martedì 10 agosto 2010

Risolvere le equazioni, ovvero un discorso intorno all'omicidio

Pare che qui ci siano nuove cose. Ci vuole del coraggio postplatonico, ci vuole stomaco equino per copiare la copia di una copia. Scida scrive, è diventato grande, gli passerà. Di Manuel non posso dir niente, da questa fortificazione agli antipodi. Ipazia ha avuto fortuna all'estrazione annuale dei nomi, e questo è quanto. Dunque parliamo della morte, come se ne avessimo lo stesso disperato bisogno di sempre. Mi chiedevo quanto a lungo si possa giocare con l'idea di sconfitta, prima che si consumi. Per quanti secoli disporre i ranghi nella pianura, serrare le fila e attendere. E poi a che punto il respiro della nostra giustizia diventa troppo corto, e siamo allora parte del medesimo evento, un organo del nemico o il coniglietto d'ombra proiettato dalle sue dita.

La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.

Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.

Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.

D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.

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