giovedì 30 dicembre 2010
Lunga storia del mitile ignoto
Sebbene ciò non riveli niente quanto alla cozza, il concetto cozza con l'idea. Bene.
Spargeva il sale sul mare a metà inverno, come molte altre cozze, per commuovere il freddo.
D'altra parte meglio un'ostrica oggi che una lastra domani. Questo perchè, notoriamente, sotto la lastra la capra crepa.
Come moltre altre onde, slitta per non capitombolare, chiudere il capitolo di violenza per riaprirne un altro a ferro e fuoco poco più là.
Ma altre cose, pensa tra sè (come molti altri), bollono in pentola. Oltre alla cozza.
Sebbene la pentola rappresenti il destino del mitile paradigmaticamente accettato dalla comunità scientifica, non possiamo dire con certezza che al termine della loro esperienza terrena i molluschi non ascendano ad un più altro ordine di significato. E questo si può dire di loro come per molti altri.
Si sa, tuttavia, che il tempo esercita la rovina, il vino l'acqua, la birra la spina. Come le cozze fa molto male se accidentalmente la si calpesta con uno o entrambi i piedi.
Ciò nonostante i medici suggeriscono di non prendere freddo (scozzigliano sic) e di prestare attenzione alla natura dei vertebrati. Giacchè c'è molta speranza, ma ancor più paranza.
Per cui non si è cozza per convenzione: se ricoperti di onori lo si è per menzione, se ricoperti di odori, per ordinazione.
Niente ghiaccio. Vivremo giusto fino ai cento gradi. Perfino cento, li vogliono, e fanno i bei tenebrosi. Quando, proprio come molti altri, non solo fanno i tipi coriacei, ma nemmeno sono belli.
(senza alcun riferimento speficico. Non a caso spezziamo una plancia al mitile ignoto)
martedì 28 dicembre 2010
Il ponte di Eraclito
Gira voce nelle città degli umani che Eraclito fosse stato, se non un uomo triste, almeno un filosofo triste.
Questa fama lo ha rivestito al punto che non ci si chiede più se Eraclito fosse o non fosse stato così e così, se avesse preferito pollo o spigola, mentre invece, laggiù gli uomini gli hanno dedicato un ponte.
Al di sotto dicono che stiano le lacrime di Eraclito, al di sopra dicono che vi stiano le loro. Nel mezzo i piccioni.
Dal ponte di Eraclito non si può passare, il che se ci pensa è un paradosso, ma fortunatamente non ci pensa nessuno, tranne i piccioni. Metà ponte è per quelli che camminano, l'altra metà per quelli che nuotano, dunque per i riflessi di quelli che camminano. I piccioni, esclusi, per questo si erano molto offesi e decisero che un uomo era qualcosa in meno di un piccione.
Urbani ed eleganti, un paio di piccioni muovendo la testolina avanti e indietro si complimentavano tra di loro per come quel pomeriggio gli alberi dondolassero così bene avanti e indietro. Uno di loro volle parlare dell'amico malato, che come tutti i piccioni malati, con le zampe aveva perso il senno e, confinato in un angoletto del ponte solo solo, con il piumaggio struffato, cercava inutilmente di persuadere tutti i piccioni che vedeva del fatto che le cose erano immobili.
Gli amici risero molto di questo fatto, sempre con piccioni diversi, perchè ogni volta che un piccione oscilla la testolina non trova più il piccione di prima. E' sempre un piccione più avanti, o uno più indietro.
A dispetto di quanto si pensi, i piccioni non possono affatto innamorarsi.
Quando gli tornava in mente questo fatto si rattristavano di colpo e se ne ritornavano al ponte di Eraclito, dove se non aspettava loro l'amore, li aspettava l'acqua.
E tutte le volte, con il tramonto finiva la tristezza che tuttavia era un'angoscia ancora piena di sole, ed iniziavano a piangere sul fiume e sulla luna, ma sempre su un fiume ed una luna diversi.
Confondevano le lacrime con l'acqua. Un piccione non si farebbe mai veder spargere lacrime da un uomo.
Quando un piccolo piccione chiede chi sia mai stato questo Eraclito gli viene appunto risposto che era stato un uomo, e che dunque sicuramente non ha mai detto nulla di intelligente, o anche ammesso che lo abbia fatto, nulla che possa riguardare i piccioni.
stare mare
Tornado e Tempesta si trascinano per i portici fieri dei loro soprannomi.
Tornado è alto un metro e settantotto centimetri, dalla mamma ha ereditato lineamenti molto delicati e dal papà occhi molto convenzionali. Veste un solo colore per volta.Tempesta è bassa e magra, non ha ereditato nulla dai genitori e, se pure fosse, se lo è già tinto diverse volte. La faccia cattiva di Tornado, quella che lo rende rispettato cioè che gli garantisce il suo soprannome, prende forma in un’estrema rilassatezza del volto che induce i pesci piccoli a ritrattare scherzosamente quello che hanno appena affermato e i pesci medi a riportare dignitosamente la conversazione su un piano più adulto. I pesci grandi lo conoscono. Tempesta conosce solo l’insulto, le minacce e le botte.
Il rapporto che li lega trae forza dalla sua indefinibilità. Sì, sono stati insieme i primi anni del liceo, poi si sono lasciati, si sono rimessi insieme per poi lasciarsi ancora. Ora fanno sesso sporadicamente, alcuni li chiamano “migliori amici”. Non so se esista un solo esempio di quella coppia aperta fantasticata dai teorici della libertà sessuale, quel tipo di rapporto dove gelosia e possesso sono pallidi ricordi del patriarcato e l’accoppiamento un gioco come un altro che ammette preferenze ma non esclusività; se esiste non è questo il caso. Tutti ricordano le apparizioni spettrali dell’estrema rilassatezza facciale di Tornado, tra le luci intermittenti del BlackOutRockClub, vorticare attorno al corpo danzante di Tempesta, sabato scorso verso l’una e mezza, le due. Solo Martina invece ricorda il calcio che le è arrivato da sotto il tavolo quando due giorni fa, alla riunione del collettivo, ha fatto un’allusione di troppo sulla contraddittorietà che i tipi tranquilli come Tornado esprimerebbero al letto.
Vongola saltella nervoso per i portici in direzione identica e verso contrario a Tornado e Tempesta. Esistono cinque storie sull’origine del suo soprannome, due sicuramente false, due parzialmente vere e una così assurda da far sballare anche la logica fuzzy. Avete presente l’imbarazzo quando scendete alla stessa fermata di una ragazza e prendete la stessa strada, con lei che si gira nervosamente affrettando il passo e voi che tentate di fare la faccia più innocua e svagata di cui siete capaci ma che a lei sembra solo perversamente ipnotizzata sulla visione allucinatoria di un futuro crimine sessuale? Vongola si sente così con tutte le persone, in tutte le situazioni. Ha capito di non fare paura a nessuno e per questo ha paura di tutti.
La comitiva che frequenta lo ha mandato a saldare un buffo con uno spaccino testa di cazzo, gli hanno dato una serie di ordini comportamentali contraddittori sperando che faccia qualche stronzata e venga devastato di botte. Un po’ per avere un pretesto per chiudere i rapporti con lo spaccino testa di cazzo, un po’ per le botte in sé. L’ultima volta che Vongola ha avuto a che fare anche con gli elementi più gerarchicamente inesistenti della criminalità organizzata si è trovato a reinventare il suo intero albero genealogico per escludere ogni parentela con le forze dell’ordine.
Quando Vongola entra nel campo visivo di Tornado e Tempesta, Tempesta dice “C’è mio fratello, attraversiamo”. Quando Vongola nota Tornado e Tempesta che si muovono come gamberi verso la strada, cerca l’espressione più adatta per salutarli ma l’unica cosa che riesce a dire è “LA MACCHINA!”, salvando dalla morte (o forse dall’ospedale) i due distratti fuggiaschi che, per assicurarsi di fare in tempo, avevano tenuto gli occhi incollati sul ripugnante ma provvidenziale Vongola, muovendosi verso la strada come gamberi.
In questi momenti Tempesta pensa che le persone deboli e penose come suo fratello siano state ricompensate in qualche modo da Dio che, come in un gioco di ruolo, non può creare personaggi quantitativamente inferiori ad altri, ma solo distribuire in maniera diversa i punti nelle varie qualità disponibili. Allora Vongola avrebbe un cuore pieno di bontà ma povero di coraggio, una straripante empatia per tutte le creature del mondo e una beffarda incapacità a relazionarcisi come cristo comanda. Ma in questi momenti Tempesta sa bene di teorizzare cazzate. Lei sa che il soprannome del fratello deriva dai drammatici siparietti di agonia mollusca che metteva in scena prima di strappare gli esserini, ormai (purtroppo per lui) morti, dalla loro conchiglia natale.
Tuttavia in questi momenti Vongola si sente il cuore pieno di bontà e tutt’altro che povero di coraggio al punto da riuscire a chiedere un favore personale abbassando gli occhi solo un paio di volte.
Ora lo spaccino testa di cazzo se la vedrà con Tornado.
giovedì 16 dicembre 2010
Coollage
- la abbiamo scritta io e kyuss
- la abbiamo scritta 5 versi per uno, kyuss è più veloce di me, si alzava e tornava e io dovevo ancora iniziare
- non ero tanto capace
- 5 versi per uno significa 2 blocchi-monadi-moloch da 5 versi. poi la compenetrazione, un blocco nell'altro. abbiamo innestato i versi dove ci sembrava più opportuno, con i dovuti aggiustamenti. non mi sono spiegato bene.
- 2 versi jolly, creati nel momento della FUSIONE, per legare cose che evidentemente non c'entravano un cazzo l'una con l'altra
- non è vero, un po' c'entravano
- la cecità è percorrere la vista a ritroso
- venere di MILOS
Ciao. Tanto lo so che non ci siete, tranne Imago. A proposito: attendiamo con ansia, qui, maggiori dettagli sul fuoco dell'araldica.
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L'occhio governa l'attrito, dispone il corpo
in sezioni globulari, angoli sfocati, posture
della schiena – sembra quasi vedere
cioè piegare, mutare le parentesi al volume.
Che il freddo lo si spacchi fino al posto
della radice, o al cuneo esponenziale
di una seduta interminabile, altra
è la natura della resezione; in luogo
dello scontro, la sfera. Chi scrive
si sdraia sulla bocca: per tutto ci sono
capsule di secessione, notizie della luce.
Applicare l'occhio senza che sia adesivo,
ma al contrario il mondo, la guarnizione elastica
vergine e cruda come scogliera, per il solco delle maestranze
venerdì 19 novembre 2010
Misericardia
Qui il risultato precede la somma: la prima poesia riportata è stata scritta a quattro mani. Le due successive sono una rielaborazione del testo originale.
Ora vi spiego. Io Manuel ho sostituito i versi di lui Kyuss con altri versi (versi miei Manuel) nuovi di zecca, e lui Kyuss ha sostituito i miei Manuel versi con altri versi (versi suoi Kyuss). Sia io Manuel che lui Kyuss, inoltre, abbiamo alterato leggermente il testo laddove ritenuto (da Manuel e Kyuss, io e lui) necessario.
La poesia che trovate sotto la lettera R (che sta per Manuel) è quella di io Manuel.
La poesia che trovate sotto la lettera Z (che sta per Kyuss-Daniele) è quella di lui Kyuss.
Ciao (tanto lo so che non ci siete).
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Come una reliquia di mare, il fuoco ai consanguinei
si consegna alla sbarra - dove altrimenti
si riducono le anse, si ammainano le ombre
fino al rintocco dei polsi, la trasparenza che rileva
un calo eidetico, il collasso degli specchi d'acqua, la distanza
che ribalta il sangue, la polarità dei flussi.
C'è una persistenza dell'arco, un improvviso brillamento
percorre il binario della frattura: qui si avvita l'aria
percossa fra i treni e le banchine, indotta a un altro centro,
alla spina della voce. Niente sopravvive al vetro,
niente all'esplosione di una discrasia, e quindi una pioggia
regolare prova l'autenticità del distacco, la fibra inosservata
per l'accrescimento; e allora misericardia,
misericordia delle gole - non altrove si avvera il crampo,
l'accento del muscolo. Lo stesso niente
ora vibra, impatta il tronco, il palato della pagina.
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Z di Kyuss:
Come una reliquia di mare, il fuoco ai consanguinei
scioglie il sedimento; per lo stacco di un cristallo
si riducono le anse, si ammainano le ombre
che hanno lembi più vasti, sanno accelerare
il collasso degli specchi d'acqua; la distanza
di un accrescimento passi dall'incavo: intatta
c'è una persistenza dell'arco, un improvviso brillamento
che parla di una precessione delle stelle, di condensa
percossa fra i treni e le banchine, indotta a un altro centro
come il fiato; non l'inciso, non la distorsione angolare,
niente all'esplosione di una discrasia; quindi una pioggia
regolare, la pietra in cui passavano i nervi e le maree
in accrescimento; e allora misericardia,
misericordia delle gole, se qui si vede il taglio che stende
la sua mano per segnare convalli, le baie in coalescenza.
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R di Manuel:
Questo buio è un difetto del corpo,
si consegna alla sbarra. Dove finisce il contatto
comincia un osso, la sporgenza esatta
delle basi. Così fino al rintocco dei polsi
la trasparenza rileva un calo eidetico, l'onda
che ribalta il sangue, la polarità dei flussi.
L'ago testimonia il peso controluce, percorre il binario
della frattura: qui si avvita l'aria
inclusa fino al centro, alla spina della voce.
Niente sopravvive al vetro, al varco stretto
del fuoco. Perciò un calore uniforme prova
l'autenticità del distacco, la filigrana invalicabile.
Non sentiamo la pioggia, ma un'acqua minore,
una detrazione sintattica, quanto della linea
inaugura il tratto. Non altrove
si avvera il crampo, l'accento del muscolo. Lo stesso niente
ora vibra, impatta il tronco, il palato della pagina.
domenica 14 novembre 2010
Excessus de-mentis
Tutto questo non è ecologico-
L'ecologia diventa marketing, la Crusca finalmente si arrende supplicando l'altro Norton di aver ancora un minimo da dire senza ricorrere al C++. La risposta è gelida, quell'uomo sa il fatto suo, arreda a modo l'ultima mandata di funzioni in sette variabili e, con la nonchalance dell'abile registratore di massa, richiude le staffe e se le porta a liquidare in conto lasciando incustoditi i poveri intelluttuali davanti alla BNL. Pare che non ci sia più scampo, l'ultimo paio di tappi per le orecchie arrivava dal Mississippi: è l'E-commerce. Ora che sono stati incassati quei letterati bagordi come nella bara, anche l'E-commerce ha il suo alto di ph di acidità, la sua anidride carbonica da transistor.
Dalla moquette, il popolo degli Hacker, attratto dai nostri progressi informatico-economici ha risalito la catena delle Password, diffondendo virus a noi sconosciuti. L'epidemia si è sfortunatamente trovata a coincidere con la crescita demografica del 21esimo secolo. Migliaia di utenti ammalati inquinano internet trasmettendo il morbo ed immobilizzando il motore di ricerca. E' stato appena scoperto che un uso smodato della tastiera produce gas tremendamente dannosi che fanno tossire le dita dell'ozono per tutta la notte. Le madri sospirano, mentre ritirano il loro tostapane giapponese "Ehh, erano anni che lo desideravo; il mio phon". Il 90% della popolazione brancola ormai nella cecità più assoluta.
Dopo una lunga seduta di storpiamento, i nuovi verdi dichiarano soddisfatti come si chiamerà il vecchio modo di commerciare, quello vecchio, si, quello dove si andava alla Pam per la nuova felpa della Nike 100% quasi cotone. Ebbene si chiamerà:E-cologic. "-Un genuino modo di investire senza rallentare la rete comune-" pontifica il vero Norton (rigorosamente non scaricato da Internet) "-per un Internet più veloce, prendi l'automobile!-".
Ebbene, grazie a questo nuovo interesse verso l'ecologia (o meglio, E-cologia), verso la riduzione dello spreco sono da riscrivere ed opportunamente ristampare tutti i vocabolari e tutti i libri di economia.
Non finisce qui-
Ci pensa, lei, a quanti starnuti ha fatto in tutta la mattina? Ha idea di quanto inquinino due pacchetti di fazzoletti? Ha idea di quanto ci mette Madre Natura a disperdere i materassi del suo muco? Ci pensa? E allora ecco, la smetta di starnutire. Via tutti i raffreddati, o moriremo tutti!
Ah, e poi le mutande! Che spreco! Non si vedono nemmeno, perchè si ostina a generare biancheria nei suoi cassettoni IKEA? Via, via le mutande e via anche gli storpi, lo sa lei quanto ci mette Madre Terra per smaltire un dito intero? Ed ognuno di loro ha idea di quanti potrebbe averli persi? E dove poi? Magari un po' di costui parcheggia sotto la sua auto! Ci pensa!?
Ci pensi! Pensi a quanto occorre al cielo per dimenticare i nostri sguardi, pensi solo a quanti passi vengono sprecati dalle signore che dimenticano le chiavi a casa, pensi a quanto cibo buttiamo ogni anno per i nostri figli, i quali a breve finiranno sotto terra. E' uno spreco, un grande spreco. Impariamo da Keynes, pensiamo al lungo periodo!
Eh, si, gli uomini costano troppo ai boschi e rendono alla Phisis meno che le azioni del mercatino dell'usato.
Riflettendoci, l'unica vera scelta ecologica, in effetti, è stata solo la bomba atomica.
giovedì 28 ottobre 2010
Midrash delle rimesse
flessibili, di tavoli infinitamente risolti nel riscontro
periodico del tappo, la cautela che s’incrocia
sui banconi e più precisamente sul dorso, il sisma
dell’acciaio inox raccolto dentro ai muri, si spostano
le dita, il coinvolgimento: dove procede la separazione
degli involucri, il punto in cui suturano le schiume,
il presentimento della squalifica, la riproduzione
dell’infortunio che si avvera, come credere al fischio?
Niente somiglia alla simulazione, lo svolgimento
di complicità indotto tra la postazione e le buste.
Cos’è questa dizione che si slabbra per rifarsi al piede,
l’evento alla vena, il tuffo nel pieno della traslazione,
lo scivolamento del corpo nel discorso, quanto
l’allungamento sveli una lesione, un’altra fase di caduta
e un bellissimo esterno, l’estremo e il ritorno?
Chiamare al mondo il contatto, quindi vedere
quanto di strano ci liberi l’attimo della discesa
fino allo sbalzo tramortito, il compimento dell’ernia
in tutti gli inguini, l’incrocio di una ribattuta.
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Giustificazione (e, se necessario, ricoeurso):
"Quel che nell'imitazione diventa visibile è, quindi, proprio l'essenza autentica della cosa"
Per dire che la simulazione, insomma, non si configura tanto come possibilità. Piuttosto, come indagine. Esplorare, appunto, lo spettro del possibile, le maglie dell'infortunio, le trattenute, accantonare il ri-serbo, la devozione meccanicistica, trascinare la gamba fino all'anello che non tiene (fatalmente, proprio il TERZO blu). Preferire, una buona volta, l'inesistenza all'insistenza, Dio a Portanova. La simulazione: anche, nelle sue derive estreme: designare i limiti propri dell'immagine, l'impossibilità di replicare la velocità (vale a dire l'impossibilità della stessa immagine di simulare, di dire altro da sé - ad esempio sul dorso nel buio - la mancanza d'aria, la sua bolla di autismo), la scansione che inibisce il pericolo (pensate a Giacometti), la sua insufficienza dinamica, la falsificazione che, di fatto, origina dalla sospensione, dal congelamento, dalla vivisezione frame per frame sui tavoli sterili del laboratorio, la provetta tv, infine, che abolisce l'inerzia chimica dell'evento, la reazione-relazione tra evento e accadimento dell'evento. E viene da chiedersi, anche, se l'evento non esaurisca la propria portata proprio nell'accadimento, e qualsiasi valutazione successiva non sia necessariamente inattendibile (soprattutto: come giustificare un'ulteriore verifica?), incapace di descrivere l'affollamento delle forze in gioco, costretta com'è a forzare le irregolarità in uno svolgimento piano, a frenare il significato cinetico dell'evento fino alla rimozione, alla pacificazione del perimetro. E quindi la simulazione come forma superiore di critica (dove la critica è indistinguibile dall'epicentro, dall'impatto), discorso sull'immagine - e l'immagine, invece, incapace di riferire altro dal cono di luce. Ma, infatti, deferire.
venerdì 22 ottobre 2010
Suite
Cavour è morto a casa e in parlamento, niente colpi di testa per lui ma l’aderenza facile e felice a un’ideale piattezza novarese, al taglio geometrico e distinto: non le fughe con le amanti né interruzioni al suono del campanello o del telefono, né la rincorsa verticale dopo il rumore dell’elicottero in volo o il merlo fuori dalla finestra vago: invece lo scivolare, di piatto, sulla superficie delle cose, con la lama tagliente dell’ombelico spinta per tutti i ripiani, le mensole, i mobili di casa: il pensiero delle ciabatte fuori dalla porta, il conteggio del pane e la lattuga, il ripetersi in tutte le stanze di un bel soffitto a cassettoni.
Il Conte di Cavour con tutto il suo misurato passeggiare non può dar conto della minima ampiezza del suo sguardo né traversarlo fino in fondo, cosa che una mosca può: appiattendosi fastidiosamente tra la cornea ed il reale, spigoloso, spinto fuori: così misura il passo alla sua impronta tra un estremo di abbandono e un diktat: mentre pensa da solo ad alta voce tutto il suo discorso è un ultimatum che ogni giorno rimanda, uguale, al giorno dopo.
Cavour ventitreenne si nasconde vergognoso tra le righe fitte e le foto di Novara Magica: scarmigliato e già gli occhi pignoli di chi non sopporta i puntini alle troppe i del proprio nome: indifferente come un epicureo troppo attratto dalle pietre del proprio giardino e distratto delle piante se non grasse, troppo applicato all’arte di star seduti dritti sulla sedia, rigido impiccato allo schienale: è la sfiga di abitare i baluardi di una città priva di viuzze pur standone lontano né averla mai vista, messa in croce dalla rete gettata delle strade scavate tra cardo e decumano.
Otto Bismark cammina per i portici del centro col passo di marcia della sua sciabola al fianco: ogni inciampo, ogni deviare inavvertito per scampar alla deriva di un passante è il fiorire per l’aria di cicatrici in linea retta: così si sfoga, con centocinquant’anni di ritardo, la pazienza asburgica: contando con lo sguardo e l’aria tersa i fili d’erba dell’aiuola smunta che ha davanti, la raccolta differenziata della carta e le lattine, il ritardo previsto dei treni alla stazione.
lunedì 4 ottobre 2010
"così per conoscere l'immensità bisogna non capire niente, perdere ogni intelligenza, non conoscerla"
come volerla la compassione quando ancora
non siamo che l' infanzia, la mano con cui
reggi quel bicchiere, sortiti a quel qualcosa
che ti porta via, così vicini a questo fuoco?
da cos'è quest'escissione, anni che si tirano
alla lama che li ha presi? oppure l'ira scesa
dai flagelli riparati, contesi per le piaghe
tese al fondo, come a contenere, contendere
le cose, il ribasso della voce? o ancora è il
punto di una stessa diffusione, lo schiaffo
in croce, sottotraccia, insoluto al meglio
dei propri replicanti, di ciò che mi parlò
di te, quanto riposi male queste mie mani?
[dello spettro; la consonanza è disconoscere, assorbire in corpo
Hebron piantato addosso un fucile, controlli e ripartenze con le grate alle
[finestre, sorridere in posa ai documenti sfogliati,
il fastidio che qui la dissonanza siamo noi e la nostra radio sulla strada,
[nebbia che trasmette tutto ciò che è andato e ci fa ancora:
*
come tirare la pelle dei sinedriti
fino a farla saltare, passare per le logge
respingenti dell'aria, posare lo scarto
come un'intersezione, rendere immobile
ciò che si ama con la stessa trazione?
*
non li voglio i dogmi, non ancora, finché
resti il solco della stagnazione fuori dal Verbo
che si è fatto carne dilacerandosi dal Padre,
non voglio nemmeno ciò che è mio se arriva,
solo questa luce non ha smesso di irradiare
*
ho una sola matricola ed è abrasa, sono molti
e a molti sembro, quando una sola è ancora
la tratta per l'approdo, il nuovo arresto per la
medesima scelta di non esserci più per stare
svegli, capirsi nella traiettoria che non ha una
condizione pari, né un termine per questa veglia
*
non basta una sola inondazione a contenere i ghiacci, il ricambio di accordi
[universali, ma è la ripresa semicosciente: la separazione
vede le armonie disimparate, il suono rauco dei sopravvissuti dentro ai cicli
[delle acque che riempiono i sommersi, l'apocalisse semplice,
il non dare nulla da pensare oltre la conflagrazione, l'inutile superamento,
[rovina lucida come il volere degli imbelli
che regge agli spergiuri, deportati nudi oltre lo spazio che si rompe fuori
[da ogni storia e resta esposto in ciascuna voce
martedì 14 settembre 2010
.
(Questo l’ho imparato lavorando al Museo: ) Ut pictura poiesis: siccome non so disegnare scrivo. (Siccome non so disegnare alla maniera manierista che vorrei, scrivo poco e male.)
Corvi
L’incrociarsi di sottili e spesse linee nere come tagli, lungo tutto lo spazio della tela, attraverso il fondo bianco grezzo: con la grazia celere di certi scarabocchi (appuntati sul bloc-notes mentre si parla al telefono o si segue una lezione noiosa all’università) che non vengono al nodo e insieme la crudeltà precisa e rappresa del tocco del coltello o bisturi: non che siano veri squarci, sulla materia viva: non sono fughe verso altre dimensioni o altri lidi, ma linee, più o meno nettamente incise, e tali stanno. L’incrociarsi di sottili e spesse linee nere attraverso il fondo bianco grezzo: sono corvi (e ne informa pure il titolo): e poiché dal simile segue il simile com’è noto, facile giudicare il loro significato dalla dieta: e la snellezza e la crudeltà e perché ogni ghirigoro termini con un punto, ben definito, simile in tutto e per tutto a un minimo occhio.
venerdì 3 settembre 2010
"e lui idiota correva ancora per le pianure devastate e semplici della sua agonia"
finire in preda ai denti di chi? l'attrazione
che ritorna è la terra dove siamo in troppi
all'unica richiesta; e se spiegarsi è fare attese
una ad una e portarle via, quando saremmo usciti
dalle nostre case? un riguardarsi curvi e vedersi
come mani; e sono ancora rotte le nostre mani
tese a estrarsi per le ossa come figli, rese estranee
ad ascoltarsi perché parto di argilla non sia fatto
dal taglio; che per tutto questo Amos abbia visto
dal crollo del santuario fino all'annichilazione
è proprio perché diritta è la malattia che viene
dal giunco migliore, dal discendere lungo sangue
mai versato se non per l'arresto dei tempi: non
fidarti di chi non risponde mai al padre, veglia
sul pianto, dimentica fermandosi di voce in voce
*
(i tratti di questa eucaristia sono di un lividume
ciclotronico – i masoreti e le aggiunte lasciano
Qumran, unico maschio di un dio celato alla
pigrizia degli addii, dei salti in parti uguali –
è olivastro, spinge e non porta a bruciare, prende
altro genere di radici, raggio di un'unica salute)
Allah è grande alle quattro di notte e poco dopo
si ferma la voce inserita nell'impianto dei minareti,
preregistrata – chi vende l'incenso fissa le bilance –
ma non si annega a En Gedi prima che alla porta
di Damasco nell'ora di preghiera, pronti al digiuno
la sapienza non grida per le strade, non grida a noi
almeno, se non si nega nei fermi del traffico
o nel sabato finanziato degli ebrei – sempre troppa
l'America rimasta ai quattro poli – o i giorni
di Ramadan che portano il presagio, le adunate
notturne collettive scoperchiate dalla gola
dei muezzin, da supino all'osso degli addii
di un'unica salute nell'attimo che tiene l'ombra,
che si ritorce invano dalle mura, spegne
il simulacro, la cessazione degli occhi.
*
(meditare come la forma delle mani riprenda il lato
di un ritorno delle luci al Verbo, nella sola incarnazione
fatta ombra, rimessa al posto originario della voce
lasciata qui, in questa pietra, meditare come
la forma delle mani, stanza riaperta per un figlio,
il netto che segna la luce nella sola divisione
che ci fa ombra, che propende al tempo originario
della voce, lasciato qui, in queste pietre, meditare
come la forma delle mani, la stretta che qui
si è allargata, vetta per l'antro che ci ha fatti
ombre, inchiodata, sospenda il vento originario
della voce, lasciato qui, in questa pietra...)
[...]
Voglio fare la velina- Ballata della pallottola potabile
Hi, Barbie . . .Hi, Kan . . .
Do youwanna go for a ride ?
Sure,Ken. . .Jump in !
(Sung)I'm a Barbie girl, in a Barbie world,
Life in plastic, it's fantastic.
You can brush my hair, undress me everywhere,
Imagination, life is your creation.

Una riproduzione delle illustrazioni di Takeshi Obata, a partire dalla copertina. Dalla prima all'ultima, credo meriterebbe tutto di essere rifatto, mentre fuori giocano a calcetto, ed è come oscillare. Potrei di gran lunga continuare a rotolarmi nel letto, mentre il tempo è terribile, il tempo del pendolo appeso alla vetta della montagna magica. Continua il tempo, esso tempo, ad inclinare le vette. Per non sentire il rumore delle pietre di Sisifo, che urlano la loro stanchezza alla valle: DISEGNATE.
Sfugge l'anima e Galatea, che dire, ti capisco. Ingrata, pallida e scorta ti scorticano i pensieri della penna, ancora innanzi al tempo (scappa!). Tempo matto, io credo che non fosse proprio da bersi. Ma quantunque, DISEGNATE. E non state a piangere innanzi case rotte, vi porgono fazzoletti (o peggio ancora la camicia). Questo scandalo lo dovrete pur sempre caricare sulle vostre spalle das schwerste Gewicht, mani di morto da sotto la tomba ci credono eterni, che ci arraffino le caviglie come quel famoso spazio, infinito intervallo nei nostri pensieri: ancora il tempo.
Prima regola: guardarsi alle caviglie->non si è mai certi di non essere il primo degli immortali.
Un uomo morto non è un uomo, dimentica la carne animata dalla fine e scivola, scivola proprio ai nostri piedi, e chiede il continuum. Perchè evidentemente ha dimenticato anche (com'è) la vita. Qui giace il sepolcro di Mnemonide..

"E' tutto finito, è tutto finito!" Et in infinitum, proprio una bella illustrazione (sta sul retro di un libro carino), ma il quadrato nero centrale mi sembrava troppo indulgente. O comunque troppo generale. La tragedia è particolare, è una ritirata della luce. Questo nulla di cui pretendiamo avidamente i mozziconi, gli scarti inerti di pensieri fitti e ripidi, ci chiede un solo punto; bussa alla nostra porta ed a palme aperte vuole il nostro atomo opaco del male. Ci somministriamo la morte. Che con l'argomento del sorite un giorno ci beffa e d'un tratto l'Acheronte si prende tutte le nostre carte.
Beato 2010! Beata tecnologia! (Viva il corso programmatori! kkk)
Non ci sarà un altro pietoso espediente per altri Promessi Sposi (stanno scomparendo anche i promessi sposi). Facciamo iniziare la storia da quella prima memoria che si lasciava profanare dal segno, dalla scrittura, si, perchè "è rimasta". Quindi finiamola qui, una tastiera per rispondere ai famosi interrogativi di Condorcet: no, No, NO. Nessuno frugherà nei nostri cassetti ritrovandovi ciò che per gli ingenui è la celeste dote negli umani. Tutto questo che ora scivola, scivolando passa ancora più sotto che la parola, si confonde con il brusio del pubblico di Forum e diversamente dai disegni sulle caverne, con il magico tocco di un programmatore brufoloso torna al nulla. et in infinitum
Leggere fa male agli occhi, per altro. Smettete di leggere.
Poi guarda se devo ritrovarmi in una stazione troppo grande e mangiarmi le mani per la "trasparenza dell'organismo", quando dovrei disegnare, quando dovrei solo e soltanto disegnare, cristiani e decostruzionisti, DISEGNATE, con il decadentismo nel G-pen esattamente come tutti gi altri. Come tutti, oh Dio concedimi la mediocrità!
E invece io ho il tempo! L'urgenza e il tempo, nemmeno un'animella piccina così. Solo corpo, nel tempo, e con l'urgenza di essere. Come se non sapessi, si, proprio come l'ultimo degli imbecilli devo caricarmi appresso l'ombra infame di un essere umano. Kierkegaard in mezzo alla stanza che diceva "io voglio" era pazientemente ascoltato dal mefistofele nascosto tra i libri. Lui aveva un'anima. Io no.
Basta, la verità è che l'importante è saper disegnare Lelouch alla perfezione. Colorare come le clamp aiutandosi anche con quel che basta dell'autrice di Sayuki, per quanto riguarda le pieghe del vestiario. Conta solo DISEGNARE. et in infinitum-
(mi hanno sparato il tempo. e l'ho bevuto.)
giovedì 26 agosto 2010
La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri.
Insomma, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo di Baricco consultabile gratuitamente (cosa abbastanza insolita visto chi c'è di mezzo) e poiché sono stronzo dentro e magari c'è tra voi chi come me non spende i suoi denari per quest'uomo, vi reindirizzo al sudetto terribile. Leggetene, ridetene e poi continuate pure a piangere, tanto non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/08/26/news/barbari_2026-6516602/
(a quanto pare l'articolo è stato originariamente pubblicato su una certa WIRED. Non so di cosa si occupi questa rivista ma da quel che vedo titolare in copertina sembra essere non diversamente trascurabile come buona parte di tutte le altre)
http://www.wired.it/magazine/archivio/2010/09/storie/i-nuovi-barbari.aspx
mercoledì 25 agosto 2010
Come un vecchio rimorso o un vizio assurdo
Due giorni fa, in una stanza dell'Hotel Boston a Milano, gestito da un pakistano in divisa da ussaro, guardando una ragazza che dormiva come un gomitolo sulla sponda opposta, ho cominciato a rivalutare le puttane. Mi dicevo che quando il giorno filtra dalle tapparelle e inchioda la polvere a mezz'aria la soluzione all'abbandono si sente nelle vertebre e smette di essere una questione di riconoscimento affettivo, o di impulsi riproduttivi. È una faccenda più antica dell'impeto a popolare il mondo, più ancestrale ancora dei primati che si spulciano a vicenda. Risale ai nostri progenitori monocellulari, che sciamano lungo le correnti calde: è una faccenda termica. Come se durante un massaggio cardiaco scivolasse la mano sulle tette della moribonda: non sarebbe pornografia, sarebbe sopravvivenza. Mi chiedevo, quindi, quanto costassero al grado le puttane, e se ne fosse disponibile una con almeno trentotto di febbre. Poi scorrevo mentalmente i miei Levi, Crowley, Kremmertz, alla ricerca di qualcosa come uno stupro emotivo, la formula che frantuma il corpo astrale. Per dormire si contano i diavoli.
è vero che per essere salvati ci vuole un certo physique du role. Prima le donne e i bambini. Anche gli emo. E i dieci migliori cosplayer della fiera, complimenti a loro. E soprattutto quelli che “sembravano bellissimi”, per non deludere le fangirl. Ma, insomma, per me non preghi e non hai alcuna intenzione di salvarmi, non ce n'è bisogno. Dev'essere per via della barba. L'ho lasciata crescere mentre ero impegnato a salvarmi da solo, come Robinson. Di curioso c'è che mi guardi e ti senti in colpa, e non so se ti senti in colpa per quello che sono io, per quello che sei tu, o per tutto quanto non riusciamo ad essere. Non m'importa, però. Pietà, colpa, gratitudine, crollo delle alternative, una scommessa, il cavallo di briscola, quattro case a Vicolo Stretto: mi va bene tutto per non perdere ogni mano.
Poi ritrovo tutto quanto mi riguarda nell'indice analitico dei parerga e paralipomena di Maria de Filippi, e mi faccio un poco schifo. Ad esempio, quando mi rendo conto che sarei potuto scendere dal nostro interregionale praticamente ad ogni stazione e ad ogni stazione chiamare qualcuna e dire qualcosa del tipo “cinque anni fa parlavamo della catastrofe come se l'avessimo appena inventata, ricordi? Adesso sei la mia buona ragione per fuggire, e ti ho portato un libro”. E poi lei sarebbe venuta a prendermi e il ridicolo ci avrebbe uccisi entrambi a cinque metri di distanza, come una saetta. Oppure, dovrei quantomeno dare un senso alla paranoia che ti fa storcere il collo per strada, al delirio di lasciare aperta la porta del bagno mentre pisci per assicurarti che io non scappi nel frattempo. Dovrei separare nettamente, al posto tuo, l'ora in cui si può fare a meno di qualcuno da quella in cui si può solo fare a meno di tutto il resto. Ma l'idea di andarmene per farti capire fa ridere le capre, e io mi vergogno già abbastanza così.
La cosa che mi ulcera più il fegato, di questa faccenda come di tutte le altre, è che le parole non servono. Così mi vedo a sgolarmi come il miglior Chaplin sul balcone del Reichstag mentre, là sotto, i soldati arrostiscono salsicce negli elmetti, un paio di dadi neri e rossi di peluche dondola dal cannone di un Panther G e nessuno ha la minima intenzione di partire per il fronte. Ma la sera, al ristorante cinese, se Dio mi ascolta i camerieri si moltiplicano in milioni di Guardie Rosse e attraversano il mare a nuoto fino alle coste del Giappone, bruciano tutti i manga e tappezzano i muri di Realismo Socialista, figure marziali con le spalle larghe e il taglio di capelli d'ordinanza, ragnatele di rughe sulla faccia dei contadini, occhi mongolici a fessura, difetti e imperfezioni ad ogni angolo: un mondo in cui il tuo problema principale smette di essere il brufolo sopra il labbro che ti controlli allo specchio quindici volte in due ore, e diventa l'evidenza palese che non hai capito un cazzo di niente.
martedì 24 agosto 2010
kawaii k-way (diciamo così)
Come tacuina sanitatis, lì
mentre certamente: ruet machina, sorellina
ti parlerei di notti senza mestrui, di sfere rugginose
della cera che come un imbuto chiude i lacci, della suola traforata
ma niente. Mi si addicono le cose sceme, il leptòs
Come sei bella nel tuo stretching, nei tuoi piegamenti emotivi
solo a me sembri bella
no, questo non va bene
Dunque sei bella, davvero bella, come saresti anche in una poesia di De Angelis
con la pista di atletica e i capannoni. Io ti invoco, icona DIADORA, attrezzatura sportiva
Sei TUTTA la mia vita. Sento che il mondo avviene
nel cappuccio del k-way.
tute di acetato. jersey degli inverni. vestiti blu di jersey aderenti. niente. stai con me.
domenica 22 agosto 2010
E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -.
Jorge Borges, Finzioni.
venerdì 13 agosto 2010
2 mesi di noi, ti amo cucciolo mio
Ci vuole stomaco equino per digerire un altro kebap
martedì 10 agosto 2010
Dall'oggi al domani - Breve monologo biografico sul realismo magico
Oggi invece non so più stirare, meglio, non ne sono più capace. Per quanto mi ostini a passare il ferro caldo sulle pieghe queste non scompaiono e piuttosto se ne creano di nuove, sempre meno acconciabili. Per quanto insista ad inumidire il tessuto questo sembra risultare ancora più secco ai tentativi di appianamento e pure finisco col ritrovarmi in mano abiti zuppi d'acqua. Fa nulla, mi ridurrò a partire con una valigia di abiti ancora più ridicoli, ma non è questo il punto. In realtà c'è da dire che non v'è proprio nessun punto e forse farei meglio a fermarmi qui, sebbene la cosa migliore sarebbe stata proprio non cominciare e allora tanto vale proseguire.
Secondo lo Scida io vivo come in un racconto di Marquez. A mio avviso invece sembra di vivere come in un racconto dei miei, perché sono più brutti, e comunque la sostanza non cambia. Non riesco ad alzare la polvere dal pavimento, l'unica cosa che rimedio sono parquet graffiati e macchiati d'acqua tanto li lavo e tanto li spazzo. Appena accendo un fornello la cucina si riempie di olio, tutto è unto, anche ciò che con la massima cura avevo riposto nel fondo delle credenze. Sui muri si aprono crepe per le quali la casa sarebbe già dovuta crollare da anni e sulle pareti c'è una muffa di cui sembro accorgermi soltanto io. Quando entro in cucina qualcosa squittisce (o stride, non ne sono ben sicuro) come se dei topi corressero per la stanza e ovviamente non c'è nulla. Incrostazioni di grasso talvolta appaiono sul pavimento e spesso non mi riesce di toglierle nemmeno con lo scalpello. Un giorno scompaiono come erano apparse e qualche tempo dopo le ritrovo un po' più in la. Sebbene abbia sottoposto i più recessi anfratti della mia casa a scrupolosissimi controlli non riesco a capire da dove escano gli orribili insetti che sembrano infestare l'appartamento ed i cui corpi puntualmente scompaiono dopo un po' che li si è ammazzati, come in un videogioco dei vecchi tempi. Nell'antibagno continua ad alleggiare un nauseabondo odore di verze con patate e quando apro l'acqua per lavarmi le mani il rubinetto spesso grida di dolore. Puntualmente, per quanto tanti e diversi prodotti anticalcare io possa applicare alla doccia, dopo due o tre giorni al massimo la bocchetta dell'acqua torna ad otturarsi come se niente fosse successo. E i libri hanno ricominciato a sparire, sempre quelli a cui sono più affezionato. Il primo fu il Silmarillion di Tolkien, adesso è accaduto a Casi di Charms. Ho anche pensato all'eventualità che qualcuno potesse entrarmi in casa con un paniere e rubarmi i volumi, come accadeva al fu professor Bernardino Lamis, ma così non è.
E tante altre cose di questo genere
Risolvere le equazioni, ovvero un discorso intorno all'omicidio
La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.
Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.
Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.
D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.
giovedì 5 agosto 2010
Il nudo sidonita.
«Cosa fai - chiese - seduta lì tutta sola?»
«Io non sto seduta - rispose - io sono in cammino.»
«In cammino verso chi?»
«Verso Dio.»
«Sei morta o viva?»
«Spero di essere morta al mondo e viva in Dio.»
«In questo caso - disse Serapione - scendi in strada e vieni a passeggio».
Ella protestò, ma il "pazzo" le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto ad una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi».
Scandalizzata, la vergine rifiutò.
«La gente penserà che io sia pazza!»
«E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?» Ella rifiutò.
«Vedi sorella - disse Serapione - fa attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».