giovedì 28 ottobre 2010
Midrash delle rimesse
flessibili, di tavoli infinitamente risolti nel riscontro
periodico del tappo, la cautela che s’incrocia
sui banconi e più precisamente sul dorso, il sisma
dell’acciaio inox raccolto dentro ai muri, si spostano
le dita, il coinvolgimento: dove procede la separazione
degli involucri, il punto in cui suturano le schiume,
il presentimento della squalifica, la riproduzione
dell’infortunio che si avvera, come credere al fischio?
Niente somiglia alla simulazione, lo svolgimento
di complicità indotto tra la postazione e le buste.
Cos’è questa dizione che si slabbra per rifarsi al piede,
l’evento alla vena, il tuffo nel pieno della traslazione,
lo scivolamento del corpo nel discorso, quanto
l’allungamento sveli una lesione, un’altra fase di caduta
e un bellissimo esterno, l’estremo e il ritorno?
Chiamare al mondo il contatto, quindi vedere
quanto di strano ci liberi l’attimo della discesa
fino allo sbalzo tramortito, il compimento dell’ernia
in tutti gli inguini, l’incrocio di una ribattuta.
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Giustificazione (e, se necessario, ricoeurso):
"Quel che nell'imitazione diventa visibile è, quindi, proprio l'essenza autentica della cosa"
Per dire che la simulazione, insomma, non si configura tanto come possibilità. Piuttosto, come indagine. Esplorare, appunto, lo spettro del possibile, le maglie dell'infortunio, le trattenute, accantonare il ri-serbo, la devozione meccanicistica, trascinare la gamba fino all'anello che non tiene (fatalmente, proprio il TERZO blu). Preferire, una buona volta, l'inesistenza all'insistenza, Dio a Portanova. La simulazione: anche, nelle sue derive estreme: designare i limiti propri dell'immagine, l'impossibilità di replicare la velocità (vale a dire l'impossibilità della stessa immagine di simulare, di dire altro da sé - ad esempio sul dorso nel buio - la mancanza d'aria, la sua bolla di autismo), la scansione che inibisce il pericolo (pensate a Giacometti), la sua insufficienza dinamica, la falsificazione che, di fatto, origina dalla sospensione, dal congelamento, dalla vivisezione frame per frame sui tavoli sterili del laboratorio, la provetta tv, infine, che abolisce l'inerzia chimica dell'evento, la reazione-relazione tra evento e accadimento dell'evento. E viene da chiedersi, anche, se l'evento non esaurisca la propria portata proprio nell'accadimento, e qualsiasi valutazione successiva non sia necessariamente inattendibile (soprattutto: come giustificare un'ulteriore verifica?), incapace di descrivere l'affollamento delle forze in gioco, costretta com'è a forzare le irregolarità in uno svolgimento piano, a frenare il significato cinetico dell'evento fino alla rimozione, alla pacificazione del perimetro. E quindi la simulazione come forma superiore di critica (dove la critica è indistinguibile dall'epicentro, dall'impatto), discorso sull'immagine - e l'immagine, invece, incapace di riferire altro dal cono di luce. Ma, infatti, deferire.
venerdì 22 ottobre 2010
Suite
Cavour è morto a casa e in parlamento, niente colpi di testa per lui ma l’aderenza facile e felice a un’ideale piattezza novarese, al taglio geometrico e distinto: non le fughe con le amanti né interruzioni al suono del campanello o del telefono, né la rincorsa verticale dopo il rumore dell’elicottero in volo o il merlo fuori dalla finestra vago: invece lo scivolare, di piatto, sulla superficie delle cose, con la lama tagliente dell’ombelico spinta per tutti i ripiani, le mensole, i mobili di casa: il pensiero delle ciabatte fuori dalla porta, il conteggio del pane e la lattuga, il ripetersi in tutte le stanze di un bel soffitto a cassettoni.
Il Conte di Cavour con tutto il suo misurato passeggiare non può dar conto della minima ampiezza del suo sguardo né traversarlo fino in fondo, cosa che una mosca può: appiattendosi fastidiosamente tra la cornea ed il reale, spigoloso, spinto fuori: così misura il passo alla sua impronta tra un estremo di abbandono e un diktat: mentre pensa da solo ad alta voce tutto il suo discorso è un ultimatum che ogni giorno rimanda, uguale, al giorno dopo.
Cavour ventitreenne si nasconde vergognoso tra le righe fitte e le foto di Novara Magica: scarmigliato e già gli occhi pignoli di chi non sopporta i puntini alle troppe i del proprio nome: indifferente come un epicureo troppo attratto dalle pietre del proprio giardino e distratto delle piante se non grasse, troppo applicato all’arte di star seduti dritti sulla sedia, rigido impiccato allo schienale: è la sfiga di abitare i baluardi di una città priva di viuzze pur standone lontano né averla mai vista, messa in croce dalla rete gettata delle strade scavate tra cardo e decumano.
Otto Bismark cammina per i portici del centro col passo di marcia della sua sciabola al fianco: ogni inciampo, ogni deviare inavvertito per scampar alla deriva di un passante è il fiorire per l’aria di cicatrici in linea retta: così si sfoga, con centocinquant’anni di ritardo, la pazienza asburgica: contando con lo sguardo e l’aria tersa i fili d’erba dell’aiuola smunta che ha davanti, la raccolta differenziata della carta e le lattine, il ritardo previsto dei treni alla stazione.
lunedì 4 ottobre 2010
"così per conoscere l'immensità bisogna non capire niente, perdere ogni intelligenza, non conoscerla"
come volerla la compassione quando ancora
non siamo che l' infanzia, la mano con cui
reggi quel bicchiere, sortiti a quel qualcosa
che ti porta via, così vicini a questo fuoco?
da cos'è quest'escissione, anni che si tirano
alla lama che li ha presi? oppure l'ira scesa
dai flagelli riparati, contesi per le piaghe
tese al fondo, come a contenere, contendere
le cose, il ribasso della voce? o ancora è il
punto di una stessa diffusione, lo schiaffo
in croce, sottotraccia, insoluto al meglio
dei propri replicanti, di ciò che mi parlò
di te, quanto riposi male queste mie mani?
[dello spettro; la consonanza è disconoscere, assorbire in corpo
Hebron piantato addosso un fucile, controlli e ripartenze con le grate alle
[finestre, sorridere in posa ai documenti sfogliati,
il fastidio che qui la dissonanza siamo noi e la nostra radio sulla strada,
[nebbia che trasmette tutto ciò che è andato e ci fa ancora:
*
come tirare la pelle dei sinedriti
fino a farla saltare, passare per le logge
respingenti dell'aria, posare lo scarto
come un'intersezione, rendere immobile
ciò che si ama con la stessa trazione?
*
non li voglio i dogmi, non ancora, finché
resti il solco della stagnazione fuori dal Verbo
che si è fatto carne dilacerandosi dal Padre,
non voglio nemmeno ciò che è mio se arriva,
solo questa luce non ha smesso di irradiare
*
ho una sola matricola ed è abrasa, sono molti
e a molti sembro, quando una sola è ancora
la tratta per l'approdo, il nuovo arresto per la
medesima scelta di non esserci più per stare
svegli, capirsi nella traiettoria che non ha una
condizione pari, né un termine per questa veglia
*
non basta una sola inondazione a contenere i ghiacci, il ricambio di accordi
[universali, ma è la ripresa semicosciente: la separazione
vede le armonie disimparate, il suono rauco dei sopravvissuti dentro ai cicli
[delle acque che riempiono i sommersi, l'apocalisse semplice,
il non dare nulla da pensare oltre la conflagrazione, l'inutile superamento,
[rovina lucida come il volere degli imbelli
che regge agli spergiuri, deportati nudi oltre lo spazio che si rompe fuori
[da ogni storia e resta esposto in ciascuna voce
martedì 14 settembre 2010
.
(Questo l’ho imparato lavorando al Museo: ) Ut pictura poiesis: siccome non so disegnare scrivo. (Siccome non so disegnare alla maniera manierista che vorrei, scrivo poco e male.)
Corvi
L’incrociarsi di sottili e spesse linee nere come tagli, lungo tutto lo spazio della tela, attraverso il fondo bianco grezzo: con la grazia celere di certi scarabocchi (appuntati sul bloc-notes mentre si parla al telefono o si segue una lezione noiosa all’università) che non vengono al nodo e insieme la crudeltà precisa e rappresa del tocco del coltello o bisturi: non che siano veri squarci, sulla materia viva: non sono fughe verso altre dimensioni o altri lidi, ma linee, più o meno nettamente incise, e tali stanno. L’incrociarsi di sottili e spesse linee nere attraverso il fondo bianco grezzo: sono corvi (e ne informa pure il titolo): e poiché dal simile segue il simile com’è noto, facile giudicare il loro significato dalla dieta: e la snellezza e la crudeltà e perché ogni ghirigoro termini con un punto, ben definito, simile in tutto e per tutto a un minimo occhio.
venerdì 3 settembre 2010
"e lui idiota correva ancora per le pianure devastate e semplici della sua agonia"
finire in preda ai denti di chi? l'attrazione
che ritorna è la terra dove siamo in troppi
all'unica richiesta; e se spiegarsi è fare attese
una ad una e portarle via, quando saremmo usciti
dalle nostre case? un riguardarsi curvi e vedersi
come mani; e sono ancora rotte le nostre mani
tese a estrarsi per le ossa come figli, rese estranee
ad ascoltarsi perché parto di argilla non sia fatto
dal taglio; che per tutto questo Amos abbia visto
dal crollo del santuario fino all'annichilazione
è proprio perché diritta è la malattia che viene
dal giunco migliore, dal discendere lungo sangue
mai versato se non per l'arresto dei tempi: non
fidarti di chi non risponde mai al padre, veglia
sul pianto, dimentica fermandosi di voce in voce
*
(i tratti di questa eucaristia sono di un lividume
ciclotronico – i masoreti e le aggiunte lasciano
Qumran, unico maschio di un dio celato alla
pigrizia degli addii, dei salti in parti uguali –
è olivastro, spinge e non porta a bruciare, prende
altro genere di radici, raggio di un'unica salute)
Allah è grande alle quattro di notte e poco dopo
si ferma la voce inserita nell'impianto dei minareti,
preregistrata – chi vende l'incenso fissa le bilance –
ma non si annega a En Gedi prima che alla porta
di Damasco nell'ora di preghiera, pronti al digiuno
la sapienza non grida per le strade, non grida a noi
almeno, se non si nega nei fermi del traffico
o nel sabato finanziato degli ebrei – sempre troppa
l'America rimasta ai quattro poli – o i giorni
di Ramadan che portano il presagio, le adunate
notturne collettive scoperchiate dalla gola
dei muezzin, da supino all'osso degli addii
di un'unica salute nell'attimo che tiene l'ombra,
che si ritorce invano dalle mura, spegne
il simulacro, la cessazione degli occhi.
*
(meditare come la forma delle mani riprenda il lato
di un ritorno delle luci al Verbo, nella sola incarnazione
fatta ombra, rimessa al posto originario della voce
lasciata qui, in questa pietra, meditare come
la forma delle mani, stanza riaperta per un figlio,
il netto che segna la luce nella sola divisione
che ci fa ombra, che propende al tempo originario
della voce, lasciato qui, in queste pietre, meditare
come la forma delle mani, la stretta che qui
si è allargata, vetta per l'antro che ci ha fatti
ombre, inchiodata, sospenda il vento originario
della voce, lasciato qui, in questa pietra...)
[...]
Voglio fare la velina- Ballata della pallottola potabile
Hi, Barbie . . .Hi, Kan . . .
Do youwanna go for a ride ?
Sure,Ken. . .Jump in !
(Sung)I'm a Barbie girl, in a Barbie world,
Life in plastic, it's fantastic.
You can brush my hair, undress me everywhere,
Imagination, life is your creation.

Una riproduzione delle illustrazioni di Takeshi Obata, a partire dalla copertina. Dalla prima all'ultima, credo meriterebbe tutto di essere rifatto, mentre fuori giocano a calcetto, ed è come oscillare. Potrei di gran lunga continuare a rotolarmi nel letto, mentre il tempo è terribile, il tempo del pendolo appeso alla vetta della montagna magica. Continua il tempo, esso tempo, ad inclinare le vette. Per non sentire il rumore delle pietre di Sisifo, che urlano la loro stanchezza alla valle: DISEGNATE.
Sfugge l'anima e Galatea, che dire, ti capisco. Ingrata, pallida e scorta ti scorticano i pensieri della penna, ancora innanzi al tempo (scappa!). Tempo matto, io credo che non fosse proprio da bersi. Ma quantunque, DISEGNATE. E non state a piangere innanzi case rotte, vi porgono fazzoletti (o peggio ancora la camicia). Questo scandalo lo dovrete pur sempre caricare sulle vostre spalle das schwerste Gewicht, mani di morto da sotto la tomba ci credono eterni, che ci arraffino le caviglie come quel famoso spazio, infinito intervallo nei nostri pensieri: ancora il tempo.
Prima regola: guardarsi alle caviglie->non si è mai certi di non essere il primo degli immortali.
Un uomo morto non è un uomo, dimentica la carne animata dalla fine e scivola, scivola proprio ai nostri piedi, e chiede il continuum. Perchè evidentemente ha dimenticato anche (com'è) la vita. Qui giace il sepolcro di Mnemonide..

"E' tutto finito, è tutto finito!" Et in infinitum, proprio una bella illustrazione (sta sul retro di un libro carino), ma il quadrato nero centrale mi sembrava troppo indulgente. O comunque troppo generale. La tragedia è particolare, è una ritirata della luce. Questo nulla di cui pretendiamo avidamente i mozziconi, gli scarti inerti di pensieri fitti e ripidi, ci chiede un solo punto; bussa alla nostra porta ed a palme aperte vuole il nostro atomo opaco del male. Ci somministriamo la morte. Che con l'argomento del sorite un giorno ci beffa e d'un tratto l'Acheronte si prende tutte le nostre carte.
Beato 2010! Beata tecnologia! (Viva il corso programmatori! kkk)
Non ci sarà un altro pietoso espediente per altri Promessi Sposi (stanno scomparendo anche i promessi sposi). Facciamo iniziare la storia da quella prima memoria che si lasciava profanare dal segno, dalla scrittura, si, perchè "è rimasta". Quindi finiamola qui, una tastiera per rispondere ai famosi interrogativi di Condorcet: no, No, NO. Nessuno frugherà nei nostri cassetti ritrovandovi ciò che per gli ingenui è la celeste dote negli umani. Tutto questo che ora scivola, scivolando passa ancora più sotto che la parola, si confonde con il brusio del pubblico di Forum e diversamente dai disegni sulle caverne, con il magico tocco di un programmatore brufoloso torna al nulla. et in infinitum
Leggere fa male agli occhi, per altro. Smettete di leggere.
Poi guarda se devo ritrovarmi in una stazione troppo grande e mangiarmi le mani per la "trasparenza dell'organismo", quando dovrei disegnare, quando dovrei solo e soltanto disegnare, cristiani e decostruzionisti, DISEGNATE, con il decadentismo nel G-pen esattamente come tutti gi altri. Come tutti, oh Dio concedimi la mediocrità!
E invece io ho il tempo! L'urgenza e il tempo, nemmeno un'animella piccina così. Solo corpo, nel tempo, e con l'urgenza di essere. Come se non sapessi, si, proprio come l'ultimo degli imbecilli devo caricarmi appresso l'ombra infame di un essere umano. Kierkegaard in mezzo alla stanza che diceva "io voglio" era pazientemente ascoltato dal mefistofele nascosto tra i libri. Lui aveva un'anima. Io no.
Basta, la verità è che l'importante è saper disegnare Lelouch alla perfezione. Colorare come le clamp aiutandosi anche con quel che basta dell'autrice di Sayuki, per quanto riguarda le pieghe del vestiario. Conta solo DISEGNARE. et in infinitum-
(mi hanno sparato il tempo. e l'ho bevuto.)
giovedì 26 agosto 2010
La profondità sembra essere diventata una merce di scarto per i vecchi, i meno avveduti e i più poveri.
Insomma, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo di Baricco consultabile gratuitamente (cosa abbastanza insolita visto chi c'è di mezzo) e poiché sono stronzo dentro e magari c'è tra voi chi come me non spende i suoi denari per quest'uomo, vi reindirizzo al sudetto terribile. Leggetene, ridetene e poi continuate pure a piangere, tanto non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/08/26/news/barbari_2026-6516602/
(a quanto pare l'articolo è stato originariamente pubblicato su una certa WIRED. Non so di cosa si occupi questa rivista ma da quel che vedo titolare in copertina sembra essere non diversamente trascurabile come buona parte di tutte le altre)
http://www.wired.it/magazine/archivio/2010/09/storie/i-nuovi-barbari.aspx
mercoledì 25 agosto 2010
Come un vecchio rimorso o un vizio assurdo
Due giorni fa, in una stanza dell'Hotel Boston a Milano, gestito da un pakistano in divisa da ussaro, guardando una ragazza che dormiva come un gomitolo sulla sponda opposta, ho cominciato a rivalutare le puttane. Mi dicevo che quando il giorno filtra dalle tapparelle e inchioda la polvere a mezz'aria la soluzione all'abbandono si sente nelle vertebre e smette di essere una questione di riconoscimento affettivo, o di impulsi riproduttivi. È una faccenda più antica dell'impeto a popolare il mondo, più ancestrale ancora dei primati che si spulciano a vicenda. Risale ai nostri progenitori monocellulari, che sciamano lungo le correnti calde: è una faccenda termica. Come se durante un massaggio cardiaco scivolasse la mano sulle tette della moribonda: non sarebbe pornografia, sarebbe sopravvivenza. Mi chiedevo, quindi, quanto costassero al grado le puttane, e se ne fosse disponibile una con almeno trentotto di febbre. Poi scorrevo mentalmente i miei Levi, Crowley, Kremmertz, alla ricerca di qualcosa come uno stupro emotivo, la formula che frantuma il corpo astrale. Per dormire si contano i diavoli.
è vero che per essere salvati ci vuole un certo physique du role. Prima le donne e i bambini. Anche gli emo. E i dieci migliori cosplayer della fiera, complimenti a loro. E soprattutto quelli che “sembravano bellissimi”, per non deludere le fangirl. Ma, insomma, per me non preghi e non hai alcuna intenzione di salvarmi, non ce n'è bisogno. Dev'essere per via della barba. L'ho lasciata crescere mentre ero impegnato a salvarmi da solo, come Robinson. Di curioso c'è che mi guardi e ti senti in colpa, e non so se ti senti in colpa per quello che sono io, per quello che sei tu, o per tutto quanto non riusciamo ad essere. Non m'importa, però. Pietà, colpa, gratitudine, crollo delle alternative, una scommessa, il cavallo di briscola, quattro case a Vicolo Stretto: mi va bene tutto per non perdere ogni mano.
Poi ritrovo tutto quanto mi riguarda nell'indice analitico dei parerga e paralipomena di Maria de Filippi, e mi faccio un poco schifo. Ad esempio, quando mi rendo conto che sarei potuto scendere dal nostro interregionale praticamente ad ogni stazione e ad ogni stazione chiamare qualcuna e dire qualcosa del tipo “cinque anni fa parlavamo della catastrofe come se l'avessimo appena inventata, ricordi? Adesso sei la mia buona ragione per fuggire, e ti ho portato un libro”. E poi lei sarebbe venuta a prendermi e il ridicolo ci avrebbe uccisi entrambi a cinque metri di distanza, come una saetta. Oppure, dovrei quantomeno dare un senso alla paranoia che ti fa storcere il collo per strada, al delirio di lasciare aperta la porta del bagno mentre pisci per assicurarti che io non scappi nel frattempo. Dovrei separare nettamente, al posto tuo, l'ora in cui si può fare a meno di qualcuno da quella in cui si può solo fare a meno di tutto il resto. Ma l'idea di andarmene per farti capire fa ridere le capre, e io mi vergogno già abbastanza così.
La cosa che mi ulcera più il fegato, di questa faccenda come di tutte le altre, è che le parole non servono. Così mi vedo a sgolarmi come il miglior Chaplin sul balcone del Reichstag mentre, là sotto, i soldati arrostiscono salsicce negli elmetti, un paio di dadi neri e rossi di peluche dondola dal cannone di un Panther G e nessuno ha la minima intenzione di partire per il fronte. Ma la sera, al ristorante cinese, se Dio mi ascolta i camerieri si moltiplicano in milioni di Guardie Rosse e attraversano il mare a nuoto fino alle coste del Giappone, bruciano tutti i manga e tappezzano i muri di Realismo Socialista, figure marziali con le spalle larghe e il taglio di capelli d'ordinanza, ragnatele di rughe sulla faccia dei contadini, occhi mongolici a fessura, difetti e imperfezioni ad ogni angolo: un mondo in cui il tuo problema principale smette di essere il brufolo sopra il labbro che ti controlli allo specchio quindici volte in due ore, e diventa l'evidenza palese che non hai capito un cazzo di niente.
martedì 24 agosto 2010
kawaii k-way (diciamo così)
Come tacuina sanitatis, lì
mentre certamente: ruet machina, sorellina
ti parlerei di notti senza mestrui, di sfere rugginose
della cera che come un imbuto chiude i lacci, della suola traforata
ma niente. Mi si addicono le cose sceme, il leptòs
Come sei bella nel tuo stretching, nei tuoi piegamenti emotivi
solo a me sembri bella
no, questo non va bene
Dunque sei bella, davvero bella, come saresti anche in una poesia di De Angelis
con la pista di atletica e i capannoni. Io ti invoco, icona DIADORA, attrezzatura sportiva
Sei TUTTA la mia vita. Sento che il mondo avviene
nel cappuccio del k-way.
tute di acetato. jersey degli inverni. vestiti blu di jersey aderenti. niente. stai con me.
domenica 22 agosto 2010
E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -.
Jorge Borges, Finzioni.
venerdì 13 agosto 2010
2 mesi di noi, ti amo cucciolo mio
Ci vuole stomaco equino per digerire un altro kebap
martedì 10 agosto 2010
Dall'oggi al domani - Breve monologo biografico sul realismo magico
Oggi invece non so più stirare, meglio, non ne sono più capace. Per quanto mi ostini a passare il ferro caldo sulle pieghe queste non scompaiono e piuttosto se ne creano di nuove, sempre meno acconciabili. Per quanto insista ad inumidire il tessuto questo sembra risultare ancora più secco ai tentativi di appianamento e pure finisco col ritrovarmi in mano abiti zuppi d'acqua. Fa nulla, mi ridurrò a partire con una valigia di abiti ancora più ridicoli, ma non è questo il punto. In realtà c'è da dire che non v'è proprio nessun punto e forse farei meglio a fermarmi qui, sebbene la cosa migliore sarebbe stata proprio non cominciare e allora tanto vale proseguire.
Secondo lo Scida io vivo come in un racconto di Marquez. A mio avviso invece sembra di vivere come in un racconto dei miei, perché sono più brutti, e comunque la sostanza non cambia. Non riesco ad alzare la polvere dal pavimento, l'unica cosa che rimedio sono parquet graffiati e macchiati d'acqua tanto li lavo e tanto li spazzo. Appena accendo un fornello la cucina si riempie di olio, tutto è unto, anche ciò che con la massima cura avevo riposto nel fondo delle credenze. Sui muri si aprono crepe per le quali la casa sarebbe già dovuta crollare da anni e sulle pareti c'è una muffa di cui sembro accorgermi soltanto io. Quando entro in cucina qualcosa squittisce (o stride, non ne sono ben sicuro) come se dei topi corressero per la stanza e ovviamente non c'è nulla. Incrostazioni di grasso talvolta appaiono sul pavimento e spesso non mi riesce di toglierle nemmeno con lo scalpello. Un giorno scompaiono come erano apparse e qualche tempo dopo le ritrovo un po' più in la. Sebbene abbia sottoposto i più recessi anfratti della mia casa a scrupolosissimi controlli non riesco a capire da dove escano gli orribili insetti che sembrano infestare l'appartamento ed i cui corpi puntualmente scompaiono dopo un po' che li si è ammazzati, come in un videogioco dei vecchi tempi. Nell'antibagno continua ad alleggiare un nauseabondo odore di verze con patate e quando apro l'acqua per lavarmi le mani il rubinetto spesso grida di dolore. Puntualmente, per quanto tanti e diversi prodotti anticalcare io possa applicare alla doccia, dopo due o tre giorni al massimo la bocchetta dell'acqua torna ad otturarsi come se niente fosse successo. E i libri hanno ricominciato a sparire, sempre quelli a cui sono più affezionato. Il primo fu il Silmarillion di Tolkien, adesso è accaduto a Casi di Charms. Ho anche pensato all'eventualità che qualcuno potesse entrarmi in casa con un paniere e rubarmi i volumi, come accadeva al fu professor Bernardino Lamis, ma così non è.
E tante altre cose di questo genere
Risolvere le equazioni, ovvero un discorso intorno all'omicidio
La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.
Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.
Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.
D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.
giovedì 5 agosto 2010
Il nudo sidonita.
«Cosa fai - chiese - seduta lì tutta sola?»
«Io non sto seduta - rispose - io sono in cammino.»
«In cammino verso chi?»
«Verso Dio.»
«Sei morta o viva?»
«Spero di essere morta al mondo e viva in Dio.»
«In questo caso - disse Serapione - scendi in strada e vieni a passeggio».
Ella protestò, ma il "pazzo" le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto ad una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi».
Scandalizzata, la vergine rifiutò.
«La gente penserà che io sia pazza!»
«E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?» Ella rifiutò.
«Vedi sorella - disse Serapione - fa attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».
mercoledì 4 agosto 2010
Choralyst si sposa
L'ultima volta che abbiamo visto Choralyst, era già grandicello. Si trovava da qualche parte tra la matematica e l'esistenza, se non ricordo male, mentre ad oggi Choralyst ha venti anni, età in cui a quel paese lì, bisogna prendere moglie.
Così una buona volta si mise in cammino per quel giardino di notte e di vecchi con il cappello, che poi è sempre il solito giardino con i lampioni curvi dell'altra volta. Ascoltando le papere allo stagno, pensava che sarebbe stata l'occasione per imparare a parlare, e poi che sarebbe stata proprio l'occasione per imparare a parlare a dissiparsi per nulla, quel giorno. E che si, bisognava proprio cambiare aria, per Choralyst.
Bisogna tener presente come è fatto un Choralyst. Uno scansafatiche da taschino, perchè con Choralyst d'impulso ci si metteva la giacca ed un apposito cappello, ed era forse la bruttezza il suo distintivo, visto che Choralyst (per chi non l'avesse capito) era il Brutto tempo.
Un provincialotto, figlio bastardo di una pioggia acida di città ed il suo temporale occasionale. Da piccolo la madre lo portava spesso a visitare i bei monumenti, gli alti obelischi e i campanili a zonzo sulle chiese. Lo teneva per mano, insensibile alla sequela di sguardi in tralice, alle frequenti offese che, da sgualdrina, costanentemente la perseguitavano. Così Choralyst aveva imparato la storia, aveva imparato a leggere grazie alle iscrizioni tombali di certi papi con il naso all'ingiù. Vi si appassionò con esagerato entusiasmo e quando al decimo compleanno ricevette in regalo un piccolo cimitero in periferia, Choralyst tuonava di gioia.
Dalle tombe, aveva imparato il silenzio.
Sebbene il padre fosse sempre stato in giro per lavoro, la vita di Choralyst è in generale una comune vita da brutto tempo: un po' più di una pioggerella, un po' meno di un acquazzone. Ebbe anch'esso le proprie disgrazie: aveva sedici anni quando per via di un'ordinanza comunale il piccolo cimitero agreste fu distrutto in favore di una nuova Kiko e Choralyst si ritrovò a piagnucolare per qualche tempo ed in diverse direzioni. Come tutti i tutti i pellegrini, cercava ospitalità, del pane, forse una candela.
Ma quando chiedeva: -Avreste un piccolo cantuccio per un brutto tempo?-
Tutti rispondevano più o meno la stessa cosa: -Vogliamo solo aria pulita e belle giornate, torni quando avrà un po' più di sole-
Dunque, una alla volta tutte le porte si chiusero. E Choralyst, triste e sconsolato, vide bene di sistemarsi dietro il primo cancello che vide.
Il parchetto comunale: qui lo ritroviamo; con papere.
Per quanto ci avesse riflettuto, Choralyst non aveva proprio idea di come si potesse trovare moglie. In compenso aveva una minima idea di chi fosse Cesare Pavese.
-Ma a che serve- oscillò tra i rami -A che serve avere una moglie, picchio artistico?-
-Oh- sfrattando un'ala dal proprio buco, l'amico apparve. -serve se vuoi imparare a parlare-
-E noi, non stiamo forse parlando?-
-Si, ma non stiamo dicendo niente.-
Il picchio artistico accese il piumaggio un po' troppo nero (mentre affievolì quello un po' troppo bianco). Il picchio era un artista, sosteneva che nessuno avrebbe mai rotto il suo silenzio. Poteva solo picchettare.
-In ogni caso, se si deve..che se serva o non serva..si deve. Dove si trovano le mogli, allora, amico?-
-Ho letto che in un giardino come questo tanto tempo fa c'era qualcosa di simile.-
-Quindi crescono anche nei giardini-
- Pare. E pare che si chiamasse Eva.-
-E come fai a dire che assomigliava ad una moglie?-
-Il Doktoro Serpertivago mi ha detto che è stata la prima moglie della storia-
Il dott. Serpentivago era (ed è) un grande lettore.
-Bene!- Esclamò Choralyst battendo i nembi. -Mi diresti, amico rumoroso, come si arriva a questo giardino?-
-Mi pare si chiami Eden, dovresti andare alle stalle e prenderti un buon destriero. Dal nome sembra un posto molto lontano.-
-D'accordo. Allora, batteresti una mezza per me, picchio artistico?-
-Senz'altro.- Il picchio artistico battè la mezza e come una saetta Choralyst pervenne alla stalla.
Nella stalla di quel piccolo paese dimoravano tre cavalli.
Choralyst aprì la pesante porta di legno. La prima cosa che vide, fu che ne mancava uno e che gli altri due sembravano in qualche modo parenti, non proprio gemelli, ma forse fratelli, o sorelle. Choralyst non perse tempo, ma successivamente accolse l'occasione di perderlo; pertanto si interessò inutilmente di dove fosse il terzo cavallo.
-Il tevzo cavallo..-ghignò quello nel lotto centrale -quel buono a nulla!-
-Non essere così severo. Il cavallo estetico sarà di ritorno appena lo vorrà il vento, io sono il cavallo religioso, lui è il cavallo etico.-
Il cavallo etico si inchinò. Choralyst fece altrettanto.
-Ti andrebbe- proruppe Choralyst - di accompagnarmi al giardino dell'Eden?-
-io?!-
Bisogna tenere di conto che il cavallo etico ha gli zoccoli così pesanti che non può assoutamente essere utilizzato nelle passeggiate. A parte questo, fa tutto ciò che fanno gli altri cavalli, ma spesso è di cattivo umore, perchè appunto, non può fare tutto quello che fanno gli altri cavalli.
-Infatti non può trottare, nè correre-
-io?! senti cosa dice questo. Io mi sono risoluto di essere un cavallo che vive nella sua stalla, non altro.-
Nell'accostarsi a Choralyst, l'altro ridusse il tono della voce.
-Non si lasci ingannare dal paraocchi, sa...soffre molto per non poter galoppare e battere lo zoccolo se non arriva il fieno. Ne soffre davvero molto, così quel paraocchi gli serve per non aver sempre innanzi l'evidenza. Insomma, lo fa sentire più normale. Non vede il sole se non da qui..del resto.-
Choralyst fece cenno di aver capito, si scusò profusamente con il cavallo etico e domandò al disponibile quadrupede infine, dove avrebbe potuto trovare un mezzo per arrivare al giardino dell'Eden.
-l'accompagnerò io, allora.-
Senza dilungarsi in melliflui ringraziamenti, Choralyst si pose sopra il cavallo religioso per dirigersi assieme verso il tanto atteso amore dell'Eden.
Dispera e Melanconia: i frutti dello spirito
Galoppa, galoppa, i due arrivarono innanzi alla Piana delle talpe.
Le talpe, come si sa (grazie signor Beckett), non sono mai sobrie; infatti anzichè costruire sulla terra, costruiscono sotto terra. In questa Piana, tuttavia, si radunavano tutte le talpe che volevano uscire dal giro dell'alcool, e che qui si ritrovavano a loro disposizione una grande quantità di sabbia offerta dallo Stato (per questo è più un deserto che una piana, ma in fondo la talpa è ubriaca anche nel dare i nomi) con cui costruivano i loro primi castelli di sabbia in superficie.
Choralyst non si aspettava affatto uno spettacolo così arido: di giardini non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Prima che ponesse qualsiasi questione, il cavallo religioso prese accordi con una vecchia talpa dall'aria solenne. Fattisi tre, essi scesero fin dentro un vecchio tunnel sacro cosparso di rum e Porto (presumibilmente il Porto di Jurambalco), il quale tra l'altro, oltre ad essere piuttoso melmoso, emanava un certo cattivo odore.
In fondo al tunnel c'era un grande tappo di sughero. La talpa estrasse il tappo e scappò.
Nè Choralyst, tantomeno il cavallo religioso, trovarono in loro stessi la risposta alla domanda "che cosa accadde dopo?". Furono avvolti da diversi vini, poi a poco a poco il vino venne prosciugato dal Mar Rosso. E l'Eden apparve.
-Si- Pensò Choralyst -ora sono nel posto giusto, ma come faccio a sapere cosa devo cercare?-
-So io cosa cerchi- soggiunse d'un fiato il cavallo religioso. Trotterellava piano mentre parlava, così la sua criniera azzurra prendeva riflessi neri.
-E come, se non lo so nemmeno io?- obiettò Choralyst.
-Vedi la mia criniera? Ha preso riflessi neri perchè tu, che sei uno spirito nero, sei sopra la mia groppa. Quando qualcuno sale sopra di me, diventa parte di me, ed io posso trovare in me le sue risposte. Per questo non ho la sella nè le briglie, ma dirigo il viaggio nel migliore dei modi possibili.-
-Grazie a DIO!- Esclamò Choralyst in preda all'euforia. -Allora, dimmi, dove andiamo?-
-A cogliere una dispera o una melanconia: i frutti dello spirito-
Prima che l'altro potesse aprir bocca, il cavallo religioso assunse un andatura un po' più dinamica ed in una decina di minuti, occorsi al fine di una accurata ricerca, i due trovarono l'albero delle dispere e delle melanconie.
C'era un frutto giallo molto simile ad una pera.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Dispera.
C'era anche un frutto rosso simile ad una mela.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Melanconia.
-E qual'è la differenza?- chiese Choralyst.
Gli fu subitamente spiegato che molto tempo fa un altro essere fu portato in quel giardino, gli fu chiesto di scegliere, ma scelse male e da quel momento è entrato il male nel mondo.
-Quindi anche a lui fu chiesto di scegliersi una moglie?-
-In un certo senso- rispose il cavallo -in un certo senso aveva già una moglie, ma doveva scegliere se invitare o no il dott. Serpentivago al matrimonio.-
-Ma allora-Choralyst esclamò -io dovrei avere già una moglie per cogliere...-
-No, lui era una cosa diversa. Qui ci sono i due frutti che ti si addicono, uno porta da una parte, uno porta dall'altra.-
-Ce n'è uno più buono dell'altro?-
-No, fanno ugualmente schifo-
-Allora in base a cosa posso scegliere?-
-Dipende se ti vuoi sposare in giallo o in rosso...-
-"L'uccello di Minerva esce sempre al tramonto"-
-"Meglio una gallina oggi che un uovo domani"-
Choralyst scelse la dispera. Era gialla, e gli era sempre mancato il sole, gli avevano detto.
-Hai fatto la tua scelta- disse il cavallo religioso. Ed insieme si avviarono finalmente verso casa.
Salutato l'ardente destriero, Choralyst varcò i cancelli del suo giardino. Decise di tenere la dispera con sè tra le nuvole. A vederla così sembrava una macchiolina gialla, ma con il tempo raggiunse le dimensioni del sole, poi di tutto il cielo, rendendo Choralyst decisamente più luminoso.
Forse avrebbe dovuto mangiarla, però, perchè dopo qualche mese prese i vermi e Choralyst rimase lì, addolorato, sospeso a mezz'aria.
Avrebbe potuto trovarsi un'altra moglie, ma aveva paura di fare la scelta sbagliata. Fu costretto a gettare la dispera al picchio artistico, perchè le concedesse degna sepoltura. Da lì poi crebbe una fogliolina, ma veniva sempre calpestata dai ragazzini del quartiere, che adesso che c'era sempre bel tempo venivano a giocare nel giardinetto comunale tutti i giorni.
Più bello e più infelice.
Nessuno ha dubbi sul fatto che Choralyst sia il cielo più disperato della storia.
POSSIBILE MURALES: Chi semina vento raccoglie tempesta. Chi esamina vento raccoglie i frutti dello spirito.
venerdì 30 luglio 2010
Il cavallo estetico e la scoperta della roulette russa
(...) In una situazione di inflazione galoppante la moneta è trattenuta dai soggetti per periodi non superiori a quelli necessari per gli acquisti giornalieri, e ciò provoca un vertiginoso aumento della velocità di circolazione del denaro che, a sua volta, causa un nuovo aumento dei prezzi.(...)
Anni fa sul nostro pianeta viveva anche un altro animale leggendario, oltre le grandi bestie alate delle vette e dei grandi vulcani innevati. C'è da dire che questo animale era leggendario, si, ma in ritardo; nel senso che anzichè stabilirsi sulle grandi penisole ricoperte dall'era glaciale (che a sua volta è un tempo ricoperto di ghiaccio), questo esemplare unico e schivo aveva caratteri molto più urbani: una creatura di mondo. Non sapeva fare a meno della cravatta, per esempio, delle palme d'oro di Niece e dei casinò.
Generalmente si stabilisce che il cavallo estetico si sia estinto solo pochi anni fa.
La cosa andò più o meno così:
Il cavallo estetico tende generalmente a mantenere il passo e la sinistra, anzi, pende proprio a sinistra, e cammina sulle orecchie, benchè in lui prevalgano decisamente gli zoccoli sul numero dei nasi. Quando qualcuno si confonde nel momento in cui arriva un carro trainato, rischiando di essere investito, al mio paese si dice che "ha tante zampe da non sentirne il rumore". Tale proverbio si riferisce proprio all'andatura vorticante del cavallo estetico, la quale fa sì che sia talmente disattento da sembrare sordo.
I cerchi nel grano sono le orme del cavallo estetico: le sue orecchie sono lunghe quasi come quelle dei conigli, perchè in fondo è un po' vile (infatti ha la coda di paglia, anche se non sta bene l'espressione), però non sono orecchie di coniglio, sono di cavallo, ma tirate fin all'inverosimile ed utilizzate a mo di elica. La sostanza è sempre la stessa. In fondo potete immaginare il cavallo estetico come un tema stirato due o tre volte fino alla lunghezza della quarta colonna.
Se vi passa davanti e non lo salutate potete stare tranquilli che la vostra distrazione non sarà punita per due ragioni: il cavallo ritorna sempre negli stessi luoghi, inoltre gli gira continuamente la testa, quindi il vostro cenno sarà facilmente scambiato con quello di qualsiasi altro possibile o impossibile.
Questo perchè il cavallo estetico è in larga misura un indifferente abitatore di circoli d'aria. E mangiatore di vento.
Un giorno arrivò per il cavallo estetico il momento di trovarsi una casa, dacchè il freddo cominciava ad intorpidire tutta la sua coda d'oro. Consapevole delle propria conoscenza del mondo metropolitano, decise per il momento di provvedere personalmente, rifiutando l'aiuto degli amici.
Gira una casa e girane un'altra, il cavallo estetico rimaneva sempre scontento in qualche cosa: un abbaino che sembra un naso storto, una finestra troppo lontana dal lago, qualche nido di troppo sotto il porticato fiorito.
Alla sera faceva molto freddo, ma ancora nessun rifugio, quindi il cavallo estetico stabilì di adagiarsi per riposare alla prima finestra illuminata. Sembrava tutto chiuso, era tardi.
Fu allora che girando a zonzo per la città, il cavallo estetico venne per la prima volta in contatto con un casinò.
Appena entrato attirarono subito la sua attenzione certe ruote variopinte dall'aspetto vagamente matematico che giravano per la grande gioia di molti. C'era anche una pallina, che piroettava da una cifra all'altra con grande precisione e professionalità.
-Una casa! Una casa trottola!- Bastò un secondo al cavallo estetico, subito si informò sul nome di quella cosa. Chiedeva: -come si chiama quella?-
-Oh, ma si chiama roulette-
-Ed è libera?-
-In che senso- sospirava il vecchio scommettitore con le palpebre venose -in che senso è libera?-
Il cavallo estetico è un tipo di poche parole, ma di grande fiducia recettiva. -In fin dei conti-, si disse, - io la vedo senza inquilino, da molto. Dunque sarà disabitata.-
Ora bisogna sapere che il cavallo estetico non supera in altezza un gattino di qualche anno, per questo ha perpetuamente una visione distorta delle cose. Par contre le vede tutte senza fine.
In virtù della sua minuta statura, si lanciò a capofitto nella roulette. Da lì ebbe inizio tutta la sua errante felicità: il cavallo estetico girava, in mondo girava, la gente rideva alla sua vista, o lo osservava estremamente interessata fino a quando non si fermava per ringraziare. Allora c'era sempre uno che lo acclamava a gran voce.
Il cavallo estetico era molto contento perchè aveva una casa che girava e anche lui girava, anche se non sapeva molte cose. Intanto i suoi ammiratori crescevano, a dismisura, oramai riempivano tutta la stanza e tutte le altre ruote, tranne la sua, erano state rimosse o spostate.
Presto anche il cavallo estetico fu rimosso e spostato nei più famosi casinò del mondo. Andò a Nizza, a Montecarlo a Las Vegas. La gente pagava per vederlo, lui si sentiva unico (ed in effetti lo era, ma questo è tra le cose che non sapeva).
Corse quasi su tutte le roulette del mondo, anzi, lo avrebbe fatto davvero, avrebbe davvero corso su tutte le roulette del mondo se un giorno non avesse preso quella sbagliata.
Era capitato nel bel mezzo di una roulette russa.
venerdì 16 luglio 2010
Fiffo, dici le cose sagge con parole semplici
Ethan: a via Ugo Foscolo non arriva l'alluvione; Melchior: sei proprio simpatico. Vento: sempre ti muovi e sempre resti fermo. Aria: sempre sei mossa e sempre resti ferma. Luce: non so se ti muovi, fiffo: dici cose con parole semplici.
Imago: dici cose. Immagino che siano nuove. Luca: scegli di tenere ancora. Mario: non c'entri niente. Scida: uccidi i tuoi figli come le cattive notizie. Famedoro: Fiffo: offendi il cielo con parole semplici.
Scida: dici cose. Imago che siano fermi. Luca: sei proprio sotto. Mario: mendichi vento. Luce: non so se riposi. Vento: ti fai dire le cose con parole semplici. E per questo: io ti-Accarezzo: Imago: sei buono con tutti noi.
Scida: fai una brutta fine. Fine: sei arrivata presto, ti aspettavo per le quattro. Marica: sei un po' in ritardo. Ritardo: scida, stai tranquillo. Famedoro: Imago: dice cose. Non le sento: sono buone notizie. Scida: sono buone notizie, hai sentito? Scida? Scida?
Scida: ti uccidono come la luna. Luna: perdonalo, non sa quel che l'acqua. Famedoro: Marica: sono un po' triste. Stai tranquillo: è solo scida.
Ripeto, neanche le ore mortali: potrebbero sottrarci a questo incanto. Melchior: sei simpatico. Cose: dite fiffo con parole semplici. Foto: dico fiffo. Raffreddore: Famedoro: Scida: Mario.
Enixa: sceglie di tenere ancora. Webster: secondo lui no. Fiffo: ha il naso otturato. È l'arancia: o la Svizzera, non lo so.
Scrima: grazie di tutto. Scrima: non piangere. Scrima: scida: Marica dice di no. Secondo Webster.
Forgive them, even if they are not sorry

Esistono momenti, nella vita di un essere umano. Esistono. Forse non sarebbe il caso di scrivere un resoconto di ieri sera, anche perché ne ho già letti troppi e nessuno di questi mi sembrava degno, anzi: diciamo che tutti questi mi hanno fatto a loro modo incazzare come una biscia. Forse non sarebbe il caso, sì, ma io non ho mai dato ascolto al mio orgoglio o alla mia razionalità.
Si è tenuto un concerto, a Vigevano, ieri sera. L'artista in questione si chiama Julian, Julian Casablancas e non ho intenzione di descrivere "quanto fosse dannatamente sexy" nè "quanto le sue mani fossero morbide" nè "quanto i suoi capelli fossero gialli" (cito testualmente, non me ne vogliate.).
No, questo è già stato scritto, e mi pare superfluo.
Al concerto di ieri ho pianto, ho pianto moltissimo, appoggiata alla transenna (conquistata con un'attesa di ore), la macchina fotografica tra le mani che tremavano senza sosta, la voce bloccata in gola, il respiro sospeso.
Julian casablancas è un po' il mio mito, un po' quello che perdonerei sempre, anche se trattasse male i fan, o se steccasse di continuo. Lui è quello che ha scritto le canzoni che hanno segnato i momenti migliori della mia vita, e forse anche i peggiori, quelle canzoni che sono, come credo di aver già detto, il mio dolcevita quando ho il mal di gola e il ghiaccio quando il caldo mi opprime.
Io mi ci rifugio nella sua voce, accogliente bassa e un po' ruvida, è stata la mia compagna quando il mondo fuori pareva non volermi, nonchè la cura ad ogni mio sbalzo d'umore.
Lui è forse un po' quello che mi ha fatto diventare quella che sono adesso.
Ieri sera, per la prima volta in vita mia, l'ho visto, davvero, davanti a me, in carne ed ossa, non dentro ad uno schermo, nè su una piatta pagina di giornale.
Lui era lì, in pantaloni rossi e maglietta da metallaro sfigato, ad un metro da me.
E non me ne fregava nulla di "palaparlo" piuttosto che di "urlargli un sonoro Julian I love you" (sempre citazioni), avrei piuttosto voluto abbracciarlo, in silenzio, come si fa con un vecchio amico.
E dirgli grazie, grazie di tutto.
Non l'ho fatto, non l'ho neppure aspettato dopo il concerto. Avrei potuto, avrei voluto, ma non l'ho fatto e benché non avrei minimamente saputo cosa dirgli e benché il comportamento di alcune persone mi avrebbe irritato infinitamente, continuo a chiedermi perché io non l'abbia fatto.
Ma forse i miti devono rimanere tali, oppure, semplicemente, c'è tempo. Per ora mi accontento di un live visto in prima fila, con la sicurezza del fatto che almeno una volta mi abbia guardato negli occhi. E forse ce l'ha visto un "grazie", chissà...
Questa è la mia esperienza di ieri sera. Ma ora, col vostro consenso, mi piacerebbe trattare un argomento più attuale e interessante: l'originalità e la normalità.
Vi risparmio l'introduzione, perché ho un poco di timore. Cominciamo in medias res.
C'è stato un periodo in cui anche io guardavo le belle fotografie, anche io cercavo di essere parte integrante della gente figa. Poi, quando sono stato ad un passo dal riuscirci, mi sono reso conto che facevo già parte della gente figa, quella sulla quale si potrebbe scrivere libri, quella di cui adoro scoprire pian piano i contrasti e stupirmene, quella che va a creare le migliori citazioni, e non si tratta di scopiazzati ossimori ad hoc, ma di frasi vere, sentite, vissute e che conservano quell'istante di vita vissuta fino a quando memoria riuscirà a ripescarle.
Questo fa di me una persona unica. Tutti noi siamo persone uniche, pienamente piene, originali e irripetibili: non dobbiamo avere paura di crescere e di affermarci per la nostra originalità. Voi, voi indie, siete tutti uguali. Io rido di voi perché sono diversa, e non mi importa se anche voi ridete di me. Mi sembra che sia il giusto prezzo da pagare per avere scelto di non aderire ai vostri grembiuli e alle vostre demoralizzanti etichette: anzi, sapete una cosa? Lo pago con piacere, se questo può aiutare a farmi sentire più viva di voi.
Quando parlo di gente figa, parlo di gente come quella ragazza timidissima che balla il valzer, escogita battute assurde e sa ancora amare la musica; come quella ragazza bella di una bellezza che ricorda le fiabe, con l'amore per i sentimenti puri e una lealtà incorruttibile; come quello che un gioca con la propria pazzia, lasciandomi sempre basita; quella che ha mille cotte al giorno e poi si innamora sempre dello stesso; quello che parla attraverso le note di un violino; quello perfetto, forse troppo e che non vorrebbe esserlo; quella che sogna i musical e quando ti abbraccia ti salva la vita; quella che vorrebbe essere sempre qualcun altro solo perché in realtà si piace troppo come è davvero e si crede pazza; quella che ama il romanticismo ai concerti ska; quella che in ogni foto è più bella e a volte incanta anche gli sconosciuti; quello che fa il filosofo moderno ma infondo so che ci crede davvero. Con una particolare attenzione a quello che fa il filosofo moderno.
Io, ragazzi, ragazzi miei (entro nello specifico: Alice, Riccardo, Giulio, Giulia, Federica, Aurora, Matteo, Giacomo, Francesca, Luca, Marco, Arianna, Nicola, Andrea, Stefania, Fabio, Greta, Beatrice, Paolo, Lucas, Veronica, Giada, Marta, Davide, Jacopo, Simona, Enrico, Maria...ma soprattutto LUCAS), apprezzo il vostro modo di essere così spontanei eppure così particolari. Siete la dimostrazione vivente che non servono un paio di jeans attillati e un nome storpiato all'inglese per essere originali. Vi voglio bene,sul serio.
Postfazione:
Quando cominciamo a scrivere un libro, non sappiamo mai dove la nostra penna ha deciso di portarci. Ci capita di partire con in testa una sola idea, spesso abbozzata appena, e di stupirci del prodotto finale. Io penso che scrivere sia doveroso: e tutti, anche quelli in apparenza meno portati, dovrebbero dedicarvisi. Non è mai facile dare forma ai nostri pensieri e fissarli sul foglio: il linguaggio, all'inizio, può sembrare una sciocca limitazione, una gabbia o un canale di trasmissione insufficiente; è solo con la pratica che impariamo ad apprezzarne la infinita varietà, a scorrerne le infinite sfumature, a plasmarlo a nostro piacimento: a educarlo, finanche, per condurci alle più alte vette dell'espressione. Allora lo scrivere, da puro esercizio che era, diventa la porta di ingresso alla nostra anima, un mezzo, finalmente efficace, per aprirci agli altri e al mondo. L'abilità dello scrittore non risiede nella sua straordinaria immaginazione, poiché, di quella, tutti ne siamo dotati in egual misura; egli è scrittore quando si mostra in grado di aprire lo scrigno dei nostri pensieri e riesce cavare qualcosa di nuovo dalla loro inarrestabile confusione. Lo scrittore, insomma, è un surfista della mente: imparate anche voi a cavalcare quest'onda che siete voi stessi, conoscetevi, scrivete! Siamo tutti nella stessa barca, babies!
venerdì 9 luglio 2010
Una nota a margine da cancellare tra qualche giorno
Lorca, invece, nelle prose indovina già, leggermente ambiguo, come piegare i suoi cattolicissimi coltelli alla sfrontatezza agitata del demone; cioè: è un passo più avanti senza saperlo (Per controllare: Bisogna schierarsi contro la carne. Incoraggiare il sorgere di fabbriche di coltelli. Ma: afinchè l'orrore faccia avanzare il suo bosco intravenoso.)(Coltelli al servizio del sangue)