dopo penosa attività la preparazione del festone casalingo, un tenace colpo di vento strattona i maggiori tra i teli che, di conseguenza, fanno vibrare poderosamente il filo dello stenditoio e tutti i panni stesi, saltate le mollette, rovinano in basso, nella melma dell'orto. Il vecchio, che ha assistito alla scena, allora indossa un cappotto, scende le scale del palazzo, entra nel giardino e ricupera i teli. Poi, risalito, fa partire una nuova lavatrice con ancora gli stessi vestiti e lenzuola.
Accortosi che ormai è sopraggiunta la sera si prepara un brodino e si corica sognando mari in tempesta mentre in sottofondo risuona lo sciabordio del lavaggio dei panni.
Oh, Sisifo, demone dei pensionati, quanto ancora ti rode la futilità della tua arguzia di fronte la personificazione viziosa della vita?
Accortosi che ormai è sopraggiunta la sera si prepara un brodino e si corica sognando mari in tempesta mentre in sottofondo risuona lo sciabordio del lavaggio dei panni.
Oh, Sisifo, demone dei pensionati, quanto ancora ti rode la futilità della tua arguzia di fronte la personificazione viziosa della vita?
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