sabato 5 settembre 2009

Trompe-l'œil

Sarò ingoiato dalle cose.

Questi scaffali molli, lubrici,
le mura chine
il marmo:
metabolizzato
dai loro umori sintetici,
disciolto
in sospensioni di schegge
e ore rapprese.

Già incede
tra le linee che si sgretolano
il trionfo delle cuspidi,
le grida
ed io,
e il vacillare delle sagome,
lo strazio dei ritagli
condannati al piano.

venerdì 4 settembre 2009

Grati ai gatti

E perciò il tiro, lo scoppio
la garza mite che annoda
e assolve - il timpano, un riflusso di cloro.
Ci basta il fondo, il tifone
spuntato in solaio - lo schianto
delle chiavi, nella toppa. Le città (se le finestre)
come onde di sale, il silicio impennato, le travi
- e non può scendere.

Il piombo vuole prima il punto euclideo, poi la carezza
di un vecchio - infine, sui laghi, distrutto - l'ammaraggio acceso
nel buio, la casa, la fame
annientata – non c'è tregua se chiudi gli occhi
e la stanza non vuole, si muove – se ogni cosa è viva
sulle zampe.
(Il patto è sceso qui, tra noi,
in punta di freni).

Perciò ora è una fine, da occhi
di murena: tutto ciò che passa
è buono – se non si ferma - non la velina
sulle colpe, la copia carbone del sangue
schiantato
– ma la scorciatoia delle pupille,
una tana di anguilla.

E allora, se le cose cadono, è per colpirci
come divinità cartesiane, un mulino
– poi Epicuro ride, ai bordi - e non smette
da quando è morto.

E' tanto triste: questi giorni, le funi, e nemmeno un gatto
che ci accompagni.

Erebo, Eros, Erine

Erebo, Eros, Erine

È solo l’ansia di doversi giustificare, di offrire al mondo Sorella Morte ma con un vestito così bello che la faccia apparire una Signora troppo magra e stilizzata, un tanto al chilo di Art Nouveau; modi affettati ha la Morte e strascichi di aulismi vetusti quale velo da Sposa.
Tutto ciò la rende cosa perfettissima e piacevole da assimilare, la plague, il bacio cieco e sanguinolento, introdotta da così alta eloquenza, libera, addirittura e sicuramente deresponsabilizza.
Così ci si ritrova a passeggiare tra lapidi Spoonriveriane, appena regalate all’italico orecchio provinciale, lontano dalla conoscenza mondana, dove Klimt indora nuovo, perfino.
Anche dove vuol essere dolore questa Morte non porta all’aldilà, le epigrafi assumono una monocromia che le relega a quel luogo, c’è fantasia nei nomi, nelle attitudini, nelle età. Non c’è fantasia, al contrario, nel come si abbandona The Hill (o la Rocca) che basta il nome ad evocarlo, tanto diverso non è, perché non la si lascia ed è dolcezza di ciliegie interiori, nell’estate dei polmoni bucati.
Poi c’è qualcuno che se la gioca a scacchi, ma non è detto che il vincitore altri non sia che lo sconfitto, dipende da cosa c’è in palio, bisognerebbe chiederlo a Bergman ma non era ammesso, lui, alla Rocca.
Ed è quello in fondo l’Ucciardone, il Monte Athos, la fortezza della Roccella, un limbo, il parcheggio delle anime prima del salto ogni tanto affacciati su uno Stige d’asfalto con un Caronte prebellico che traghetta le anime dei dannati violando le regole del mondo, talvolta, in un fugace salto nell’aldiquà.
Così rimane l’Erebo come rappresentazione di quello che sarà, il libro sulla morte dove la morte meno si sente, dove non avviene come una recisione dalla vita ma è data per scontata il sottotesto necessario perché fioriscano mitologia e teologia.
Uno su tre sopravvivrà. C’è qualcosa che suona inquietante nel numero perfetto, una roulette russa tra creature disgregate ed unite dalla stessa sorte, per quanto sia possibile accomunare il dolore, che è solitario per definizione, se non fregandolo con uno Shakespeare oratoriale o mitologia arcadica, tanto per gradire.
La resa non è annunciata, qui siamo oltre la resa, quasi un rammarico se non dovesse avvenire: che sia una resa al contrario, dunque.
E vivere la separazione come una colpa, l’addio alla condizione privilegiata di addolorato che apre vie nuove ma occlude l’unica nota.
Ma nessuno ha orecchio a capire la musica della propria esistenza e a fermarla al momento giusto.

Erebos, Eros, Erine

Marta è creatura mitologica, metà donna, metà icona, la rappresentazione della fugacità e della rilassatezza di vivere una storia senza implicazioni.
Lei la si ama perché è a tempo determinato gratuito, fa ribrezzo stringere tra le braccia un cadavere anzitempo ma lo si fa per sentirsi vivi e magnanimi una volta che i due colpi della roulette sono stati sparati e rimane necessariamente quello che andrà a vuoto.
Un amore che non è Amore, che è sensualmente afflato di malattia, dolciastro come il sangue, scosso dalla tosse, uno spasmo lunghissimo che squarcia i polmoni, che “è meglio morire amando”, almeno si ha la sensazione che il ricordo verrà perpetrato, l’alternativa sarebbe andarsene assieme ma Caronte non da quasi mai la doppia.
Amore, sempre che sia la verità, e, oltre al danno di quel cognome pesante, la beffa di doverlo tossire via per concessione d’aguzzino.
E poi c’è il rivale, anche tra i tisici succede, anche negli amori a scadenza, ma è la carne anziana, malata d’altra malattia che si interpone autorevolmente in questo valzer tra Montecchi e Capuleti da lazzaretto che tutto vorrebbero tranne che gli si acconsentissero le nozze.
È fuori che dovrebbero riuscire ad incoronasi amanti non nella Rocca, lì sta però il luogo dell’abbraccio, la stretta mortifera che arriva nell’ultimo afflato di vita: verso la Morte per l’una e Resurrezione per l’altro.
La stretta finale è la sciocca illusione di voler perpetrare la vita da un corpo ormai destinato alla decadenza che consentirsi d’amare non può far altro che accompagnare di là.
Sempre che, tutto questo fosse Amore e non una parentesi allo scorrersi della narrazione, tanto Eros e Thanatos sono abituati a sollazzarsi in lenzuola d’ombra tra le pagine scritte.
La seconda ipotesi fa troppo per imporsi, saccente, come al solito.
Così in una cabaletta di parole a memoria, com’era giusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti.

Erebos, Eros, Erine

Per ultima arriva la Vendetta cenciosa come un danse macabre, dicono che abbia sapore dolciastro, come sangue di polmoni, dicono che si appoggi dovunque: sugli stipiti delle porte, sulle lenzuola di una notte d’amore, sulle guance dei bambini, lei è Vendetta dai capelli di serpe e i denti di cagna.
E si dice di come la vendetta più subdola sia quella dell’untore, dell’appestatore, di colui che sanguina miasmi in luogo d’aria, di come si voglia ridiscendere alle altezze della vita attiva giusto per illividire di gelosia.
Si dice che ci fu un uomo che aveva un occhio solo, chiese come dono che tutti gli altri divenissero ciechi. Ma non si dice mai di come egli si sentì in colpa per essere l’unico a vederci ancora nella sua piccola compagnia di orbi.
Così l’unzione, la malattia come alibi al male, diventa tollerabile eticamente e addirittura ricercata, il grido veterotestamentario di muoia Sansone con tutti i Filistei riceve incarnazione qui, nella città sana, concava e pronta per accogliere uno sputo mortale.
Si dice che sia un lavoro da untore anche quello di voler notare a piè di pagina gli intenti di una lingua millimetrica ed altissima,quello di voler comandare le sinapsi di colui che si ferma a leggere queste epigrafi smemorate sul bordo della strada, vanamente illuso che non ricapiti quello che già in vita successe loro: essere dimenticati.
Era stata una debolezza del cuore che voleva educarsi a morire.

Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine, Erebo, Eros, Erine

mercoledì 2 settembre 2009

La ruggine

Com'è vero che
rotti i legamenti
iniziano a cadere braccia e gambe,

finita la cartilagine
tra i verbi, si inizia
a percepire
lo strofinio dei lemmi.

E si ritorna ad amare
i pettegolezzi dei cani.

martedì 1 settembre 2009

Cime di Bàres, mt. 1820 ca.

non so se le forme pervertono il silenzio

come lo fanno gli attraversamenti dei percorsi,

i sentieri e i loro accumuli di passi;


qui è una sospensione tornante di rocce

passate per i corridoi dei piedi; dicono

di postazioni collassate, di tracce identiche

a quel buio che una volta ha divelto le pietraie;


si percorre la costa tesa dalle piogge, nella conca

consumata dal viaggio che è ancora quello di ieri,

ripreso da verità indenni, da coalescenze

di frammenti nel processo che puntella ogni vallata:


è proprio qui che un dio ha digrignato il suo vuoto,

proteso alle foschie di Bàres, a lambire la distesa

fino a quando è rosso e si scollina; una striscia

uguale a queste pietre per poi sparire, sparire…

giovedì 27 agosto 2009

Lettera sull'estinzione dei dinosauri

Il led del videoregistratore, questa notte,
mi è sembrato un fantasma. Ora dinosauri a fascicoli
e miniature della X Fretensis – mai dipinte,
nonostante i buoni propositi – sono un invito transitorio
per le anime dei salvati. Ed è un miracolo
che le coperte fino al mento separino
i vivi e i morti - dove altrimenti le mani i piedi
nudi crescerebbero in numero – poi non basterebbe
la stanza.

Tutti abbiamo un materasso, e temiamo
si perda - tra colossi di scaglie e amianto
- nell'epopea scalza
delle orme - temiamo
soprattutto il freddo - come tutte le cose
nella clemenza del rifugio.

Vi dirò del sonno
che è una resina mesozoica
e la resa dei mobili, squamata - poi altro – un canale
della trachea, o una varietà
dell'estinzione.
Probabilmente, la fine di un'era geologica
- la processione di bestie enormi e tristi
e lente – i nostri unici amici – retrivi
e senza più un artiglio.

Dei dinosauri ricordiamo i volti di gorgone,
le corazze intatte - le mandrie curve
nel passaggio della fine. Da allora
sono racchiusi, tutti, in gemme d'ambra
- e capita tornino, soli tra i giganti
per far vacillare gli assi, e la terra.

(Un dinosauro è sempre il rovescio
di una testuggine, il terrore straordinario
che accresce i mansueti)

Le loro code di iguana
frustavano l'aria - ma così immense -
perchè la morte potesse, un giorno
trovarli ovunque.

Così il mercurio nel suo grado - le placche
blindate - e il giorno avanza
tra le pietre e la sabbia
e la mistica manichea, anche - negli spazi liberi
dove i nomi cedono per un pasto
e un passo di rettile sfonda
il torace delle ore.

martedì 25 agosto 2009

Necrologio del necrologio

Immagino che alcuni, qui, abbiano già letto questa cosa che ho scritto. D'altra parte, credo possa star qui. Non ingombra poi molto, e bisogna sempre parlare di libri, perché non si sa mai per quanto tempo li avremo ancora con noi.


La morte di Ivan Il'ic è un libro chirurgico. Il preferito, tra i miei Tolstoj. È la storia di un uomo che prima vive un po', e poi muore. Ivan Il'ic è un giudice istruttore: il funzionario, il mandarino, un immortale di carta. Forse, anche, è il personaggio secondario del romanzo russo. Non avrebbe sfigurato ad ammonire Dmitri Karamazov, a smazzar carte al tavolo con Cicikov. Queste creature muoiono, di solito, fuori scena. Come tutti noi. C'è qualcosa di gratuitamente feroce nell'inseguirlo con lo sguardo, mentre arrabbatta una vita elementare. Circumnavigare la tragedia, il viaggio dei semplici. L'infelicità coniugale la sopporta sordamente. Strepita con misura. La volontà di Ivan Il'ic è suturata: non ascolta sonate di Beethoven, del resto, e pare non abbia ucciso nessuno.
Una vita più vera che felice o infelice, e dunque tanto più incapace di recepire la morte: giacché non è esogena, la morte, non è la spada dell'ultimo atto o la vendetta degli usurai; solo il corpo che si sfarina, questa è la morte di Ivan Ili'c. Prende una botta a un fianco, e così risveglia il gemello, il parassita. Si sdoppia, l'uomo vivo e l'uomo morto. Finché resta solo l'uomo morto. La morte di Ivan Ili'c si proclama fin dal titolo. Eppure, nessuno sa nulla. Ivan Ili'c meno di tutti. Così ritorna, strisciando, la tragedia, una vita comune diventa contabilità edipica, progressione aritmetica dell'errore, fino alla catastrofe. Se avesse saputo, avrebbe avuto, Ivan Il'ic il suo nome, una moglie, una forma narrabile? E tu, hypocrite lecteur?
Il libro di Tolstoj è entomologia, un documentario fotografico sulla metamorfosi: la morte che rompe la crisalide della congettura – Caio è mortale – e si posa su Ivan Ili'c. Che la sente, e scaccia i propri familiari. Non è possibile, infatti, alcun discorso tra chi vive e chi muore, solo i morti possono seppellire i propri morti. Non sorprende che l'unico testimone del morire di Ivan Ili'c sia il servo contadino, egli sì, un'anima morta, il prototipo dell'uomo che sa, e quindi l'uomo retroverso, fatto coi rimasugli della fine. Grida per tre giorni, Ivan Ili'c: ogni morte è un assassinio, scriveva Bufalino, e chi non grida è complice.
E poi, il finale. Definirlo edificante, una consolazione, un'agiografia, sarebbe carità bieca, sbrigativa. È facile pensare a Goethe – più luce! - ma è così corporea la luce di Ivan Il'ic, così un'implosione dell'iride. Oppure, dolce sollievo nell'ora in cui si muore: ma il suo commiato dal dolore non è quello di Tamerlano, Ivan Il'ic non si accommiata dalla memoria, ma dalla presenza. Nemmeno la risata di Epicuro, ma solo la tormentosa, spiazzante assenza della morte dalle ultime righe – e la morte? Dov'è? Ecco l'ultimo rintocco: perché ne La morte di Ivan Il'ic non c'è tanto la morte di Ivan Il'ic, quanto la sconfitta della vita, così disarmata di strumenti narrativi, metafore, sillogismi di fronte alla morte. Così incompiuta da finire un attimo prima. Non è un caso che muoia, costui, a metà di un respiro.

lunedì 10 agosto 2009

Conviv(i)o

Non i rostri avvelenati dal pianto, non le ombre i chiostri
dei conventi – ma le nevi immobili, le gambe dei vivi, i minuscoli animali
che abitano le nostre stanze

e dalle edere i morti – accorciati e acquatici - ricomposti
dalle fionde ai minerali
il loro equivoco, i lanci pregressi e il tempo a scacchi
nei corridoi
- questo secolo e questo balcone, in mezzo alle strade
fuori.

Nei colli di bottiglia
liquidi, atterriti
uno strabismo di luci
- il mondo fasciato dalle acque
fluviale, nei vetri del riposo

Perciò abbiamo fortezze e solitudini
squilli di tromba
per chiudere i primi cassetti, all'alba, con il solito gesto
nell'aria di pioggia
che sprigiona i reduci

I venti ci troveranno, rapidi – e così le voci,
il soffio del cannone
come un sonno
nel fondo di ghisa, dove tutte le creature dormono
grazie a dio

Poi l'attesa
che avvicina ai morti – le alghe sommerse
i cetacei immensi – la loro supplica
profonda e bassa
sotto i nostri bastioni

ma da settentrione, vi dico, verranno i Tartari
e le grandi piogge, e l'alluvione.

domenica 9 agosto 2009

Farsi degli amici

È il titolo di un autoritratto di Savinio. Le Meditazioni di Kafka, il libro del ’19, sono dedicate a M.B., Max Brod, l’amico che ne pubblicherà gli scritti dopo la morte. Nelle sue interviste Borges parla degli amici di gioventù e si diverte col suo consueto paradosso per cui tutti gli uomini non sono che un solo uomo. La solitudine è l’attributo del Dio Greco, ricorda da qualche parte Savinio. Di lui e di Jorge Luis, Sciascia dice che hanno in comune di coltivare la letteratura come fosse un discorso tra amici, fatto a voce. E c’è lo scivolare, tanto di Kafka quanto di Nivasio Dolcemare, costante dall’ “io” all’ “egli” e viceversa. Nelle meditazioni kafkiane, nelle interviste borgesiane, nella autobiografia metafisica di De Chirico-Savinio, il fatto concreto, quotidiano, naturale, sembra il modo di parlare in maniera non astratta di quello di comune che questo nasconde, ancorarsi al fatto per mostrarne l’ombra. Cos’è questo primo Novecento che ribalta la malattia romantica, il chinarsi sui propri tramonti ? Sembra suggerire, così, uno sberleffo, che Farsi degli amici è il risvolto della solitudine, che l’essere soli è quanto ci accomuna. Pensavo così andando in macchina a Prato, parlandone con mia mamma, e poi l’ho ripetuto su messenger a una Livia perfetta sconosciuta, e anche a voi ne parlerei a voce o equivalente, ma nella confusione e nel groviglio, come non mi son spiegato a loro, non mi spiegherei.

sabato 1 agosto 2009

Ho cuore chiarissimo, amici

La Viola ha cominciato a frequentare l’oratorio, non della nostra parrocchia, di Santa Croce, dove già andavano due sue amiche delle medie. Mia nonna Lidia, al telefono si preoccupa invano, e chissà dove pesca certe idee, di una sua crisi mistica… Ma si sa, le femmine patrizzano. Mia madre, invece, ragazzina era molto più fissata con la chiesa, o così nei suoi racconti. Non è difficile crederle, romantica com’è. Domenica invece, al posto delle chiese, ci tocca l’annuale riunione coi parenti di mio padre. Dice che sarà compito vostro mantenere i rapporti coi parenti, sono gli unici che avete, o i più vicini. Per ora i rapporti felicemente s’esplicano nell’abbuffarsi di prosciutto e piada, annaffiati a Sangiovese, secondo il detto dello spirito di Epicuro reincarnatosi, io credo, lungo la costa da Cattolica a Rimini, e poi su a Forlì a Cesena, fino a farsi più rigido, quasi accademico, a Bologna.

Il bollito di Guna Leuche

Il settimo giorno del mese, il signor Leuche, Guna Leuche, impiegato in tubature, si svegliò nel suo letto. Sveglio nel suo letto indossando il pigiama che s'era abbottonato la sera prima. Nel suo letto con indosso il pigiama e una morbida pelliccia bianca. Nel suo pigiama indossando una morbida pelliccia bianca e stropicciando un dolce musetto da coniglio.
A differenza di quel che pensate voi, la cosa è degna di essere riportata poiché il signor Leuche non era un maniaco che la notte si coricava indossando costumi perversi. Il signor Leuche s'era effettivamente trasformato in un coniglio.
Subito l'animale si divincolò dalle vesti oramai inadatte e saltò sulla sedia messa ai piedi del letto, di dove penzolavano un paio di pantaloni e qualche camicia. Il signor Leuche controllò dunque se era vero che i conigli avessero una zona preclusa alla vista innanzi al naso.
Era vero.
Fermo sulla sedia, avvoltolandosi in una delle sue camicie, Guna Leuche affrontava la situazione con insospettata tranquillità. Aveva letto un libro riguardo una situazione somigliante, tempo prima, e d'allora s'aspettava un suo possibile coinvolgimento in una vicenda simile.
Lo stesso non si può dire della donna delle pulizie che trasalì alla vista del coniglio quando entrò nella stanza alle undici e venti circa.
“Non si preoccupi signorina Sorgo, non si preoccupi, si calmi! - esclamò l'uomoniglio – Sono io, il signor Guna, non mi riconosce?”
“Oh, signor Guna, m'ha fatto prendere un bello spavento, sa? Adesso però mi deve fare il favore di scendere dalla sedia, che devo rassettare.”
Guna Leuche fece come gli veniva così cortesemente chiesto e scese dalla sedia. Anzi, fattosi passare un cappello dall'attaccapanni se ne uscì addirittura dalla stanza e andatosene in messo alla strada si mise sornionamente a passeggiare osservando curioso le cose dal suo nuovo punto di vista conigliuto.
“Oh, ma guarda un po', il portiere ha i pantaloni bucati in mezzo alle gambe... Oh, ma guarda un po', il giornalaio in realtà indossa scarpe di un diverso colore... Oh, ma guarda un po' – pensava – il salumiere tiene i capperi direttamente a terra...”
Dopo un po' che gironzolava, Guna Leuche incontrò il suo amico Malacase al quale raccontò divertitp della sua situazione.
Malacase prese allora in braccio Guna Leuche e corse a far vedere la cosa a tutto il circondario: al fruttivendolo, al tabbachino, al lampionaro, alle comari, al pollaiuolo, ai tre portieri dei caseggiati, a tutti i suoi amici e conoscenti che lì abitavano e anche ai pensionati del circolo sociale che avevano piazzato lì sette anni prima.
Si stabilì che se Guna Leuche adesso era un coniglio non aveva più senso trattarlo come una persona, che le sue cose andavano ridistribuite e riassegnate e che anche egli stesso andava ridistribuito e riassegnato, magari alla cacciatora, ma si sarebbero accontentati anche di un bollito con patate.
Rumorosamente Guna Leuche fu portato in tribunale. Ecco un estratto della difesa:
“Il signor Leuche, fino alla scorsa giornata impiegato nelle tubature, ha da sempre svolto un lavro apprezzato e ben eseguito all'interno della nostra comunità. Intratteneva anche numerose relazioni sociali nonostante fosse vedovo ormai da diciassette anni, giovando all'allegria della gete ed alla sua produttività. Il venerdì mi ricordano che rispettava sempre il suo turno di colletta per i vecchi del settimo piano. Inoltre, anche se avvolto adesso da una morbida pelliccia bianca, il signor Leuche non ha perso il suo spirito, come ha dimostrato con le sue simpatiche battute durante il giuramento sulle quali anche la corte ha riso amabilmente.Inoltre, tra pochi giorni sarebbe andato in pensione, il signor Leuche, e se ora è impossibilitato a svolgere il suo lavoro tra due settimane non sarebbe comunque più stato tenuto a farlo. La difesa chiede dunque che il signor Guna Leuche, il quale non certo per sua scelta è diventato coniglio, sia assegnato come mascotte del circolo per i pensionati del suo quartiere.”
La difesa fu molto toccante, tanto che tutto il pubblico che assisteva all'appello si mise commosso a singhiozzare, poi commosso a protestare ed inveire ed infine commosso a picchiare le guardie all'interno dell'aula tra urla molto alte e sempre molto commosse.
L'aula fu fatta sgombrare e dentro rimasero solo i pubblici ministeri e Guna Leuche, che come è ovvio che sia fu poi portato nelle cucine del tribunale e servito bollito con le patate alle sette e mezza in punto.

venerdì 31 luglio 2009

Il vento di Meteomicrone

Caro Aristandro, in questo momento se la persona che più sento vicina, l'unica a cui potrei indirizzare questa lettera.
È un momento molto difficile, il mio, desidero metterti a conoscenza di un segreto che mi porto dietro da molti anni ormai, e che da qualche giorno mi causa particolari e gravissimi problemi. Ti prego dunque di leggere questa mia lettera con la dovuta attenzione.
Devi sapere, caro Aristandro, che i miei piriti bucano i tessuti. È esattamente così, sicuramente non te ne sarai accorto poiché ho avuto molta cura di tenere la cosa nascosta, soprattutto alle persone che più mi stavano a cuore. Non ho dubbi che la cosa possa tuttavia risultarti assai strana, per cui procederò per gradi, ti narrerò innanzitutto di come si manifestò la prima volta in me questa particolarità, poni attenzione.
Ero allora giovane di sedici anni, l'età ormai definibile come lontana quando il primo avanzare dei veri sentimenti li rende imprevedibili, esotici e possenti come le mandrie che corrono in quelle lontane praterie di cui già parlammo talvolta. Anche io, per l'appunto, ero stato travolto dalla carica di queste tenaci emozioni e mi azzardavo per la prima volta a placarle portandole a dissetarsi a quell'abbeveratoio che doveva essere Pressimene, mia dolce amica già dalla tenera infanzia. Avendola dunque già frequentata da parecchio tempo ed essendo molto in confidenza con lei presi rapidamente la decisione ed essendo anche piuttosto, per l'età, inesperto nel daffarsi, decisi parimenti di non perdermi troppo nei corteggiamenti e di presentarmi celere alla fanciulla nella mia vera forma di desiderio.
Ora, quando anche tu certamente ti sarai ritrovato a manifestare per la prima volta il tuo desiderio all'oggetto tuo, ricorderai come avviene una grande emozione, quasi un groppo di varie tonnellate posato sulla schiena che impedisce molto facilmente di spiccicare parola. Ecco, io riuscii a superar l'ostacolo e le cominciai a parlare come ero solito fare, tuttavia mantenendo sia gli intenti che le difficoltà. Ad un certo punto del discorso, mentre sto per decidermi a sbrogliare il nodo, per la forte apprensione veloce ma silenzioso mi sfugge un pirito. Eravamo all'aperto e si passeggiava lungo un vialetto di campagna abbastanza solitario dunque non mi preoccupai più di tanto della cosa, anche perché ero molto concentrato sulle parole da dire quando, per seguire il moto di un uccello in volo, Pressimene si volta indietro e con sorpresa osserva che per terra, dietro di noi, ci sono dei brandelli di stoffa ove poco prima v'era solo polverosa ghiaia!
Non c'è bisogno che t'interroghi, erano si stoffe provenienti dai miei pantaloni, e non ci volle molto perché Pressimene se ne accorgesse, con mia grande sorpresa e ancor mia più grande angoscia. Non ti racconto nei dettagli i momenti successivi, poiché provo ancora una grande vergogna nel ricordarli. Ti basti sapere che da quel giorno ogni mia flatulenza mi è costata un ricambio di biancheria.
Col tempo, già prima di conoscerti, imparai a studiare la frequenza di queste fuoriuscite, la loro aggressività nei confronti dei diversi tessuti e pian piano riuscii ad adattarmi alla cosa. Devi sapere dunque che io sono ben più magro di come mi conosci, poiché indosso infatti costantemente sette mutandoni di lana invernale sotto i pantaloni, e ciò è causa anche di quei “problemi miei di abbondante sudorazione” di cui spesso sono stato costretto a raccontarti mentendo. Non prendermi adesso come un bugiardo degno di disprezzo, era in fondo una cosa piuttosto imbarazzante ed effettivamente non necessaria alla nostra frequentazione. In ogni caso desidero chiederti scusa, anche perché ora vorrei chiudere questa premessa che va dilungandosi anche troppo cascandomi giù da gradini stilistici.
Dopo la spiacevole vicenda avuta con Pressimene non provai più ad avere relazioni approfondite con coloro verso cui nutrivo interesse, un po' per paura ed un po' perché ero preoccupato maggiormente dal problema dei buchi, alla fine mi ritrovai abituato alla situazione mia solitaria. Due giorni fa, in mattinata, mi ritrovai tuttavia ad un appuntamento con una donna molto simpatica da me conosciuta in teatro. Difficilmente potrai conoscerla, si chiama Esticontrona e talvolta recita per diletto in quelle commediuole che gli attori di scarso successo fanno interpretare per mangiare persino ad attori non professionisti come lei. A dire il vero non era la prima volta che mi vedevo con questa signorina, ma era accaduto sempre assieme ad altre persone e da pate mia non v'era mai stato un particolare interesse nei suoi confronti, almeno fino a quando, tre giorni fa, non ricevetti un invito da parte di Esticontrona per vederci, noi due da soli, in mattinata per prendere un caffè, farsi una passeggiata e, soprattutto, farsi quattro chiacchiere e divertirsi un po'. Nonostante non ci fosse nulla di particolarmente sconvolgente fui turbato parecchio da quell'invito (come avrai intuito il mio animo non è abituato affatto nel trovarsi solo al cospetto di una ragazza) e tuttavia accettai, non riuscendo per la restante parte del giorno a far altro che pensieri sempre più approfonditi su Esticontrona, tanto che arrivai all'appuntamento della mattina successiva molto teso ed agitato, indubbiamente pieno d'emozioni.
E ora capisco, ahimè, la causa del mio male! Appena cerca di parlare di qualcosa con Esticontrona eco prorompere dal basso della mia schiena un fragoroso rumore come tuono di temporale, e non come la prima volta, ma stavolta molto intensamente, sento i sette mutandoni di lana e i pantaloni strapparsi uno ad uno come si sfracellano i pontili posti dentro a un nubifragio! Non ho mai vissuto una vergogna simile, fu come se quell'attimo durasse ore, come se il rumore rimbombasse e si riproducesse con echi, ed alla fine eccomi lì, al centro della via di fronte al bar più frequentato con i pantaloni e sette mutande di lana sbrindellate e penzolanti, con ogni singola pupilla puntata su di me!
Anche Esticondrona mi guardava con il viso deformato dallo sgomento, ma subito, sia maledetto il suo essere uno spirito felice, essa non resistette al proprio animo e dalla deformazione dello stupore passò allo stupore della risata ed assieme a lei il viale intero. Fuggii e da quella mattina sono due giorni che sono chiuso in casa senza uscire né vedere nessuno, solo con le mie flatulenze che ora non smettono un solo istante di rumoreggiare tempestosamente. Già quattro volte i vicini sono venuti a bussare curiosi ed io li ho scacciati via malamente, accompagnato dal solito e orribile rombo.
Ora mi ritrovo a scriverti questa mia, Aristandro, perché ho bisogno di prendere una decisione. Aspetterò il prossimo passaggio dei vicini e chiederò loro di imbucare per me questa lettera, dopodiché andrò ad appendere una delle robuste corde che tengo in casa alla trave del mio soffitto e mediterò se sia o meno il caso di porre fine a questa mia sfortunata e ventilata vita. Ti prego dunque, quando avrai ricevuto e letto questa mia missiva, di porre pausa ai tuoi affari e precipitarti qui da me. Se mi sarò cascato giù con la corda appeso, avrò bisogno di qualcuno che mi tiri giù e mi organizzi un modesto funerale, e vorrei chiedere a te d'assumerti questo spiacevole onere. Se invece avrò giudicato cattiva questa idea che ora vengo d' illustrarti, avrò probabilmente bisogno di qualcuno che mi consoli e che mi tenga compagnia recando con se un paio di damigiane di quel buon vino che tu conosci tanto bene.

Grazie,

Tuo Meteomicrone.

giovedì 30 luglio 2009

La pelle dipinta (variazioni su un tema di Pu Songling)

A Taiyuan viveva un uomo chiamato Wang. Una mattina stava passeggiando quando incontrò una giovane donna con un fagotto in mano che camminava di fretta, da sola, sulla strada. Dato che si muoveva con una certa difficoltà, Wang accelerò il passo e riuscì a raggiungerla. Scoprì che era una bella ragazza, di circa sedici anni.

Ai racconti popolari
dobbiamo un tributo:
ci nascondono i vasi da notte
e le risposte, follie.
Ma delle pietre
fanno orologi, dighe;
del sangue, mattini.

Il tuo consiglio è blando,
cauto perorare
"con le ginocchia della mente inchine"
scandagli un vago approdare,
ti dividi in aria.

Guardando dalla finestra della biblioteca, Wang vide un demone terribile, con la faccia verde e i denti affilati, tendere una pelle umana sopra il letto e dipingerla con un pennello. Il demone infine buttò via il pennello, scosse la pelle e se la mise sulle spalle come se fosse un cappotto, ed ecco! Era proprio lui, la ragazza.

Del tuo itinerario
salvo tutto, fuorché il Tempo:
i tuoi secoli non hanno peso,
nè fronde. E' una forma
la tua lanterna, il tuo amuleto,
aria divina.

La ragazza fece a pezzi lo scacciamosche, sfondò la porta e corse verso il letto, dove squartò Wang e ne estrasse il cuore pulsante, con il quale se ne andò. La moglie si mise ad urlare, ed entrarono i servi con una candela; ma Wang era già morto e la sua carcassa costituiva il più miserevole degli spettacoli. Il sangue schizzava ovunque dalla cavità nel suo petto.

Ed è con un lancio di monete
di bronzo, con le ossa di tartaruga
che i tuoi vaticini sospirano,
piovono enigmi e il sogno non collima
si perde, come uno spillo.

domenica 19 luglio 2009

La grattugia di Turi Zampene

Prosegue

Quando questa mattina mi sono svegliato ho subito sentito suonare alla porta. Le malelingue potrebbero asserire che invece io mi sia svegliato proprio perché stava suonando la porta, e che non fosse mattina, ma fossero passate già le quattro del pomeriggio e anche, potrebbero asserire, che quel poveretto che suonava fosse stato li ad aspettare più di mezz'ora. Ma non è vero. In primo luogo, questa gente a cui piace tanto parlare è solita far terminare la mattina alle undici, mentre tutti sanno che essa è di molto più larghi confini. In secondo luogo, colui che suonava dietro la porta non era affatto un poveretto. Era invece Turi Zampene, che la gran parte di voi sicuramente avrà avuto modo di conoscere in qualche sgradevole occasione. Quest'uomo, che si diletta nel commercio dei salumi, dicevo, mi aspettava dietro la porta, e quando gli aprii ancora lo trovai a suonare mollemente il campanello con aria vagamente annoiata.
“Che ti succede, Turi? - gli chiesi, vedendo che sulle spalle portava uno zaino dalle dimensioni abbastanza preoccupanti.
Zampene si aggiustò i capelli e si fece accomodare nell'ingresso.
“Oh, Aristandro, nulla di che... passavo.
Turi, che conobbi all'età di ventisette anni, è un uomo infido. Dopo che gli ebbi aperto la porta e lo ebbi fatto accomodare in casa mia si tolse il suo grosso zaino dalle spalle e, posatolo a terra, ne estrasse una grande forma di parmigiano ed un certo numero di grattugie.
Turi era un uomo pratico, si arrotolò le maniche della camicia, si prese una sedia e vi si sedette sopra, mentre dalla porta ancora aperta entravano suoi uomini recando carriole e formaggi. Gli uomini entravano, depositavano le forme e riuscivano, portandosi dietro le carriole. Uno di questi si tirò via anche le tende. In tutto questo Turi si adoperava per grattugiare tutti i formaggi che gli venivano portati e mentre grattugiava sudava e i lunghi capelli gli ricadevano dalle spalle davanti gli occhi.
Fuori dalle finestre, in strada, un inopportuno gruppo di giovanotti cantava i cori dell'armata rossa e ben presto Zampene si accodò con grande spirito, sempre continuando a grattugiare.
Mi resi conto che non potevo oppormi alla situazione e me ne andai in cucina, pensando a quanto fossi fortunato a non essere amico di Turi Zampene.
Sul tavolo della cucina erano casualmente posati dei fogli e mi venne voglia di scrivere, ma non trovavo nessuna penna. È una cosa che di solito mi irrita molto, ma lì per lì non me la presi, anzi, andai anche ad aprire il frigorifero sorridendo e facendo qualche battuta sorniona sugli avvocati.
Ora, qui tuttavia ho delle difficoltà a continuare. Del resto , chi non ne avrebbe se, mentre si sta cercando una penna a sfera si vede del parmigiano grattugiato entrare lentamente dalla porta della stanza? Fu quello che vidi io. Era Turi, che in salotto aveva continuato a grattugiare formaggio e che ne grattugiava ancora adesso, ridendo come un folle. Solo, non aveva ancora toccato la forma di parmigiano tirata fuori dallo zaino.
“Turi! Turi, santo cielo! - esclamai mentre avanzavo per il salone ormai totalmente ricoperto di grattugiato – Turi, mi dispiace molto ma debbo lasciarti, tornerò più tardi.
Indossai il cappotto ed ero indeciso se portarmi o meno anche il bastone, ma una risata di Zampene mi risolse e presi con me quello sormontato dalla testa di un caprone. Mentre ero impegnato a salutare sotto l'arco della porta, venni urtato da uno degli uomini di Zampene che usciva con la carriola e fu una fortuna, perché ero molto imbarazzato.

venerdì 10 luglio 2009

L'ho vista spegnersi

L'ho vista spegnersi, mai avrei creduto che dopo tale vista, ancora fosse possibile fermare tale scempio, forse non sarò un letterato, uno scriteriato o un curiato, ma sicuramente sono uno smagliato, vuoi per il peso del tempo, chi dice per il peso del corpo, ma ne sono convinto, nulla dopo quello a cui ho assistito, mi apparirà come prima.

Era le 23 circa, io ed il mio migliore amico immaginario vivente che abbia mai conosciuto (da ora in poi maivcamc), stavamo ripetendo un pò di inglese (in quanto saremmo partiti per un viaggio immaginario alla volta del Giappone, e mai avremmo voluto farci trovare impreparati a tale evenienza), imponendoci di parlare solo nella lingua di albione quando qualcosa attirò la nostra attenzione, un articolo su wikipedia che parlava del meteorismo.
Avemmo la folgorazione, applicare il meteorismo di cui soffriva da quel momento maivcamc ed applicarlo ad un accendino d'oro (quelli di plastica non li prendemmo in considerazione, perché maivcamc ne aveva una strana fobia, del tipo "ti mangiano gli occhi!"), quindi aprii leggermente la cerniera della mia tasc segreta nascosta nei boxer (altra cosa strana di maivcamc era l'allergia alla forma delle mutande) dove nascondevo l'accendino di oro (non era d'oro, ma del mio amico oro sfaceli, ma tanto cosa ne capisce maivcamc!), lo presi, lo accesi e maivcamc fece partire il colpo sacro del meteorismo delta (quello alpha era poco potente, il beta fu presto abbandonato a favore del delta, il gamma era troppo poco sperimentato per esserne sicuri, ci limitammo quindi).

Ho aperto gli occhi, non ho scampo.

giovedì 9 luglio 2009

verso il cadere

io ci credo ancora
a questo domani di polveri
e pietra, accolto nel suo cigolio di mani
fra le colpe dei fossili, nei denti
che hanno il volto del buio
(barbagli di voce, nomi
disseccati

ritrovati d’ istanti
a scomparsa, imminenze
e correnti, trincee di cielo
e diamanti di case)

solo porte d’inverno, più avanti;
mascelle d’asfalto dai parafanghi
d’acciaio (non immane rugiada,
non bagliori di rame)

ripenso agli odori, alla foga
di quei passaggi ad ossa nude,
se siamo schegge di muro
fra le finestre e nient’altro

(è tutto vero, ma l’ombra è ancora lunga,
ed è troppo questo crinale
per dire
che la colpa è
il vento)

domenica 5 luglio 2009

#12

Mentre la carcassa del giullare rinverdiva le ginestre per cinque minuti, le attese dei folletti e degli gnomi si allungavano di qualche manciata di vite.
La nonna raccontava che ogni angstrom del suo corpo era ricoperto di macchie, ma a me interessava poco.
A breve sarebbe cominciato il cartone animato dei Pokémon, e l'emozione era tanta che avrei dovuto chiamare un compagno di classe per cantare la sigla.
Durante i titoli di coda, dieci anni dopo, stavo accarezzando la mia cagnolina invecchiata, mangiavo le fragole di bosco della casa di montagna mentre quella correva intorno, e ansimava così forte che mi sono ritrovato al funerale di mia nonna, la dalmata, a consolare la sorella che mi singhiozza sulla spalla.
Quante volte sono fiorite e sfiorite le ginestre, da quando il sudore mi incollava la cornetta all'orecchio, in un apice di entusiasmo che presagiva un futuro di sconfitte?
Di fiori così brutti mi interessa così tanto... eppure, le maglie offuscate registrano qualcosa: un Pinocchio di 16 metri, conficcato nell'asola del gilet della memoria, i cui taschini sono pieni di canzoncine e il cui colore, cangiante, mi inganna da secoli.
E questo cane, che non è ancora morto, ha già un suo epitaffio, e mi chiedo se sia poi così sbagliato:
Morta Dorina è qui: l'irata Dea
La trafisse de' boschi, a sdegno mossa
Perchè in beltade i cani suoi vincea.
Ma l'ora si fa tarda, e non posso certo perdermi la puntata in cui Ash deve dare l'addio a Butterfree ed è così commovente quando piange e sorride guardando verso l'orizzonte, al tramonto.

Antilogia dell'attrito

Si potrebbe dire
"nel ventre del convivio"
un ospite: l'angelo di ferro
templi amati - materia - crocifigge;

seguendo la fase
di coibentazione delle assi
crescono agli innesti i sedimenti,
le schegge eretiche, chiodi

superstiti madri
si guardano, inermi
spezzano antenne, e cablaggi,
nelle ultime notti

(noi caduti, a ogni nuova luna)

il sacrificio
a Penelope: in ordine,
sorda e sconfitta,
poliandrofaga muta,
tarantata - salvezza -
tremante subisce

Palinsesti. E il Suo brando
in apologo, ad misericordiam!

linea alba

Seigneur, quant froide est la prairie,

dopo aver visto mirande cose passare

dalle campagne elettorali, alle stazioni

inerti sotto ai treni, agli stabili deserti,

balneari (disobbedienza alla produzione

di segni, all’emissione vacanziera):


un problema di mensure, uno sgomento

differente, flesso all’occasione divisoria;

il cartongesso alle corde, in colonna

assieme alle prenotazioni, oltre

l’apparente garbo delle cose:


si mette mano alle danze, alla differita del passo;

ci si nutre di scorci, sugli stipiti

in fuga dai paesaggi rovesciati,

discesi dai disordini dell’aria:


usciamo sempre attraverso i vetri, sugli svolazzi di buio,

nuotando protesi allo scatto, vòlti al sudario che tempra quest’aria;

siamo l'odore delle chiavi di casa, sopra un confine a specchio

(o chissà dove):


oggi lasciate andare le lacrime

cadute, ghermite dall'utero del tempo,

sull'indugio di rampicanti inadatti:


si scrostano le serrande abbassate, sugli orizzonti dopo, sotto i ritratti:

vibratile inerzia questa veglia, presenze del mattino.

Zur Seinsfrage

Capita che i morti tornino, come un'inondazione. Li si vede allora sbucare dalle campagne, dalle acque, dalle lunghe ombre attorno alle strade. Hanno braccia e mani affilatissime, un collo sbilenco e, proprio sotto lo sterno, tre o quattro tasche scucite. Hanno, a dir la verità, anche un paio di gambe e certi altri dettagli, ma comunque pochissimo di umano. Non ci somigliano. Ricordano, piuttosto, la sagoma sottile dei lampioni, e come i lampioni hanno un alone stanco, e un'aria rassegnata, e un ordine segreto. A volte svaniscono dopo qualche passo appena. Altre volte, invece, continuano il cammino, si radunano in antichissime sale, negli atri ciechi delle scuole, attorno ai davanzali, nei nostri corridoi.
Si dispongono in cerchio e poi convergono, uniti, fino a schiacciare le direzioni. Quando sono tutti premuti nello stesso luogo si intersecano, si sovrappongono, e alla fine non si distinguono più l'uno dall'altro. Così, raccolti, sembrano reggere ogni spazio, incrociare i marciapiedi infiniti, la luce dei fari, le discese ripidissime e tutte le curve. Abbinano gli oggetti, li combinano, saldano un punto di fuga. Io non conosco, però, le loro formule, i loro codici. Né so dirvi che altro accade.
E' possibile che i morti abbiano un mestiere, e che ritornino proprio per questo. Che a un certo punto siano scossi dal sonno per un'anomalia dei ponti, perché i nessi resistono a fatica. Il mondo si incrina, le cose sfumano, tutto diventa vapore. E allora vengono i morti, come un vento gelido, e salvano la logica, riallacciano i legami. Arrivano alle cose -a tutte le cose- e le prosciugano. Quando ritornano il mondo si fa sottile, i volumi evaporano, i lampioni si accartocciano, le strade si stringono ed io divento un poco più triste.

Vedete, io non dormo molto, e così mi è successo. Mi è successo di avvistare i morti, a piccoli gruppi, e spesso ho temuto di vederli entrare dalla finestra aperta, lentissimi, in processione. A quel punto mi sono sempre addormentato.
Per questo motivo ho una mia teoria, su di loro. Io credo che i morti accerchino le nostre stanze, i nostri letti. Viene un momento in cui tutto sta per crollare, e allora salgono dalle piastrelle, calano dal soffitto, come un sonno sconfinato. Ed è questo che fanno: chiudono i minuti, aggiustano le valvole esplose del sonno.

A volte, di notte, si sente come un canto, un inno infuso nelle pareti. Io vi dico che questo canto è il canto dei morti e che, se fate attenzione, lungo certe ore, potrete sentirlo anche voi.