venerdì 19 giugno 2009

Ipotesi sul concetto di preistoria

Ipotesi sul concetto di preistoria (controstoria minima dei disegnini su carta)

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui mediato dalle immagini.
[La società dello spettacolo, tesi 4]

Si potrebbe partire da qui. Con una citazione certo impegnativa, se non proprio eretica. Un po' come se Carlo Vanzina scrivesse un libro su Visconti, per dire.
Perché scomodare Debord in un blog che si vuole definire, col coraggio eroico dell'incoscienza, letterario? Sarebbe più pertinente riesumare qualche inamidato saggio sul ruolo delle lettere, vive o morte che siano, nella comunità umana. Un poco di sociologia spicciola à la Balzac, magari, con tanto di genuino ottimismo verso i domani che, di lì a poco, chiederanno di cantare. Il tutto per scrivere in modo ancora più efficace del fragoroso fallimento storico di tanto ottimismo - una sorta di ludica passeggiata di Sisifo: più si sale e più ci si potrà poi riposare nell'ammirare il masso che distruttivo rotola via, in pochi attimi di taglio messianico della catena sul pignone del tempo.

In realtà c'è un'ottima ragione per parlare di immagini. E di spettacolo.
La prima e più banale di queste ragioni è che lettere e parole sono innanzitutto simboli visivi, elaborati in suoni articolabili da un apparato fonatorio. Sono immagini leggibili in modo univoco e codificato socialmente: questo pittogramma indica un referente preciso, questa lettera una configurazione di corde vocali, naso, lingua e bocca. Ai dipinti rupestri, perfettissima espressione di umana creatività, viene sottratto il valore fondante della universalità nell'accesso all'interpretazione. Uno schianto sulla soglia.
Il codice tesse quadri riproducibili in modo perfetto, ed è fruibile in modo indipendente dal contesto. Il prezzo da pagare, niente affatto modico, è l'alfabetizzazione, barattatata con la trascendenza. Che poi è un'ottimo inizio per un'apologia dell'oblomovismo. La scrittura come surrogato dell'apatia pare funzionare molto bene, laddove il colore esige ricerca e movimento.

Non è di ingenuità figurativa che abbiamo bisogno, intendiamoci. L'immagine non è libera: è essa stessa una sedimentazione di codici secolarmente elaborati. Ed esiste una grande distanza dai pigmenti fenici al disco dei colori di Chevreul.
Quello che cambia è l'accesso. L'accesso a un testo è vincolato da una serratura robusta, la cui chiave è la passiva accettazione di un sistema di regole rigido e normativo, laddove l'immagine-tipo presenta un dato visivo immediatamente leggibile, seppur a livelli diversi, su stratificazioni quasi geologiche. Ma è leggibile, non fosse per altro che per la percezione di una composizione.
Il colore stesso è passibile di lettura, prima di tutto in quanto materia pittorica. Pigmento e fatture di colore gridano tridimensionalità, emergono dalla tela esondando nel mondo, mentre il papiro schiaccia l'uomo su piatte superfici arrotolate - da qui alla terra desolata, è un sentiero in discesa.

Al volgere di un mese
colato dai sensi aperti
una nube di bocche dilania
(perché, poi?)
ne
mastica
l'aura le connessioni
resta
frammento
sfere sassi
quaderni e

ai calici, bicchieri
decantano rossori supini
e nubi effluvi fatture etiopi -
non ti potranno saziare...
Il tuo verme vecchio
profana i prati e le acque
e quel che rimane non ama
che membrane che /

Si parlava di trascendenza. La scrittura trascende il tempo e allo stesso tempo ne è schiacciata, ancorata com'é alla sua linearità. Un'immagine alfabetica va letta in un certo ordine, secondo una logica definita a priori. La superficie di una pagina, decodificata una riga per volta, da sinistra a destra.
La temporalità azzerata di un quadro lo rende più vulnerabile alle stagioni ma liberamente esplorabile. Ancora di più: l'icona bizantina, porta regale per una epifanica comprensione della verità.
La scrittura è un medium intrinsecamente autoritario. Prescrive prima e più che descrivere. Disdegna il raccoglimento famigliare della gemeinschaft per raccogliere le lusinghe della gesellschaft moderna, competendo con il posto di lusso occupato dal medium catodico, davanti al divano. La Bibbia di Gutemberg fu il primo media event della storia, la poesia il primo caso di pensiero aberrante - nel senso ottico del termine, di distorsione della forma.
Una macchina per scrivere ne presuppone una per leggere: il modello informatico della comunicazione continua a osservarci da sotto il tappeto. Siamo decodificatori o caporali?

Da qui allo spettacolo, il passo è breve.
Lo spettacolo è infinito, autopoietico e ben si adatta alla logica del palinsesto, del flusso continuo e temporalmente indicizzato di sussulti psicologici nella mente dello spettatore, rigidamente progettati e attentamente preparati. Una linearità poco liberamente ispirata alla catena delle parole, che richiede passività, obbedienza, accettazione di un sistema di regole socialmente codificato. Prescrive un uso del tempo direttamente mutuato dalla catena di montaggio, a sua volta sublimazione del romanzo moderno, grande e curioso orologio, meccanismo ben oliato. Lo scrittore è un grande orologiaio che fissa un ritmo, un'armonia assolutamente non prestabilita: le lettere, sigilli di cera sanguigna sulla diaspora dell'uomo da un giardino edenico, già esso alfabeticamente progettato. Oggi è una miniserie della Rai, ma fa lo stesso, è pur sempre una sceneggiatura.

Lo spettacolo media le relazioni tra gli individui: il primo diaframma è però letterario. Lo stesso valico, accademico quanto si vuole, tra storia e preistoria ne sancisce la portata. Una chiusura in-cubo, come per Fabro ma ulteriormente... incubata. Un varo della prossemica come disciplina del confine tra uomo e uomo. Il risultato finale sarà il reciproco contenimento per bulimia: la stilografica è un sublime indizio di cultura materiale, un desiderio di espansione di questi confini fatto oggetto. Confini del desiderio, à la Hobbes, confini della pagina, confini. Dalle masse di colore sulla roccia ai confini dei quadretti, al saggio sul suicidio di Durkheim. E' una motorway, cristallina e rettilinea.


Quello di cui si vuole parlare, in sostanza e a parte i toni semiseri di questa noiosa rassegna, è semplice. Quello che si vuole fare è una (nuova) critica della separazione. Le lettere sono terribilmente piatte, vanno bene come calamite sul frigo, o tra gli alberi. Per riempire i fossati sono più adatte le immagini iconiche, la camera-stylo come macchina da presa letteraria o un più semplice pennello. La scrittura è disumana, persino come gioco non è meno sproporzionata di una cavalcata sulla Bomba. Al siluramento delle lettere morte è preferibile una nuotata oculare tra le rovine che schiantano, in abisso.

P-
Nel padiglione allagato
pavoni perdono piume,
contrazioni illudono
le piume d'ippogrifo -
del senno degli eroi
non sappiamo che solo
che lenti piegate e morbidi
mucchi lupanari

è morto il genio
e Bradamante, e Beatrice
qualche cane sospira
anatemi
sordi, gli archi
si perdono in mari, sillabe
divise sono i templi
e totem della caccia
dopo il sole lasso

Concludendo la partita (un sostanziale stallo, pedone e re contro re e cavallo).
Niente roghi di libri, nessun rifiuto dell'alfabeto. Piuttosto, scrittura in quanto superamento delle regole della lingua scritta stessa, "gioco serio" al di fuori degli scaffali, ludus prima che assordante paideia. Una pars costruens che sappia ricostruire il corpo di Purusha dopo la inevitabile profanazione, l'androgino dopo la spada di Zeus, l'occhio di Balor dopo il colpo di fionda di un improvvido Lugh.
Una presa-prosa imaginificia sul reale, programmaticamente antiletteraria, per spezzare la catena sul pignone e deliziarci del fatto che niente ha mai avuto bisogno di accadere. Basta guardare, in una sorta di ocularcentrismo purificato/parificato. O sentire, o toccare, quel che si vuole. Liberandosi del concetto di evento, giustamente seppellito da chi ha compreso che evento è letteratura, il primo atto di una separazione teatrale tra le cose che hanno qualcosa da dire.
Fosse anche un eloquente silenzio, o uno stillicidio, comunque un dire che non sente alcun bisogno di cantare.

6 commenti:

  1. mmm - ma dal cut-up alla poesia visiva non è già questo ? vogio dire: praticamente\prgagmaticamente, come conti di non ripetere l'errore (che almeno per me c'è) di esuberanza di tali esperimenti ?

    dov'è la soglia minima del letterario che giocoforza conti di mantenere ?

    (oltretutto la forma del saggio, semiserio o meno, spaventa - e se non è spettacolo questo... :P)

    RispondiElimina
  2. @ Imago: gli esperimenti a cui ti riferisci non mi hanno mai convinto proprio per le ragioni che hai addotto.
    Così come non deve convincere quanto ho scritto - sorta di catena di pensieri in libertà che sfugge ai paletti argomentativi appena abbozzati. La scelta di una forma pseudosaggistica, contradditoria rispetto al contenuto, è di per sé eloquente. In realtà conta di più la percezione di una crisi di comunicazione, al di là del "gioco" dello scrivere. Lo spettacolo è inevitabile.

    E'lo stesso concetto di "letterario" che non funziona, da un secolo a questa parte. In Occidente il concetto è esploso in esubero creativo individuale, celebrazione del genio o psicologia per dilettanti. Forse è il caso di ripartire da capo, con il dialogo - magari con forme diverse di possibile "letteratura" al di fuori dei nostri confini.

    RispondiElimina
  3. @Shishin: mah, devo dir che a me l'esuberocreativo individuale piace anche, fintanto che non è troppo autistico - nel senso delle forme, direi quasi "ectoplasmi" che poi spinge a produrre, come superamento e sfondamento e negazione dei generi (nel senso più ampio immaginabile del termine)... valendo comunque la restrizione originaria :P

    quanto al sopra, sì: dal discorso immginavo tutto quello che poi hai confermato sull'impossibilità avvertita di non poter suggire dallo spettacolo et cetera - però d'altra parte il tuo pseudo-saggio, pensieri-in-libertà o come vuoi definirlo si trova pur sempre su un blog, è aperto a una risposta (e infatti ti sto rispondendo :P) - mi sarebbe piaciuto avessi provato a trascinare "questo" nella forma piuttosto che l'ironia che hai scelto - non penso sia facile, io nemmeno lo tenterei, ma visto che il tema (lo spettacolo) suggerisce questo, mi sarebbe parso un colpo veramente "brillante" e tralascia il modo retorico di quest'ultime due frasi :P

    RispondiElimina
  4. Vedi, Imago, ho sempre sospettato dei finti dialoghi. Tipo Carla Lonzi e il suo Autoritratto. Preferisco il dialogo circolare con gli oggetti a quello con le persone in quanto funzioni testuali (sorta di funzione lettore purificata e distillata, in questo caso). E poi, cosa c'è di più strutturalmente spettacolare di un dialogo con i simulacri e le immagini, i nitrati d'argento che sostituiscono le cose?

    RispondiElimina
  5. Bhe, portandola su questo piano non faccio fatica a darti ragione, ma io non pensavo a un finto dialogo: in fondo il vantaggio di un blog, per esempio, è quello di permettere, rendere visivo il work in progress... pensavo piuttosto a un tentativo di ampliare le forme: non so, un modo banale potrebbe essere quello di aprire vuotivoluti, in attesa di riempimento, profezie sullo svilupparsi - ma è tutto dannatamente poco concreto: più che altro perchè il mio era un vaneggiare(o un puntare utopistico) d'una forma nuova, per quello che dici avrei potuto ben più brillantemente fare un qualcosa di simile io e postarlo qui in risposta a questo tuo pezzo :P

    (Tra l'altro l'Autoritratto di Carla Lonzi temo di non conoscerloe quindi magari m'hai già risposto giustamente, ma da come ne parli m'è venuto a pensar spontanamente che non fosse così :P)

    RispondiElimina