venerdì 31 luglio 2009

Il vento di Meteomicrone

Caro Aristandro, in questo momento se la persona che più sento vicina, l'unica a cui potrei indirizzare questa lettera.
È un momento molto difficile, il mio, desidero metterti a conoscenza di un segreto che mi porto dietro da molti anni ormai, e che da qualche giorno mi causa particolari e gravissimi problemi. Ti prego dunque di leggere questa mia lettera con la dovuta attenzione.
Devi sapere, caro Aristandro, che i miei piriti bucano i tessuti. È esattamente così, sicuramente non te ne sarai accorto poiché ho avuto molta cura di tenere la cosa nascosta, soprattutto alle persone che più mi stavano a cuore. Non ho dubbi che la cosa possa tuttavia risultarti assai strana, per cui procederò per gradi, ti narrerò innanzitutto di come si manifestò la prima volta in me questa particolarità, poni attenzione.
Ero allora giovane di sedici anni, l'età ormai definibile come lontana quando il primo avanzare dei veri sentimenti li rende imprevedibili, esotici e possenti come le mandrie che corrono in quelle lontane praterie di cui già parlammo talvolta. Anche io, per l'appunto, ero stato travolto dalla carica di queste tenaci emozioni e mi azzardavo per la prima volta a placarle portandole a dissetarsi a quell'abbeveratoio che doveva essere Pressimene, mia dolce amica già dalla tenera infanzia. Avendola dunque già frequentata da parecchio tempo ed essendo molto in confidenza con lei presi rapidamente la decisione ed essendo anche piuttosto, per l'età, inesperto nel daffarsi, decisi parimenti di non perdermi troppo nei corteggiamenti e di presentarmi celere alla fanciulla nella mia vera forma di desiderio.
Ora, quando anche tu certamente ti sarai ritrovato a manifestare per la prima volta il tuo desiderio all'oggetto tuo, ricorderai come avviene una grande emozione, quasi un groppo di varie tonnellate posato sulla schiena che impedisce molto facilmente di spiccicare parola. Ecco, io riuscii a superar l'ostacolo e le cominciai a parlare come ero solito fare, tuttavia mantenendo sia gli intenti che le difficoltà. Ad un certo punto del discorso, mentre sto per decidermi a sbrogliare il nodo, per la forte apprensione veloce ma silenzioso mi sfugge un pirito. Eravamo all'aperto e si passeggiava lungo un vialetto di campagna abbastanza solitario dunque non mi preoccupai più di tanto della cosa, anche perché ero molto concentrato sulle parole da dire quando, per seguire il moto di un uccello in volo, Pressimene si volta indietro e con sorpresa osserva che per terra, dietro di noi, ci sono dei brandelli di stoffa ove poco prima v'era solo polverosa ghiaia!
Non c'è bisogno che t'interroghi, erano si stoffe provenienti dai miei pantaloni, e non ci volle molto perché Pressimene se ne accorgesse, con mia grande sorpresa e ancor mia più grande angoscia. Non ti racconto nei dettagli i momenti successivi, poiché provo ancora una grande vergogna nel ricordarli. Ti basti sapere che da quel giorno ogni mia flatulenza mi è costata un ricambio di biancheria.
Col tempo, già prima di conoscerti, imparai a studiare la frequenza di queste fuoriuscite, la loro aggressività nei confronti dei diversi tessuti e pian piano riuscii ad adattarmi alla cosa. Devi sapere dunque che io sono ben più magro di come mi conosci, poiché indosso infatti costantemente sette mutandoni di lana invernale sotto i pantaloni, e ciò è causa anche di quei “problemi miei di abbondante sudorazione” di cui spesso sono stato costretto a raccontarti mentendo. Non prendermi adesso come un bugiardo degno di disprezzo, era in fondo una cosa piuttosto imbarazzante ed effettivamente non necessaria alla nostra frequentazione. In ogni caso desidero chiederti scusa, anche perché ora vorrei chiudere questa premessa che va dilungandosi anche troppo cascandomi giù da gradini stilistici.
Dopo la spiacevole vicenda avuta con Pressimene non provai più ad avere relazioni approfondite con coloro verso cui nutrivo interesse, un po' per paura ed un po' perché ero preoccupato maggiormente dal problema dei buchi, alla fine mi ritrovai abituato alla situazione mia solitaria. Due giorni fa, in mattinata, mi ritrovai tuttavia ad un appuntamento con una donna molto simpatica da me conosciuta in teatro. Difficilmente potrai conoscerla, si chiama Esticontrona e talvolta recita per diletto in quelle commediuole che gli attori di scarso successo fanno interpretare per mangiare persino ad attori non professionisti come lei. A dire il vero non era la prima volta che mi vedevo con questa signorina, ma era accaduto sempre assieme ad altre persone e da pate mia non v'era mai stato un particolare interesse nei suoi confronti, almeno fino a quando, tre giorni fa, non ricevetti un invito da parte di Esticontrona per vederci, noi due da soli, in mattinata per prendere un caffè, farsi una passeggiata e, soprattutto, farsi quattro chiacchiere e divertirsi un po'. Nonostante non ci fosse nulla di particolarmente sconvolgente fui turbato parecchio da quell'invito (come avrai intuito il mio animo non è abituato affatto nel trovarsi solo al cospetto di una ragazza) e tuttavia accettai, non riuscendo per la restante parte del giorno a far altro che pensieri sempre più approfonditi su Esticontrona, tanto che arrivai all'appuntamento della mattina successiva molto teso ed agitato, indubbiamente pieno d'emozioni.
E ora capisco, ahimè, la causa del mio male! Appena cerca di parlare di qualcosa con Esticontrona eco prorompere dal basso della mia schiena un fragoroso rumore come tuono di temporale, e non come la prima volta, ma stavolta molto intensamente, sento i sette mutandoni di lana e i pantaloni strapparsi uno ad uno come si sfracellano i pontili posti dentro a un nubifragio! Non ho mai vissuto una vergogna simile, fu come se quell'attimo durasse ore, come se il rumore rimbombasse e si riproducesse con echi, ed alla fine eccomi lì, al centro della via di fronte al bar più frequentato con i pantaloni e sette mutande di lana sbrindellate e penzolanti, con ogni singola pupilla puntata su di me!
Anche Esticondrona mi guardava con il viso deformato dallo sgomento, ma subito, sia maledetto il suo essere uno spirito felice, essa non resistette al proprio animo e dalla deformazione dello stupore passò allo stupore della risata ed assieme a lei il viale intero. Fuggii e da quella mattina sono due giorni che sono chiuso in casa senza uscire né vedere nessuno, solo con le mie flatulenze che ora non smettono un solo istante di rumoreggiare tempestosamente. Già quattro volte i vicini sono venuti a bussare curiosi ed io li ho scacciati via malamente, accompagnato dal solito e orribile rombo.
Ora mi ritrovo a scriverti questa mia, Aristandro, perché ho bisogno di prendere una decisione. Aspetterò il prossimo passaggio dei vicini e chiederò loro di imbucare per me questa lettera, dopodiché andrò ad appendere una delle robuste corde che tengo in casa alla trave del mio soffitto e mediterò se sia o meno il caso di porre fine a questa mia sfortunata e ventilata vita. Ti prego dunque, quando avrai ricevuto e letto questa mia missiva, di porre pausa ai tuoi affari e precipitarti qui da me. Se mi sarò cascato giù con la corda appeso, avrò bisogno di qualcuno che mi tiri giù e mi organizzi un modesto funerale, e vorrei chiedere a te d'assumerti questo spiacevole onere. Se invece avrò giudicato cattiva questa idea che ora vengo d' illustrarti, avrò probabilmente bisogno di qualcuno che mi consoli e che mi tenga compagnia recando con se un paio di damigiane di quel buon vino che tu conosci tanto bene.

Grazie,

Tuo Meteomicrone.

giovedì 30 luglio 2009

La pelle dipinta (variazioni su un tema di Pu Songling)

A Taiyuan viveva un uomo chiamato Wang. Una mattina stava passeggiando quando incontrò una giovane donna con un fagotto in mano che camminava di fretta, da sola, sulla strada. Dato che si muoveva con una certa difficoltà, Wang accelerò il passo e riuscì a raggiungerla. Scoprì che era una bella ragazza, di circa sedici anni.

Ai racconti popolari
dobbiamo un tributo:
ci nascondono i vasi da notte
e le risposte, follie.
Ma delle pietre
fanno orologi, dighe;
del sangue, mattini.

Il tuo consiglio è blando,
cauto perorare
"con le ginocchia della mente inchine"
scandagli un vago approdare,
ti dividi in aria.

Guardando dalla finestra della biblioteca, Wang vide un demone terribile, con la faccia verde e i denti affilati, tendere una pelle umana sopra il letto e dipingerla con un pennello. Il demone infine buttò via il pennello, scosse la pelle e se la mise sulle spalle come se fosse un cappotto, ed ecco! Era proprio lui, la ragazza.

Del tuo itinerario
salvo tutto, fuorché il Tempo:
i tuoi secoli non hanno peso,
nè fronde. E' una forma
la tua lanterna, il tuo amuleto,
aria divina.

La ragazza fece a pezzi lo scacciamosche, sfondò la porta e corse verso il letto, dove squartò Wang e ne estrasse il cuore pulsante, con il quale se ne andò. La moglie si mise ad urlare, ed entrarono i servi con una candela; ma Wang era già morto e la sua carcassa costituiva il più miserevole degli spettacoli. Il sangue schizzava ovunque dalla cavità nel suo petto.

Ed è con un lancio di monete
di bronzo, con le ossa di tartaruga
che i tuoi vaticini sospirano,
piovono enigmi e il sogno non collima
si perde, come uno spillo.

domenica 19 luglio 2009

La grattugia di Turi Zampene

Prosegue

Quando questa mattina mi sono svegliato ho subito sentito suonare alla porta. Le malelingue potrebbero asserire che invece io mi sia svegliato proprio perché stava suonando la porta, e che non fosse mattina, ma fossero passate già le quattro del pomeriggio e anche, potrebbero asserire, che quel poveretto che suonava fosse stato li ad aspettare più di mezz'ora. Ma non è vero. In primo luogo, questa gente a cui piace tanto parlare è solita far terminare la mattina alle undici, mentre tutti sanno che essa è di molto più larghi confini. In secondo luogo, colui che suonava dietro la porta non era affatto un poveretto. Era invece Turi Zampene, che la gran parte di voi sicuramente avrà avuto modo di conoscere in qualche sgradevole occasione. Quest'uomo, che si diletta nel commercio dei salumi, dicevo, mi aspettava dietro la porta, e quando gli aprii ancora lo trovai a suonare mollemente il campanello con aria vagamente annoiata.
“Che ti succede, Turi? - gli chiesi, vedendo che sulle spalle portava uno zaino dalle dimensioni abbastanza preoccupanti.
Zampene si aggiustò i capelli e si fece accomodare nell'ingresso.
“Oh, Aristandro, nulla di che... passavo.
Turi, che conobbi all'età di ventisette anni, è un uomo infido. Dopo che gli ebbi aperto la porta e lo ebbi fatto accomodare in casa mia si tolse il suo grosso zaino dalle spalle e, posatolo a terra, ne estrasse una grande forma di parmigiano ed un certo numero di grattugie.
Turi era un uomo pratico, si arrotolò le maniche della camicia, si prese una sedia e vi si sedette sopra, mentre dalla porta ancora aperta entravano suoi uomini recando carriole e formaggi. Gli uomini entravano, depositavano le forme e riuscivano, portandosi dietro le carriole. Uno di questi si tirò via anche le tende. In tutto questo Turi si adoperava per grattugiare tutti i formaggi che gli venivano portati e mentre grattugiava sudava e i lunghi capelli gli ricadevano dalle spalle davanti gli occhi.
Fuori dalle finestre, in strada, un inopportuno gruppo di giovanotti cantava i cori dell'armata rossa e ben presto Zampene si accodò con grande spirito, sempre continuando a grattugiare.
Mi resi conto che non potevo oppormi alla situazione e me ne andai in cucina, pensando a quanto fossi fortunato a non essere amico di Turi Zampene.
Sul tavolo della cucina erano casualmente posati dei fogli e mi venne voglia di scrivere, ma non trovavo nessuna penna. È una cosa che di solito mi irrita molto, ma lì per lì non me la presi, anzi, andai anche ad aprire il frigorifero sorridendo e facendo qualche battuta sorniona sugli avvocati.
Ora, qui tuttavia ho delle difficoltà a continuare. Del resto , chi non ne avrebbe se, mentre si sta cercando una penna a sfera si vede del parmigiano grattugiato entrare lentamente dalla porta della stanza? Fu quello che vidi io. Era Turi, che in salotto aveva continuato a grattugiare formaggio e che ne grattugiava ancora adesso, ridendo come un folle. Solo, non aveva ancora toccato la forma di parmigiano tirata fuori dallo zaino.
“Turi! Turi, santo cielo! - esclamai mentre avanzavo per il salone ormai totalmente ricoperto di grattugiato – Turi, mi dispiace molto ma debbo lasciarti, tornerò più tardi.
Indossai il cappotto ed ero indeciso se portarmi o meno anche il bastone, ma una risata di Zampene mi risolse e presi con me quello sormontato dalla testa di un caprone. Mentre ero impegnato a salutare sotto l'arco della porta, venni urtato da uno degli uomini di Zampene che usciva con la carriola e fu una fortuna, perché ero molto imbarazzato.

venerdì 10 luglio 2009

L'ho vista spegnersi

L'ho vista spegnersi, mai avrei creduto che dopo tale vista, ancora fosse possibile fermare tale scempio, forse non sarò un letterato, uno scriteriato o un curiato, ma sicuramente sono uno smagliato, vuoi per il peso del tempo, chi dice per il peso del corpo, ma ne sono convinto, nulla dopo quello a cui ho assistito, mi apparirà come prima.

Era le 23 circa, io ed il mio migliore amico immaginario vivente che abbia mai conosciuto (da ora in poi maivcamc), stavamo ripetendo un pò di inglese (in quanto saremmo partiti per un viaggio immaginario alla volta del Giappone, e mai avremmo voluto farci trovare impreparati a tale evenienza), imponendoci di parlare solo nella lingua di albione quando qualcosa attirò la nostra attenzione, un articolo su wikipedia che parlava del meteorismo.
Avemmo la folgorazione, applicare il meteorismo di cui soffriva da quel momento maivcamc ed applicarlo ad un accendino d'oro (quelli di plastica non li prendemmo in considerazione, perché maivcamc ne aveva una strana fobia, del tipo "ti mangiano gli occhi!"), quindi aprii leggermente la cerniera della mia tasc segreta nascosta nei boxer (altra cosa strana di maivcamc era l'allergia alla forma delle mutande) dove nascondevo l'accendino di oro (non era d'oro, ma del mio amico oro sfaceli, ma tanto cosa ne capisce maivcamc!), lo presi, lo accesi e maivcamc fece partire il colpo sacro del meteorismo delta (quello alpha era poco potente, il beta fu presto abbandonato a favore del delta, il gamma era troppo poco sperimentato per esserne sicuri, ci limitammo quindi).

Ho aperto gli occhi, non ho scampo.

giovedì 9 luglio 2009

verso il cadere

io ci credo ancora
a questo domani di polveri
e pietra, accolto nel suo cigolio di mani
fra le colpe dei fossili, nei denti
che hanno il volto del buio
(barbagli di voce, nomi
disseccati

ritrovati d’ istanti
a scomparsa, imminenze
e correnti, trincee di cielo
e diamanti di case)

solo porte d’inverno, più avanti;
mascelle d’asfalto dai parafanghi
d’acciaio (non immane rugiada,
non bagliori di rame)

ripenso agli odori, alla foga
di quei passaggi ad ossa nude,
se siamo schegge di muro
fra le finestre e nient’altro

(è tutto vero, ma l’ombra è ancora lunga,
ed è troppo questo crinale
per dire
che la colpa è
il vento)

domenica 5 luglio 2009

#12

Mentre la carcassa del giullare rinverdiva le ginestre per cinque minuti, le attese dei folletti e degli gnomi si allungavano di qualche manciata di vite.
La nonna raccontava che ogni angstrom del suo corpo era ricoperto di macchie, ma a me interessava poco.
A breve sarebbe cominciato il cartone animato dei Pokémon, e l'emozione era tanta che avrei dovuto chiamare un compagno di classe per cantare la sigla.
Durante i titoli di coda, dieci anni dopo, stavo accarezzando la mia cagnolina invecchiata, mangiavo le fragole di bosco della casa di montagna mentre quella correva intorno, e ansimava così forte che mi sono ritrovato al funerale di mia nonna, la dalmata, a consolare la sorella che mi singhiozza sulla spalla.
Quante volte sono fiorite e sfiorite le ginestre, da quando il sudore mi incollava la cornetta all'orecchio, in un apice di entusiasmo che presagiva un futuro di sconfitte?
Di fiori così brutti mi interessa così tanto... eppure, le maglie offuscate registrano qualcosa: un Pinocchio di 16 metri, conficcato nell'asola del gilet della memoria, i cui taschini sono pieni di canzoncine e il cui colore, cangiante, mi inganna da secoli.
E questo cane, che non è ancora morto, ha già un suo epitaffio, e mi chiedo se sia poi così sbagliato:
Morta Dorina è qui: l'irata Dea
La trafisse de' boschi, a sdegno mossa
Perchè in beltade i cani suoi vincea.
Ma l'ora si fa tarda, e non posso certo perdermi la puntata in cui Ash deve dare l'addio a Butterfree ed è così commovente quando piange e sorride guardando verso l'orizzonte, al tramonto.

Antilogia dell'attrito

Si potrebbe dire
"nel ventre del convivio"
un ospite: l'angelo di ferro
templi amati - materia - crocifigge;

seguendo la fase
di coibentazione delle assi
crescono agli innesti i sedimenti,
le schegge eretiche, chiodi

superstiti madri
si guardano, inermi
spezzano antenne, e cablaggi,
nelle ultime notti

(noi caduti, a ogni nuova luna)

il sacrificio
a Penelope: in ordine,
sorda e sconfitta,
poliandrofaga muta,
tarantata - salvezza -
tremante subisce

Palinsesti. E il Suo brando
in apologo, ad misericordiam!

linea alba

Seigneur, quant froide est la prairie,

dopo aver visto mirande cose passare

dalle campagne elettorali, alle stazioni

inerti sotto ai treni, agli stabili deserti,

balneari (disobbedienza alla produzione

di segni, all’emissione vacanziera):


un problema di mensure, uno sgomento

differente, flesso all’occasione divisoria;

il cartongesso alle corde, in colonna

assieme alle prenotazioni, oltre

l’apparente garbo delle cose:


si mette mano alle danze, alla differita del passo;

ci si nutre di scorci, sugli stipiti

in fuga dai paesaggi rovesciati,

discesi dai disordini dell’aria:


usciamo sempre attraverso i vetri, sugli svolazzi di buio,

nuotando protesi allo scatto, vòlti al sudario che tempra quest’aria;

siamo l'odore delle chiavi di casa, sopra un confine a specchio

(o chissà dove):


oggi lasciate andare le lacrime

cadute, ghermite dall'utero del tempo,

sull'indugio di rampicanti inadatti:


si scrostano le serrande abbassate, sugli orizzonti dopo, sotto i ritratti:

vibratile inerzia questa veglia, presenze del mattino.

Zur Seinsfrage

Capita che i morti tornino, come un'inondazione. Li si vede allora sbucare dalle campagne, dalle acque, dalle lunghe ombre attorno alle strade. Hanno braccia e mani affilatissime, un collo sbilenco e, proprio sotto lo sterno, tre o quattro tasche scucite. Hanno, a dir la verità, anche un paio di gambe e certi altri dettagli, ma comunque pochissimo di umano. Non ci somigliano. Ricordano, piuttosto, la sagoma sottile dei lampioni, e come i lampioni hanno un alone stanco, e un'aria rassegnata, e un ordine segreto. A volte svaniscono dopo qualche passo appena. Altre volte, invece, continuano il cammino, si radunano in antichissime sale, negli atri ciechi delle scuole, attorno ai davanzali, nei nostri corridoi.
Si dispongono in cerchio e poi convergono, uniti, fino a schiacciare le direzioni. Quando sono tutti premuti nello stesso luogo si intersecano, si sovrappongono, e alla fine non si distinguono più l'uno dall'altro. Così, raccolti, sembrano reggere ogni spazio, incrociare i marciapiedi infiniti, la luce dei fari, le discese ripidissime e tutte le curve. Abbinano gli oggetti, li combinano, saldano un punto di fuga. Io non conosco, però, le loro formule, i loro codici. Né so dirvi che altro accade.
E' possibile che i morti abbiano un mestiere, e che ritornino proprio per questo. Che a un certo punto siano scossi dal sonno per un'anomalia dei ponti, perché i nessi resistono a fatica. Il mondo si incrina, le cose sfumano, tutto diventa vapore. E allora vengono i morti, come un vento gelido, e salvano la logica, riallacciano i legami. Arrivano alle cose -a tutte le cose- e le prosciugano. Quando ritornano il mondo si fa sottile, i volumi evaporano, i lampioni si accartocciano, le strade si stringono ed io divento un poco più triste.

Vedete, io non dormo molto, e così mi è successo. Mi è successo di avvistare i morti, a piccoli gruppi, e spesso ho temuto di vederli entrare dalla finestra aperta, lentissimi, in processione. A quel punto mi sono sempre addormentato.
Per questo motivo ho una mia teoria, su di loro. Io credo che i morti accerchino le nostre stanze, i nostri letti. Viene un momento in cui tutto sta per crollare, e allora salgono dalle piastrelle, calano dal soffitto, come un sonno sconfinato. Ed è questo che fanno: chiudono i minuti, aggiustano le valvole esplose del sonno.

A volte, di notte, si sente come un canto, un inno infuso nelle pareti. Io vi dico che questo canto è il canto dei morti e che, se fate attenzione, lungo certe ore, potrete sentirlo anche voi.

venerdì 3 luglio 2009

Mediterranee, una specie

La luna è coperta di foschia, il garbino soffia da due giorni. Domani pioverà. Grosse gocce d’acqua con un tonfo sordo, turberanno il Foglia e la sua calma stagnante (paludoso dai tempi di Catullo, di Marco Fulvio Nobiliore). Ma l’ieri e il domani sono sogni ugualmente archeologici; il garbino non s’interessa di loro.

Tutto questo per dire che anche la parola spesso cede; si arrestano i suoi flutti, si abbandona, al suono delle secche (gioco di vento pigro e canne): è triste come il dormire al sole, dopo pranzo sulla spiaggia, l’amore.

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Nel sonno cadi con la pronta fiducia del mistico; a volte stai parlando e la voce impercettibilmente sfuma, verso il respiro, il silenzio. Come fa questa prosa pacatamente compiaciuta di sé.

Non è un sonno platonico: lo ricorda il calore del tuo corpo, il movimento leggero e costante, nell’avanzare e ritirarsi del diaframma. Non è neppure la coscienza che si cela, anzi traspare: nel calcolo nottambulo del tuo avvicinarsi, allontanarsi, condividere, lo stretto spazio di un letto a una piazza.

Piuttosto è il sogno di veder agitarsi sulla pelle nuda il tuo ritratto; com’è di giorno nell’acqua immobile e bianca del mare.

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La sabbia si ammonta in dune, a fianco dei camion che l’hanno scaricata. Sulla spiaggia: un lembo sospeso a fronte del mare che già ambisce a lambire i marciapiede, le auto parcheggiate. La stessa sabbia che tra un mese, coprirà la propria indifferenza di turisti, e stagnante, come questa parola usurata, fingerà di essere maggiore alla sua compagna che riempie, ingorga le clessidre. E suggerirà al più innocentemente naif che la vita è bella, perché si può dormire al sole.

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Nei giorni d’aria tersa e opprimente, l’orizzonte si confonde col mare. Così che le vele, le piccole imbarcazioni che si scorgono dalla spiaggia, si tingono del colore di una duplice inesistenza. Illusione ottica dell’orizzonte, del cielo che preme, disperdendo tutto il suo goffo peso sugli scogli, e impossibilità di vedervi oltre per chi, sdraiato, non sa nuotare e annaspa tra le metafore.

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La luce estiva è tutt’uno al calore. Un senso di pesantezza dei sensi, prima che l’apparire sotto forma di miopia; una generale stanchezza dell’aria, come l’oro col tempo scurito delle icone, l’aria immobile del rinascimento. Alla sabbia si confonde la polvere dei musei. Ma se tutto oscura e tutto chiarisce, nel pieno giorno della sua oscurità, non è cruda, come aridamente si dice; ma ha il troppo chiaro e dolce delle convalescenze. Il mare che si riversa sulla battigia è il pensiero fermo che ristagna, la lingua; il troppo caldo fa sì che svapori, in epistassi.

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Tutta l’aridità delle marine.

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La baia vista dall’alto, dai tornanti della strada panoramica, ha profilo da fotografia, svanisce, nei contorni del suo antico nome romano. Al tramonto, la luce del sole riverbera sul mare, che occupa, oltre l’est, il settentrione, e la confonde all’ideale della sua bellezza; o la dissolve nell’espressionismo di una malinconia di De Chirico, strappata alle tortuosità della sua intelligenza e ricondotta alla propria origine, marina e greca.

Un colore concreto, come un riposo della materia. E concreto è avvicinarsi alla spiaggia; si coglie allora realmente il fiume e il sapore della sua acqua salmastra, il senso degli sterpi e dell’erba che toccano la riva, e quello dei palazzi grigi e popolari.

Se il sole coi suoi ultimi abbagli tenta ancora di confondere i pochi turisti, unici che occupano la spiaggia, ingannati da un depliant, un albergo, il suo basso costo, con l’impressione che il paesaggio vanisca nell’immobilità, che i giochi dei bambini arrugginiti procedano da epoche romane, al punto di chiedersi dove inizi, finisca, la realtà del quadro, le conchiglie della battigia non spazzata, c’è così poca gente che spesso non vale la fatica, incagliandosi al tallone nudo, cancellano ottusamente ogni dubbio filosofico.

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I pensieri, i mosconi e le parole ronzano, cozzano, e ottusamente muoiono, sul davanzale in pieno sole.

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Nei giorni in cui il cielo è troppo turchese, il sole a fatica concede i minuti, e troppo avidamente, poi, brucia i meriggi…

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Gli uccelli che si sporgono dai rami degli alberi del viale, a due passi dal mare, per la calura non cantano, si disperdono in monotoni e inesausti gorgheggi.

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Nelle borse della bici i sassi, raccolti l’altra estate a riva per il loro nitore, come panni vecchi, hanno stinto. Lasciando imbiancate le borse, il loro interno, si sono fatti, come parole, imperfettamente rossi e neri.

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I lavori alla stazione non finiscono più. Iniziati con quest’afa, sembra che le ruspe si sfiniscano, a trasportare ed ammontare, avanti e indietro la terra arida.

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A volte a rimescolare, l’acqua torbida guizza, un pesce o una rana, comunque una opaca macchia di colore. E non dura, né qualcuno vorrebbe da più vicino sapere, a cosa appartiene quel debole baluginio. Pure quel guizzo. Starebbe bene, sulla tela di un pittore, se di figurativi ne esistono ancora.

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La poesia è fluviale e come un fiume
cancella scorrendo le sue tracce:
né v’è rigagnolo, per quanto stagnante,
che non abbia
il suo salto,
fosse pure artificiale; persino il Foglia
ha le sue cascatelle dov’è il ponte del treno
e la gente va a pescare.

martedì 30 giugno 2009

Nemmeno un prete che ci accompagni, ovvero un discorso sull'amore (ai tempi del colera)

[...] Perciò fai la vittima aggressiva, il grande perdente. Un professionista del fallimento. [...]
è così facile. Non devi per forza essere bello, almeno non in superficie, eppure vinci lo stesso. Devi solo lasciarti andare, fare il debole e l'umiliato. Continuare per tutta la vita a ripetere: Scusa. Scusa. Scusa. Scusa. Scusa...

Chuck Palahniuk, Soffocare

Di nuovo a te, ma anche a voi:


Perché se per svegliarsi più forte bisogna cedere al sonno, non ho ancora mai visto questo splendente καιρός che assolve le cose dal destino di non essere mai state - ascensione, resurrezione, rapimento a mezzo d'aquila. Chiamalo come vuoi. Morte. Memoria - e le consacra al mito, sulle cui soglie ci si ferma e ci si scopre il capo. Credo quia absurdum est. Ma ho visto il sonno infiltrarsi nei muri, lasciare macchie, ho visto che il sonno rimane e basta a sé stesso, non cerca sacrifici e non decapita cardi, cola con dignità minoica sul cuscino. Attende. Non è fratello della morte, ne è il padre, l'archetipo, la misura. E forse la somma del nostro scibile è il sonno – dormire come bruciare, dormire accanto che è come dire guardami perché morirò. E ci si chiede cosa avrebbe visto Psiche, se avesse davvero acceso la lampada.

Al mondo non c'è niente di vero, niente di bello, niente del tutto. E poi tu. Descritta in un qualche codice perduto, un Περί Φύσεως ad Alessandria – nota a margine, datazione presunta, accademico rammarico. Il rimpianto transita più in alto delle cose, eppure nessuno predilige l'assenza alla presenza – le tenebre alla luce – nessuno scioglie l'enigma newtoniano della distanza. Perché la ragione parla di economie, vantaggi - l'ora in cui tremiamo di tenerezza non si dilata in un'eternità, non è letteratura ma necessità che passa, lussuria – e il sentimento è sempre lo stesso animale cieco. Geistiges Gefhul, già: che beffa, ciance abbaiate alla luna! Così va la vita.

Eppure è di nuovo tempo per le ere glaciali del cuore. L'abbandono è spezzarsi, mai sanguinare: la cera museale cauterizza tutto, al corvo si lascia becchime sul davanzale, per quando ritorna – dice il suo annuncio e poi si parla d'altro, del dosaggio dei farmaci, del paziente che manca all'appello. È solo un mestiere. Continuo a sostenere che sia un fatto di pietà. Due disertori che si incontrano, e non si sparano addosso. Se l'amore vuole sopravvivere alla lirica intossicante che stilla deve risolversi nella malinconia di una cosa tra le cose, parlare piano per non attirare la fine. Gli dèi vendicativi sciamano, ed è giusto. A quanto ne so non apparirai più, quindi ti chiedo scusa. Perché è l'unica parola a conservare ogni pretesto, ogni diritto ad esistere in un mondo derubato delle colpe. Sul vuoto, contro il vuoto innocente, celebriamo queste cerimonie.

E ora dimmi, coraggio, che non hai capito un bel niente. Scrivo difficile. Ma è tardi, sempre più tardi.


lunedì 29 giugno 2009

il minotauro del rinvio

Ora posso dirlo -dopo i coltelli, le corse

- la certezza di vedere qualcosa, prima o poi

entrare dalla finestra- e l'islandese (vicinissimo): la persecuzione

è una nube di insetti, nei secoli dei secoli

negli angoli degli angoli -negli acquari-

se ne avanzano- nelle acque ad ostacoli


c'è un'ora meccanica

uno slancio di leve – e di notte

questa stanza esplosa

in alto- una cattedrale

e tutti i superstiti nelle loro nicchie, riparati-

dal basso -altri- allentano i cavi


una volta a letto- o nel sonno, o altrove

- ma comunque qualcosa- poiché ha le sue leggi, come gli altari

-e come sugli altari steso, un sacrificio

a tutti i mostri, ai labirinti

sabato 27 giugno 2009

Averroè reloaded, ovvero un (altro) discorso sulla cattiva scrittura

Chi scrive scrive per sé, scrive perché gli piace scrivere, perché scrivere non è una cosa che s’impara, è una cosa che ti viene, è come uno starnuto, è come una risata, ti esce, è lì, devi pigliare una penna e scrivere.
Chiara Strazzulla

Il vecchio Manuel ed io passiamo il tempo cercando pessimi scrittori. Insomma, non è che ci resti molto altro, a parte l'allegria del pianto (per dirla alla Vecchioni). Ne troviamo, oh se ne troviamo! Il loro nome è Legione. La tizia che vedete citata in esergo è una scrittrice fantasy, ha diciassette anni, non è gnocca - e questo, in tutta onestà, risolverebbe di per sé la questione. Pubblica con Einaudi. Quelli che hanno rifiutato Saramago. Compratela, leggetela, perché è una munizione nella nostra gloriosa crociata: smitragliare la letteratura alla morte, cosicché non torni più a tormentarci di notte. La ragazzina, ça va sans dire, è un'ebete e il romanzo è indegno, cioè proprio quello che ci serve per stare meglio.

Ma non è di questo che parleremo! Tireremo fuori dalla cassapanca, invece, un mini-cripto-pamphlet propagandistico demaistriano contro la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Perché insomma, guardate: i cattivi scrittori non fabbricano ciò che scrivono, il che sarebbe mera imprenditoria. I cattivi scrittori scrivono ciò che scrivono. L'immagine di Alice che si piscia addosso – e no, non è tratta dagli inediti fetish di Carroll: è Giordano – non è un artefatto funzionale, le trame mongospastiche dei romanzi di genere non sono paint-by-numbers. Immaginazione produttiva, quant'è vero Dio! Cose pensate, vissute – paura eh? (qui qualcuno dovrebbe ribadire che assomiglio a Lucarelli) - non bulloni, scarti di officina cinese. L'industria culturale ci droga di ottimismo, ci fa credere che insieme all'arte sia morta anche l'anima, la trascendenza, l'ispirazione: un sacrificio necessario per liberarci dall'estetica – e così sia – e dagli sconfinati orizzonti della tanatologia. Per dormire tranquilli. E invece non è così, siamo traditi! Tutti questi rumori di guerre, la nostra pervasiva secolarizzazione, non sono approdati ad altro che al degrado della fede. Non ci hanno tolto la sete, hanno intorbidato l'acqua – e ora nient'altro che il disgusto ci condurrà al nirvana metallico, alla perfezione orologiaia delle nostre sinapsi.

Perché insomma, Averroè parlava di intelletto potenziale unico. È ancora qui, ma in forma di terza via orribile tra l'atomizzazione disperata – l'esistenzialismo – e il suo opposto, l'impossibilità (filosofica) della morte. Un mollusco universale, che sente e irradia sentimenti attraverso le moltitudini. Quello che rimane di Dio dopo la tortura del sospetto. Quando leggete un cattivo scrittore leggete la nuova Bibbia, leggete un'ispirazione. Non un oggetto. Guardate: dove dovrebbe esserci l'anima o niente c'è l'Azathoth delle piccole cose. Ed eccoci qui, sospesi ad un passo dal paradiso della reificazione, ma il guardiano ci sbarra la strada e allora restiamo nell'obbrobrio, con le bocche che masticano fango. Ed abbiamo, per giunta, bruciato le navi. Non tornerà il tempo del dolore e della bellezza, soffriremo punture di spillo collettive e vomiti proletarii. Nell'ottantanove, signori, avevo ragione io.

lunedì 22 giugno 2009

L'Ariano dei poveri, ovvero un discorso sulla circolarità del ridicolo

You are my brother and in war we proudly sing.
Our Cause shall never tire.
Our gift to you we bring:
A holy creed of Racial purpose, as a mighty Race to defend.
And when we fly our holy flag
Their oppressive reign shall end….
Victory Day, Prussian Blue

Sia chiaro, sul comodino tengo una foto di Hitler. E' impressa sulla copertina di un libro, un glorificato romanzetto ucronico: La parte dell'altro, autorato da tale Schmitt. Questo tomo (cinquecento pagine, o giù di lì) è esattamente sotto l'abat-jour. Mi serve che sia sollevata rispetto alla linea del cuscino, per ragioni di diffusione della luce. Simbolismi troppo facili, da teosofia ammobiliata, qui. Mi capita anche di scoprire queste due ragazzine americane che cantano folk neonazista (si chiamano Prussian Blue, andatele a cercare). Curiose scoperte. Il discorso è che tutte le ermeneutiche possibili si riducono alla dialettica fra ridicolo e tragico. A Pirandello, che forse decifrò l'universo. Ma non il tamburo del progresso, il trionfo risolutore hegeliano. Non l'anima del mondo. Piuttosto, il muco del mondo, una bava di lumaca. Una dialettica circolare che al più si sintetizza in diminuzioni, un decadimento atomico che depriva il tragico della tragedia e stabilisce il ridicolo come forma sclerotizzata del reale, nemmeno materia per l'occasionale Apoteosi di uno zuccone. Questo processo ermeneutico, ovvero ogni processo ermeneutico, uccide la letteratura. Che la letteratura sia il doppelgänger dell'universo, la moltiplicazione che ne annuncia la morte (e l'empietà, si direbbe ad Uqbar) è cosa plausibilissima. E invece quest'universo vivo vive del proprio seppellimento, una categoria onnicomprensiva - la sintesi di cui sopra - che neutralizza la necessità (in quanto portatrice di tragedia) e scioglie a priori l'enigma. Una panacea.

Le ragazzine neonaziste, dicevamo. Resto qui a chiedermi se dopo l'irrevocabile spiraleggiare del tragico nel ridicolo - e il tragico è l'anacronismo, il Gotterdammerung, l'evenzialità stessa delle ragazzine; e il ridicolo è lo stesso ma visto dall'interno, con l'occhio alla milza e ai ventricoli - ci sia luogo a procedere per la bellezza. O meglio: appurato che tutto si risolve in un piagnisteo devastatore, cosa sopravvive del letterario? Un'evoluzione, forse, lo stesso processo che ha insegnato il volo ai dinosauri, diminuzioni astute, nuove nicchie ecologiche. Semplici e quieti, potremmo cercarla negli infiniti inventari crepuscolari - Loreto impagliato e il busto d'Alfieri - così affini alla tassomania cinese. Come dire: è lì, è ancora lì, nella catasta. E vale a dire che la sopravvivenza della letteratura risiede nel numero, nel diligente lavoro di compilazione degli exempla, cifratura con soluzione pregressa, storia per la storia, naturalismo. Sto dicendo che l'accumularsi di cose catalizza bellezza. Se la bellezza è l'altra faccia della non-funzionalità, allora tutti i libri del mondo sopravvivono nel registro. Di nuovo, il doppione. Qui, di nuovo, il paradosso di Zenone: tutte le cose vengono ri-dette, in un'ebete processo performativo (meglio, controperformativo) che tende al tautologico - quelli inclusi in questa classificazione - e grazie al quale, per osmosi semantica, l'oggetto perviene alla stessa inutilità del suo nome, diventa rimando, nota a margine di un altro inventario, sottinteso. La danza dei dervisci che avvicina a Dio. Conclusione: per quanto l'universo si minimizzi - e lo fa riadattando tragico e ridicolo a una comune banalità - non sfugge alla propria elencazione. Questa è la via di fuga della bellezza - che, sia chiaro, è una prefigurazione della fine, la tensione tra il non-ancora-niente e il non-più. E in fondo, nelle nebbiose lande del Nilfhel vagano i morti, oggetti originali e primi.

P.S.: e le ragazzine, in tutto questo? Le ragazzine sono figure di ybris, finiscono dritte nell'orologeria divina che stritola ogni presenza deviante tra gli ingranaggi del tempo. Un'icona del fuori-luogo, dello smarrimento di Caino, di Edipo, dell'uomo sacrilego o del titano. Prima che si effonda la nebbia del ridicolo, pensavo, prima che non resti altro che catalogare le rovine à la Beckett, c'è forse ancora un istante per un senso oltremondano ed eretico delle bellezza. La bellezza come non-mai. E quindi, mitopoieticamente, sempre. Sieg Heil.

venerdì 19 giugno 2009

Ipotesi sul concetto di preistoria

Ipotesi sul concetto di preistoria (controstoria minima dei disegnini su carta)

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini.
[La società dello spettacolo, tesi 4]

Si potrebbe partire da qui. Con una citazione certo impegnativa, se non proprio eretica. Un po' come se Carlo Vanzina scrivesse un libro su Visconti, per dire.
Perché scomodare Debord in un blog che si vuole definire, col coraggio eroico dell'incoscienza, letterario? Sarebbe più pertinente riesumare qualche inamidato saggio sul ruolo delle lettere, vive o morte che siano, nella comunità umana. Un poco di sociologia spicciola à la Balzac, magari, con tanto di genuino ottimismo verso i domani che, di lì a poco, chiederanno di cantare. Il tutto per scrivere in modo ancora più efficace del fragoroso fallimento storico di tanto ottimismo - una sorta di ludica passeggiata di Sisifo: più si sale e più ci si potrà poi riposare nell'ammirare il masso che distruttivo rotola via, in pochi attimi di taglio messianico della catena sul pignone del tempo.

In realtà c'è un'ottima ragione per parlare di immagini. E di spettacolo.
La prima e più banale di queste ragioni è che lettere e parole sono innanzitutto simboli visivi, elaborati in suoni articolabili da un apparato fonatorio. Sono immagini leggibili in modo univoco e codificato socialmente: questo pittogramma indica un referente preciso, questa lettera una configurazione di corde vocali, naso, lingua e bocca. Ai dipinti rupestri, perfettissima espressione di umana creatività, viene sottratto il valore fondante della universalità nell'accesso all'interpretazione. Uno schianto sulla soglia.
Il codice tesse quadri riproducibili in modo perfetto, ed è fruibile in modo indipendente dal contesto. Il prezzo da pagare, niente affatto modico, è l'alfabetizzazione, barattatata con la trascendenza. Che poi è un'ottimo inizio per un'apologia dell'oblomovismo. La scrittura come surrogato dell'apatia pare funzionare molto bene, laddove il colore esige ricerca e movimento.

Non è di ingenuità figurativa che abbiamo bisogno, intendiamoci. L'immagine non è libera: è essa stessa una sedimentazione di codici secolarmente elaborati. Ed esiste una grande distanza dai pigmenti fenici al disco dei colori di Chevreul.
Quello che cambia è l'accesso. L'accesso a un testo è vincolato da una serratura robusta, la cui chiave è la passiva accettazione di un sistema di regole rigido e normativo, laddove l'immagine-tipo presenta un dato visivo immediatamente leggibile, seppur a livelli diversi, su stratificazioni quasi geologiche. Ma è leggibile, non fosse per altro che per la percezione di una composizione.
Il colore stesso è passibile di lettura, prima di tutto in quanto materia pittorica. Pigmento e fatture di colore gridano tridimensionalità, emergono dalla tela esondando nel mondo, mentre il papiro schiaccia l'uomo su piatte superfici arrotolate - da qui alla terra desolata, è un sentiero in discesa.

Al volgere di un mese
colato dai sensi aperti
una nube di bocche dilania
(perché, poi?)
ne
mastica
l'aura le connessioni
resta
frammento
sfere sassi
quaderni e

ai calici, bicchieri
decantano rossori supini
e nubi effluvi fatture etiopi -
non ti potranno saziare...
Il tuo verme vecchio
profana i prati e le acque
e quel che rimane non ama
che membrane che /

Si parlava di trascendenza. La scrittura trascende il tempo e allo stesso tempo ne è schiacciata, ancorata com'é alla sua linearità. Un'immagine alfabetica va letta in un certo ordine, secondo una logica definita a priori. La superficie di una pagina, decodificata una riga per volta, da sinistra a destra.
La temporalità azzerata di un quadro lo rende più vulnerabile alle stagioni ma liberamente esplorabile. Ancora di più: l'icona bizantina, porta regale per una epifanica comprensione della verità.
La scrittura è un medium intrinsecamente autoritario. Prescrive prima e più che descrivere. Disdegna il raccoglimento famigliare della gemeinschaft per raccogliere le lusinghe della gesellschaft moderna, competendo con il posto di lusso occupato dal medium catodico, davanti al divano. La Bibbia di Gutemberg fu il primo media event della storia, la poesia il primo caso di pensiero aberrante - nel senso ottico del termine, di distorsione della forma.
Una macchina per scrivere ne presuppone una per leggere: il modello informatico della comunicazione continua a osservarci da sotto il tappeto. Siamo decodificatori o caporali?

Da qui allo spettacolo, il passo è breve.
Lo spettacolo è infinito, autopoietico e ben si adatta alla logica del palinsesto, del flusso continuo e temporalmente indicizzato di sussulti psicologici nella mente dello spettatore, rigidamente progettati e attentamente preparati. Una linearità poco liberamente ispirata alla catena delle parole, che richiede passività, obbedienza, accettazione di un sistema di regole socialmente codificato. Prescrive un uso del tempo direttamente mutuato dalla catena di montaggio, a sua volta sublimazione del romanzo moderno, grande e curioso orologio, meccanismo ben oliato. Lo scrittore è un grande orologiaio che fissa un ritmo, un'armonia assolutamente non prestabilita: le lettere, sigilli di cera sanguigna sulla diaspora dell'uomo da un giardino edenico, già esso alfabeticamente progettato. Oggi è una miniserie della Rai, ma fa lo stesso, è pur sempre una sceneggiatura.

Lo spettacolo media le relazioni tra gli individui: il primo diaframma è però letterario. Lo stesso valico, accademico quanto si vuole, tra storia e preistoria ne sancisce la portata. Una chiusura in-cubo, come per Fabro ma ulteriormente... incubata. Un varo della prossemica come disciplina del confine tra uomo e uomo. Il risultato finale sarà il reciproco contenimento per bulimia: la stilografica è un sublime indizio di cultura materiale, un desiderio di espansione di questi confini fatto oggetto. Confini del desiderio, à la Hobbes, confini della pagina, confini. Dalle masse di colore sulla roccia ai confini dei quadretti, al saggio sul suicidio di Durkheim. E' una motorway, cristallina e rettilinea.


Quello di cui si vuole parlare, in sostanza e a parte i toni semiseri di questa noiosa rassegna, è semplice. Quello che si vuole fare è una (nuova) critica della separazione. Le lettere sono terribilmente piatte, vanno bene come calamite sul frigo, o tra gli alberi. Per riempire i fossati sono più adatte le immagini iconiche, la camera-stylo come macchina da presa letteraria o un più semplice pennello. La scrittura è disumana, persino come gioco non è meno sproporzionata di una cavalcata sulla Bomba. Al siluramento delle lettere morte è preferibile una nuotata oculare tra le rovine che schiantano, in abisso.

P-
Nel padiglione allagato
pavoni perdono piume,
contrazioni illudono
le piume d'ippogrifo -
del senno degli eroi
non sappiamo che solo
che lenti piegate e morbidi
mucchi lupanari

è morto il genio
e Bradamante, e Beatrice
qualche cane sospira
anatemi
sordi, gli archi
si perdono in mari, sillabe
divise sono i templi
e totem della caccia
dopo il sole lasso

Concludendo la partita (un sostanziale stallo, pedone e re contro re e cavallo).
Niente roghi di libri, nessun rifiuto dell'alfabeto. Piuttosto, scrittura in quanto superamento delle regole della lingua scritta stessa, "gioco serio" al di fuori degli scaffali, ludus prima che assordante paideia. Una pars costruens che sappia ricostruire il corpo di Purusha dopo la inevitabile profanazione, l'androgino dopo la spada di Zeus, l'occhio di Balor dopo il colpo di fionda di un improvvido Lugh.
Una presa-prosa imaginificia sul reale, programmaticamente antiletteraria, per spezzare la catena sul pignone e deliziarci del fatto che niente ha mai avuto bisogno di accadere. Basta guardare, in una sorta di ocularcentrismo purificato/parificato. O sentire, o toccare, quel che si vuole. Liberandosi del concetto di evento, giustamente seppellito da chi ha compreso che evento è letteratura, il primo atto di una separazione teatrale tra le cose che hanno qualcosa da dire.
Fosse anche un eloquente silenzio, o uno stillicidio, comunque un dire che non sente alcun bisogno di cantare.

mercoledì 17 giugno 2009

post-it

Colgo un fiore di Leonida, epigrammatista, terzo secolo a.C. o giù di lì, traduzione di S. Quasimodo

Infinito fu il tempo, uomo, prima
che tu venissi alla luce, e infinito
sarà quello dell'ade. E quale parte
di vita qui ti spetta, se non quanto
un punto, o se c'è, qualcosa più piccola
d'un punto? Così breve la tua vita
e chiusa, e poi non solo non è lieta,
ma assai più triste dell'odiosa morte.
Con una simile struttura d'ossa,
tenti di sollevarti fra le nubi
nell'aria!Tu vedi,uomo,come tutto
è vano: all'estremo del filo, già
c'è un verme sulla trama non tessuta
dalla spola. Il tuo scheletro è più tetro
di quello di un ragno. Ma tu, che giorno
dopo giorno cerchi in te stesso, vivi
con lievi pensieri e ricorda solo
di che paglia sei fatto.

mercoledì 27 maggio 2009

Il Manifesto dello scrittore fallito


Il Manifesto dello scrittore fallito




Ho fondato la mia causa sul nulla



Che il fallimento sia un esito possibile dell'evento, si enumeri nel gioco delle circostanze, è questo l'errore che dobbiamo superare. Perché il fallimento dorme nelle cose come un cancro cellulare, non le risolve ma le precede e le prescrive. Noi crediamo che si perdano le battaglie come una profezia. Qualsiasi osservazione tende all'aberrante, esplode gli oggetti in miriadi, e nell'affanno di ricomporle risiede questo fallimento raccontabile, traducibile. Sorge una relazione di filialità con quello che abbiamo distrutto, edipica nella misura in cui ne prendiamo il posto, una prigione dell'occhio in tutti i possibili fallimenti dell'oggetto-evento. Che, infine, sono i nostri – e le cose si rompono secondo linee tracciate, una runica preesistente, prevedibile fino all'angoscia. Se proprio si deve, non si può che abitare in un luogo-evento dove la profezia invoca la propria de-scrittura, non la finalità che molti chiamano realizzazione ma il processo di individuazione univoca che marginalizza il prescrittivo, l'atroce attesa, le concede di defilarsi nel bagliore dell'evento – come avviene che Simone di Cirene penda dalla croce. Si scrive come si beve, per far succedere qualcosa – alla fine resta un uomo liberato dalla caduta delle mura, dai serpenti marini, dalla morte di Astianatte. Liberato, nell'ultimo dei paradossi, dalla propria chiaroveggenza. Si scrive per accecarsi.

Io, Tiresia, benché cieco, pulsante tra due vite.

Sembra, signori miei, che la parola sia una specie di ventriloquismo. E noi siamo attraversati da questo rintocco di diapason come fantocci, come le mummie di Federico Ruysch. Ci apriamo in una parola imbalsamata, un collasso della laringe. E finiamo incastrati tra i complementi d'arredo, i bicchieri, gli scaffali della Standa, le sirene d'ambulanza. Tra gli indici polverosi di una poesia-sommario (e sommaria, nell'infinita somiglianza di ogni cosa col resto del mondo). I contorni degli oggetti anneriscono -una necrosi gravida, appesantita- e a furia di scosse li scopriamo epicentro, perno gravitazionale della parola. Il senso delle cose sopravvive, sì, ma come nausea, labirinto intestinale. Non più un significato che piomba dall'alto, non più una stampella che scorta il passo d'una parola debilitata, da ricovero. Poi questa malinconia inguaribile, questo rimpianto delle paludi, della vita come gemmazione automatica e davvero impersonale. Il romanzo, la tragedia del fenotipo. E perfino una testa di libellula, a questo punto, sarebbe troppo. Come a dire che, per essere finiti così, nel morso dell'autoscienza, dobbiamo essere stati davvero incoscienti. Questi "cervelli" traditori! E siccome è vero che solo un dio può salvarci, più che ad una discesa (ad uno squillo di trombe), dobbiamo prepararci ad un'intrusione, uno scivolone tipo gag anni '30. Immaginatevi questo dio che passeggia fra gli attributi e, a un certo punto, inciampa nei predicati strozzati, ammucchiati a metà tra soggetti e oggetti, in un conclave di scarti (è la sottrazione a fare la differenza, dopotutto).

Verrà poi il tempo delle ipotesi (l'indagine è sempre teologia):

- lo scheletro del mondo in un infarto di piani, un salto cardiaco fino ai cataloghi delle nostre piaghe, alla colossale lentezza delle cose.

- un'aritmia degli eventi, un'esitazione ventricolare.


Perchè gli eventi esistono, che lo crediate o meno. Sono fossili in via d'estinzione, rarissimi, così grandi che non basterebbero dieci vite per incorciarne anche uno soltanto. E procedono a passi giganteschi, colossali, ed è in questo sonno di formule che fissano i luoghi del Ritardo. Questi eventi, poveretti, dovrebbero essere una specie protetta. Bisognerebbe allontanarli una volta per tutte, esiliarli, deviarne la rotta con uno scoppio di morte, un'ecatombe di spazi. E questo per il loro bene, s'intende- qui anche loro “soffocano d'ombra”. Perchè questi pachidermi alla soglia non sono pericolosi, davvero. Noi, agli eventi, siamo immuni.

(Io oggi, alla gavettonata:

in mezzo ai colpi, dritto, alla pioggia

dritto -ma niente

-niente- if there

were the sound of water only....)