mercoledì 7 aprile 2010

29/03/2010


Cerco di vedere ancora il mosaico di Lenin che s'inclina
ad una stretta colpevole, un vecchio lascito; che l'arresto
stia in quell'altra parte del tempo, dove oscilla il tremore
dal pensiero che si stava o si è stati dove lo scoppio
ora è casto, dove la morte e quanto ne consegue
porta a deflettere o sparire:

perché ogni cosa deflagri dove il treno, dalla propria
unica origine di viscera, prende una forma che ripete
i vuoti e i pieni; l'odio per quei lampadari
e il ronzio stanco di vetri, i vagoni in cui passare
e le guardie coi fucili, o i brindisi spianati
di vodka al tavolo assieme a qualche stronzo
e poi via di nuovo, verso nuove ricevute:

nulla viene semplice, nulla dice da sé
che alla stazione della Lubyanka, proprio
due anni fa, in tempi non diversi
nulla potesse esplodere come il nulla
che ricorda ieri; che la Sokolnicheskaya
sia rossa o che si scenda a Loreto
che importa? Nei vestiboli è lo stesso giorno,
nei chador che rievocano il visto, il passaporto,

il blu sbiadito dei timbri; dopo un anno, un altro,
si è quasi là, mentre l'acconto dei viaggi
squassa la terra come le carrozze
sulle piattaforme alle sette e cinquanta
del mattino; due anni prima quattro
chili di tritolo revocano il testimone
delle corse da Yugo-Zapadnaya, partite
alla medesima ora, con le bende
allacciate alla chiusura delle porte,
fuori dal pendere di quel mezzanino
inerte, quasi come ciò che continua
ad irradiare i suoi tremiti di donna
dalla detonazione di Lubyanka.

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