venerdì 16 luglio 2010

Forgive them, even if they are not sorry


Esistono momenti, nella vita di un essere umano. Esistono. Forse non sarebbe il caso di scrivere un resoconto di ieri sera, anche perché ne ho già letti troppi e nessuno di questi mi sembrava degno, anzi: diciamo che tutti questi mi hanno fatto a loro modo incazzare come una biscia. Forse non sarebbe il caso, sì, ma io non ho mai dato ascolto al mio orgoglio o alla mia razionalità.


Si è tenuto un concerto, a Vigevano, ieri sera. L'artista in questione si chiama Julian, Julian Casablancas e non ho intenzione di descrivere "quanto fosse dannatamente sexy" nè "quanto le sue mani fossero morbide" nè "quanto i suoi capelli fossero gialli" (cito testualmente, non me ne vogliate.).
No, questo è già stato scritto, e mi pare superfluo.
Al concerto di ieri ho pianto, ho pianto moltissimo, appoggiata alla transenna (conquistata con un'attesa di ore), la macchina fotografica tra le mani che tremavano senza sosta, la voce bloccata in gola, il respiro sospeso.
Julian casablancas è un po' il mio mito, un po' quello che perdonerei sempre, anche se trattasse male i fan, o se steccasse di continuo. Lui è quello che ha scritto le canzoni che hanno segnato i momenti migliori della mia vita, e forse anche i peggiori, quelle canzoni che sono, come credo di aver già detto, il mio dolcevita quando ho il mal di gola e il ghiaccio quando il caldo mi opprime.
Io mi ci rifugio nella sua voce, accogliente bassa e un po' ruvida, è stata la mia compagna quando il mondo fuori pareva non volermi, nonchè la cura ad ogni mio sbalzo d'umore.
Lui è forse un po' quello che mi ha fatto diventare quella che sono adesso.
Ieri sera, per la prima volta in vita mia, l'ho visto, davvero, davanti a me, in carne ed ossa, non dentro ad uno schermo, nè su una piatta pagina di giornale.
Lui era lì, in pantaloni rossi e maglietta da metallaro sfigato, ad un metro da me.
E non me ne fregava nulla di "palaparlo" piuttosto che di "urlargli un sonoro Julian I love you" (sempre citazioni), avrei piuttosto voluto abbracciarlo, in silenzio, come si fa con un vecchio amico.
E dirgli grazie, grazie di tutto.
Non l'ho fatto, non l'ho neppure aspettato dopo il concerto. Avrei potuto, avrei voluto, ma non l'ho fatto e benché non avrei minimamente saputo cosa dirgli e benché il comportamento di alcune persone mi avrebbe irritato infinitamente, continuo a chiedermi perché io non l'abbia fatto.
Ma forse i miti devono rimanere tali, oppure, semplicemente, c'è tempo. Per ora mi accontento di un live visto in prima fila, con la sicurezza del fatto che almeno una volta mi abbia guardato negli occhi. E forse ce l'ha visto un "grazie", chissà...

Questa è la mia esperienza di ieri sera. Ma ora, col vostro consenso, mi piacerebbe trattare un argomento più attuale e interessante: l'originalità e la normalità.

Vi risparmio l'introduzione, perché ho un poco di timore. Cominciamo in medias res.
C'è stato un periodo in cui anche io guardavo le belle fotografie, anche io cercavo di essere parte integrante della gente figa. Poi, quando sono stato ad un passo dal riuscirci, mi sono reso conto che facevo già parte della gente figa, quella sulla quale si potrebbe scrivere libri, quella di cui adoro scoprire pian piano i contrasti e stupirmene, quella che va a creare le migliori citazioni, e non si tratta di scopiazzati ossimori ad hoc, ma di frasi vere, sentite, vissute e che conservano quell'istante di vita vissuta fino a quando memoria riuscirà a ripescarle.

Questo fa di me una persona unica. Tutti noi siamo persone uniche, pienamente piene, originali e irripetibili: non dobbiamo avere paura di crescere e di affermarci per la nostra originalità. Voi, voi indie, siete tutti uguali. Io rido di voi perché sono diversa, e non mi importa se anche voi ridete di me. Mi sembra che sia il giusto prezzo da pagare per avere scelto di non aderire ai vostri grembiuli e alle vostre demoralizzanti etichette: anzi, sapete una cosa? Lo pago con piacere, se questo può aiutare a farmi sentire più viva di voi.

Quando parlo di gente figa, parlo di gente come quella ragazza timidissima che balla il valzer, escogita battute assurde e sa ancora amare la musica; come quella ragazza bella di una bellezza che ricorda le fiabe, con l'amore per i sentimenti puri e una lealtà incorruttibile; come quello che un gioca con la propria pazzia, lasciandomi sempre basita; quella che ha mille cotte al giorno e poi si innamora sempre dello stesso; quello che parla attraverso le note di un violino; quello perfetto, forse troppo e che non vorrebbe esserlo; quella che sogna i musical e quando ti abbraccia ti salva la vita; quella che vorrebbe essere sempre qualcun altro solo perché in realtà si piace troppo come è davvero e si crede pazza; quella che ama il romanticismo ai concerti ska; quella che in ogni foto è più bella e a volte incanta anche gli sconosciuti; quello che fa il filosofo moderno ma infondo so che ci crede davvero. Con una particolare attenzione a quello che fa il filosofo moderno.

Io, ragazzi, ragazzi miei (entro nello specifico: Alice, Riccardo, Giulio, Giulia, Federica, Aurora, Matteo, Giacomo, Francesca, Luca, Marco, Arianna, Nicola, Andrea, Stefania, Fabio, Greta, Beatrice, Paolo, Lucas, Veronica, Giada, Marta, Davide, Jacopo, Simona, Enrico, Maria...ma soprattutto LUCAS), apprezzo il vostro modo di essere così spontanei eppure così particolari. Siete la dimostrazione vivente che non servono un paio di jeans attillati e un nome storpiato all'inglese per essere originali. Vi voglio bene,sul serio.




Postfazione:

Quando cominciamo a scrivere un libro, non sappiamo mai dove la nostra penna ha deciso di portarci. Ci capita di partire con in testa una sola idea, spesso abbozzata appena, e di stupirci del prodotto finale. Io penso che scrivere sia doveroso: e tutti, anche quelli in apparenza meno portati, dovrebbero dedicarvisi. Non è mai facile dare forma ai nostri pensieri e fissarli sul foglio: il linguaggio, all'inizio, può sembrare una sciocca limitazione, una gabbia o un canale di trasmissione insufficiente; è solo con la pratica che impariamo ad apprezzarne la infinita varietà, a scorrerne le infinite sfumature, a plasmarlo a nostro piacimento: a educarlo, finanche, per condurci alle più alte vette dell'espressione. Allora lo scrivere, da puro esercizio che era, diventa la porta di ingresso alla nostra anima, un mezzo, finalmente efficace, per aprirci agli altri e al mondo. L'abilità dello scrittore non risiede nella sua straordinaria immaginazione, poiché, di quella, tutti ne siamo dotati in egual misura; egli è scrittore quando si mostra in grado di aprire lo scrigno dei nostri pensieri e riesce cavare qualcosa di nuovo dalla loro inarrestabile confusione. Lo scrittore, insomma, è un surfista della mente: imparate anche voi a cavalcare quest'onda che siete voi stessi, conoscetevi, scrivete! Siamo tutti nella stessa barca, babies!

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