Non voglio aggiungere più parole inopportune di quante già ne siano state scritte a questo mondo. Alessandro Baricco sembra non essere dello stesso avviso ed oltre ad appestare il mondo con le sue terribili prose a quanto pare ha scelto di fare lo stesso con le sue teorie. Fino a poco fa non sapevo che questi andasse predicando l'annullamento dei confini fra la sapienza e il volgo (ovviamente abbattendo la sapienza, non i confini); come infatti ben sapete sono solito farmi bastare di questa persona i fortunatamente pochi libri che mi regalano al natale, ora al dolore procuratomi dalle prose devo aggiungere anche il dolore provocato dalle idee.
Insomma, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo di Baricco consultabile gratuitamente (cosa abbastanza insolita visto chi c'è di mezzo) e poiché sono stronzo dentro e magari c'è tra voi chi come me non spende i suoi denari per quest'uomo, vi reindirizzo al sudetto terribile. Leggetene, ridetene e poi continuate pure a piangere, tanto non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/08/26/news/barbari_2026-6516602/
(a quanto pare l'articolo è stato originariamente pubblicato su una certa WIRED. Non so di cosa si occupi questa rivista ma da quel che vedo titolare in copertina sembra essere non diversamente trascurabile come buona parte di tutte le altre)
http://www.wired.it/magazine/archivio/2010/09/storie/i-nuovi-barbari.aspx
giovedì 26 agosto 2010
mercoledì 25 agosto 2010
Come un vecchio rimorso o un vizio assurdo
Di nuovo a te, ma anche a voi:
Due giorni fa, in una stanza dell'Hotel Boston a Milano, gestito da un pakistano in divisa da ussaro, guardando una ragazza che dormiva come un gomitolo sulla sponda opposta, ho cominciato a rivalutare le puttane. Mi dicevo che quando il giorno filtra dalle tapparelle e inchioda la polvere a mezz'aria la soluzione all'abbandono si sente nelle vertebre e smette di essere una questione di riconoscimento affettivo, o di impulsi riproduttivi. È una faccenda più antica dell'impeto a popolare il mondo, più ancestrale ancora dei primati che si spulciano a vicenda. Risale ai nostri progenitori monocellulari, che sciamano lungo le correnti calde: è una faccenda termica. Come se durante un massaggio cardiaco scivolasse la mano sulle tette della moribonda: non sarebbe pornografia, sarebbe sopravvivenza. Mi chiedevo, quindi, quanto costassero al grado le puttane, e se ne fosse disponibile una con almeno trentotto di febbre. Poi scorrevo mentalmente i miei Levi, Crowley, Kremmertz, alla ricerca di qualcosa come uno stupro emotivo, la formula che frantuma il corpo astrale. Per dormire si contano i diavoli.
è vero che per essere salvati ci vuole un certo physique du role. Prima le donne e i bambini. Anche gli emo. E i dieci migliori cosplayer della fiera, complimenti a loro. E soprattutto quelli che “sembravano bellissimi”, per non deludere le fangirl. Ma, insomma, per me non preghi e non hai alcuna intenzione di salvarmi, non ce n'è bisogno. Dev'essere per via della barba. L'ho lasciata crescere mentre ero impegnato a salvarmi da solo, come Robinson. Di curioso c'è che mi guardi e ti senti in colpa, e non so se ti senti in colpa per quello che sono io, per quello che sei tu, o per tutto quanto non riusciamo ad essere. Non m'importa, però. Pietà, colpa, gratitudine, crollo delle alternative, una scommessa, il cavallo di briscola, quattro case a Vicolo Stretto: mi va bene tutto per non perdere ogni mano.
Poi ritrovo tutto quanto mi riguarda nell'indice analitico dei parerga e paralipomena di Maria de Filippi, e mi faccio un poco schifo. Ad esempio, quando mi rendo conto che sarei potuto scendere dal nostro interregionale praticamente ad ogni stazione e ad ogni stazione chiamare qualcuna e dire qualcosa del tipo “cinque anni fa parlavamo della catastrofe come se l'avessimo appena inventata, ricordi? Adesso sei la mia buona ragione per fuggire, e ti ho portato un libro”. E poi lei sarebbe venuta a prendermi e il ridicolo ci avrebbe uccisi entrambi a cinque metri di distanza, come una saetta. Oppure, dovrei quantomeno dare un senso alla paranoia che ti fa storcere il collo per strada, al delirio di lasciare aperta la porta del bagno mentre pisci per assicurarti che io non scappi nel frattempo. Dovrei separare nettamente, al posto tuo, l'ora in cui si può fare a meno di qualcuno da quella in cui si può solo fare a meno di tutto il resto. Ma l'idea di andarmene per farti capire fa ridere le capre, e io mi vergogno già abbastanza così.
La cosa che mi ulcera più il fegato, di questa faccenda come di tutte le altre, è che le parole non servono. Così mi vedo a sgolarmi come il miglior Chaplin sul balcone del Reichstag mentre, là sotto, i soldati arrostiscono salsicce negli elmetti, un paio di dadi neri e rossi di peluche dondola dal cannone di un Panther G e nessuno ha la minima intenzione di partire per il fronte. Ma la sera, al ristorante cinese, se Dio mi ascolta i camerieri si moltiplicano in milioni di Guardie Rosse e attraversano il mare a nuoto fino alle coste del Giappone, bruciano tutti i manga e tappezzano i muri di Realismo Socialista, figure marziali con le spalle larghe e il taglio di capelli d'ordinanza, ragnatele di rughe sulla faccia dei contadini, occhi mongolici a fessura, difetti e imperfezioni ad ogni angolo: un mondo in cui il tuo problema principale smette di essere il brufolo sopra il labbro che ti controlli allo specchio quindici volte in due ore, e diventa l'evidenza palese che non hai capito un cazzo di niente.
Due giorni fa, in una stanza dell'Hotel Boston a Milano, gestito da un pakistano in divisa da ussaro, guardando una ragazza che dormiva come un gomitolo sulla sponda opposta, ho cominciato a rivalutare le puttane. Mi dicevo che quando il giorno filtra dalle tapparelle e inchioda la polvere a mezz'aria la soluzione all'abbandono si sente nelle vertebre e smette di essere una questione di riconoscimento affettivo, o di impulsi riproduttivi. È una faccenda più antica dell'impeto a popolare il mondo, più ancestrale ancora dei primati che si spulciano a vicenda. Risale ai nostri progenitori monocellulari, che sciamano lungo le correnti calde: è una faccenda termica. Come se durante un massaggio cardiaco scivolasse la mano sulle tette della moribonda: non sarebbe pornografia, sarebbe sopravvivenza. Mi chiedevo, quindi, quanto costassero al grado le puttane, e se ne fosse disponibile una con almeno trentotto di febbre. Poi scorrevo mentalmente i miei Levi, Crowley, Kremmertz, alla ricerca di qualcosa come uno stupro emotivo, la formula che frantuma il corpo astrale. Per dormire si contano i diavoli.
è vero che per essere salvati ci vuole un certo physique du role. Prima le donne e i bambini. Anche gli emo. E i dieci migliori cosplayer della fiera, complimenti a loro. E soprattutto quelli che “sembravano bellissimi”, per non deludere le fangirl. Ma, insomma, per me non preghi e non hai alcuna intenzione di salvarmi, non ce n'è bisogno. Dev'essere per via della barba. L'ho lasciata crescere mentre ero impegnato a salvarmi da solo, come Robinson. Di curioso c'è che mi guardi e ti senti in colpa, e non so se ti senti in colpa per quello che sono io, per quello che sei tu, o per tutto quanto non riusciamo ad essere. Non m'importa, però. Pietà, colpa, gratitudine, crollo delle alternative, una scommessa, il cavallo di briscola, quattro case a Vicolo Stretto: mi va bene tutto per non perdere ogni mano.
Poi ritrovo tutto quanto mi riguarda nell'indice analitico dei parerga e paralipomena di Maria de Filippi, e mi faccio un poco schifo. Ad esempio, quando mi rendo conto che sarei potuto scendere dal nostro interregionale praticamente ad ogni stazione e ad ogni stazione chiamare qualcuna e dire qualcosa del tipo “cinque anni fa parlavamo della catastrofe come se l'avessimo appena inventata, ricordi? Adesso sei la mia buona ragione per fuggire, e ti ho portato un libro”. E poi lei sarebbe venuta a prendermi e il ridicolo ci avrebbe uccisi entrambi a cinque metri di distanza, come una saetta. Oppure, dovrei quantomeno dare un senso alla paranoia che ti fa storcere il collo per strada, al delirio di lasciare aperta la porta del bagno mentre pisci per assicurarti che io non scappi nel frattempo. Dovrei separare nettamente, al posto tuo, l'ora in cui si può fare a meno di qualcuno da quella in cui si può solo fare a meno di tutto il resto. Ma l'idea di andarmene per farti capire fa ridere le capre, e io mi vergogno già abbastanza così.
La cosa che mi ulcera più il fegato, di questa faccenda come di tutte le altre, è che le parole non servono. Così mi vedo a sgolarmi come il miglior Chaplin sul balcone del Reichstag mentre, là sotto, i soldati arrostiscono salsicce negli elmetti, un paio di dadi neri e rossi di peluche dondola dal cannone di un Panther G e nessuno ha la minima intenzione di partire per il fronte. Ma la sera, al ristorante cinese, se Dio mi ascolta i camerieri si moltiplicano in milioni di Guardie Rosse e attraversano il mare a nuoto fino alle coste del Giappone, bruciano tutti i manga e tappezzano i muri di Realismo Socialista, figure marziali con le spalle larghe e il taglio di capelli d'ordinanza, ragnatele di rughe sulla faccia dei contadini, occhi mongolici a fessura, difetti e imperfezioni ad ogni angolo: un mondo in cui il tuo problema principale smette di essere il brufolo sopra il labbro che ti controlli allo specchio quindici volte in due ore, e diventa l'evidenza palese che non hai capito un cazzo di niente.
martedì 24 agosto 2010
kawaii k-way (diciamo così)
Mi sono iscritta a scrivere.it, ho comprato un vestito blu, sono stata a Colvalenza, ho regalato Scrostati Gaggio. Sono troppo presa male. Ho scritto una poesia a metà con Manuel, poi.Una poesia d'amore per una ragazza, Annalisa, che sembra brutta a tutti (anche a Manuel) e solo a me bella (no, anche a un'altra mia amica). Certo, ha sempre i capelli sporchi, la frangia unta e le pezze addosso peggio di quelle di Shakk, però è bella.
Come tacuina sanitatis, lì
mentre certamente: ruet machina, sorellina
ti parlerei di notti senza mestrui, di sfere rugginose
della cera che come un imbuto chiude i lacci, della suola traforata
ma niente. Mi si addicono le cose sceme, il leptòs
Come sei bella nel tuo stretching, nei tuoi piegamenti emotivi
solo a me sembri bella
no, questo non va bene
Dunque sei bella, davvero bella, come saresti anche in una poesia di De Angelis
con la pista di atletica e i capannoni. Io ti invoco, icona DIADORA, attrezzatura sportiva
Sei TUTTA la mia vita. Sento che il mondo avviene
nel cappuccio del k-way.
tute di acetato. jersey degli inverni. vestiti blu di jersey aderenti. niente. stai con me.
Come tacuina sanitatis, lì
mentre certamente: ruet machina, sorellina
ti parlerei di notti senza mestrui, di sfere rugginose
della cera che come un imbuto chiude i lacci, della suola traforata
ma niente. Mi si addicono le cose sceme, il leptòs
Come sei bella nel tuo stretching, nei tuoi piegamenti emotivi
solo a me sembri bella
no, questo non va bene
Dunque sei bella, davvero bella, come saresti anche in una poesia di De Angelis
con la pista di atletica e i capannoni. Io ti invoco, icona DIADORA, attrezzatura sportiva
Sei TUTTA la mia vita. Sento che il mondo avviene
nel cappuccio del k-way.
tute di acetato. jersey degli inverni. vestiti blu di jersey aderenti. niente. stai con me.
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domenica 22 agosto 2010
E anche: - La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti -.
"[...] I due progetti che ho detto ( un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Inereo, nel suo povero sobborgo sud-americano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente. [...]"
Jorge Borges, Finzioni.
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venerdì 13 agosto 2010
2 mesi di noi, ti amo cucciolo mio
Ci vuole stomaco equino per digerire un altro kebap
martedì 10 agosto 2010
Dall'oggi al domani - Breve monologo biografico sul realismo magico
Fino a qualche giorno fa, fino ad un mese fa sicuramente e probabilmente anche fino a ieri, sapevo stirare. Ne ero in grado, per lo meno. Caricavo il ferro con l'acqua, attaccavo le dovute prese, sceglievo un abito da una delle masse di teli accartocciati che ho in casa e ne tiravo fuori una camicia, un pantalone o alle volte un maglione se non ben stirati quantomeno passabili.
Oggi invece non so più stirare, meglio, non ne sono più capace. Per quanto mi ostini a passare il ferro caldo sulle pieghe queste non scompaiono e piuttosto se ne creano di nuove, sempre meno acconciabili. Per quanto insista ad inumidire il tessuto questo sembra risultare ancora più secco ai tentativi di appianamento e pure finisco col ritrovarmi in mano abiti zuppi d'acqua. Fa nulla, mi ridurrò a partire con una valigia di abiti ancora più ridicoli, ma non è questo il punto. In realtà c'è da dire che non v'è proprio nessun punto e forse farei meglio a fermarmi qui, sebbene la cosa migliore sarebbe stata proprio non cominciare e allora tanto vale proseguire.
Secondo lo Scida io vivo come in un racconto di Marquez. A mio avviso invece sembra di vivere come in un racconto dei miei, perché sono più brutti, e comunque la sostanza non cambia. Non riesco ad alzare la polvere dal pavimento, l'unica cosa che rimedio sono parquet graffiati e macchiati d'acqua tanto li lavo e tanto li spazzo. Appena accendo un fornello la cucina si riempie di olio, tutto è unto, anche ciò che con la massima cura avevo riposto nel fondo delle credenze. Sui muri si aprono crepe per le quali la casa sarebbe già dovuta crollare da anni e sulle pareti c'è una muffa di cui sembro accorgermi soltanto io. Quando entro in cucina qualcosa squittisce (o stride, non ne sono ben sicuro) come se dei topi corressero per la stanza e ovviamente non c'è nulla. Incrostazioni di grasso talvolta appaiono sul pavimento e spesso non mi riesce di toglierle nemmeno con lo scalpello. Un giorno scompaiono come erano apparse e qualche tempo dopo le ritrovo un po' più in la. Sebbene abbia sottoposto i più recessi anfratti della mia casa a scrupolosissimi controlli non riesco a capire da dove escano gli orribili insetti che sembrano infestare l'appartamento ed i cui corpi puntualmente scompaiono dopo un po' che li si è ammazzati, come in un videogioco dei vecchi tempi. Nell'antibagno continua ad alleggiare un nauseabondo odore di verze con patate e quando apro l'acqua per lavarmi le mani il rubinetto spesso grida di dolore. Puntualmente, per quanto tanti e diversi prodotti anticalcare io possa applicare alla doccia, dopo due o tre giorni al massimo la bocchetta dell'acqua torna ad otturarsi come se niente fosse successo. E i libri hanno ricominciato a sparire, sempre quelli a cui sono più affezionato. Il primo fu il Silmarillion di Tolkien, adesso è accaduto a Casi di Charms. Ho anche pensato all'eventualità che qualcuno potesse entrarmi in casa con un paniere e rubarmi i volumi, come accadeva al fu professor Bernardino Lamis, ma così non è.
E tante altre cose di questo genere
Oggi invece non so più stirare, meglio, non ne sono più capace. Per quanto mi ostini a passare il ferro caldo sulle pieghe queste non scompaiono e piuttosto se ne creano di nuove, sempre meno acconciabili. Per quanto insista ad inumidire il tessuto questo sembra risultare ancora più secco ai tentativi di appianamento e pure finisco col ritrovarmi in mano abiti zuppi d'acqua. Fa nulla, mi ridurrò a partire con una valigia di abiti ancora più ridicoli, ma non è questo il punto. In realtà c'è da dire che non v'è proprio nessun punto e forse farei meglio a fermarmi qui, sebbene la cosa migliore sarebbe stata proprio non cominciare e allora tanto vale proseguire.
Secondo lo Scida io vivo come in un racconto di Marquez. A mio avviso invece sembra di vivere come in un racconto dei miei, perché sono più brutti, e comunque la sostanza non cambia. Non riesco ad alzare la polvere dal pavimento, l'unica cosa che rimedio sono parquet graffiati e macchiati d'acqua tanto li lavo e tanto li spazzo. Appena accendo un fornello la cucina si riempie di olio, tutto è unto, anche ciò che con la massima cura avevo riposto nel fondo delle credenze. Sui muri si aprono crepe per le quali la casa sarebbe già dovuta crollare da anni e sulle pareti c'è una muffa di cui sembro accorgermi soltanto io. Quando entro in cucina qualcosa squittisce (o stride, non ne sono ben sicuro) come se dei topi corressero per la stanza e ovviamente non c'è nulla. Incrostazioni di grasso talvolta appaiono sul pavimento e spesso non mi riesce di toglierle nemmeno con lo scalpello. Un giorno scompaiono come erano apparse e qualche tempo dopo le ritrovo un po' più in la. Sebbene abbia sottoposto i più recessi anfratti della mia casa a scrupolosissimi controlli non riesco a capire da dove escano gli orribili insetti che sembrano infestare l'appartamento ed i cui corpi puntualmente scompaiono dopo un po' che li si è ammazzati, come in un videogioco dei vecchi tempi. Nell'antibagno continua ad alleggiare un nauseabondo odore di verze con patate e quando apro l'acqua per lavarmi le mani il rubinetto spesso grida di dolore. Puntualmente, per quanto tanti e diversi prodotti anticalcare io possa applicare alla doccia, dopo due o tre giorni al massimo la bocchetta dell'acqua torna ad otturarsi come se niente fosse successo. E i libri hanno ricominciato a sparire, sempre quelli a cui sono più affezionato. Il primo fu il Silmarillion di Tolkien, adesso è accaduto a Casi di Charms. Ho anche pensato all'eventualità che qualcuno potesse entrarmi in casa con un paniere e rubarmi i volumi, come accadeva al fu professor Bernardino Lamis, ma così non è.
E tante altre cose di questo genere
Risolvere le equazioni, ovvero un discorso intorno all'omicidio
Pare che qui ci siano nuove cose. Ci vuole del coraggio postplatonico, ci vuole stomaco equino per copiare la copia di una copia. Scida scrive, è diventato grande, gli passerà. Di Manuel non posso dir niente, da questa fortificazione agli antipodi. Ipazia ha avuto fortuna all'estrazione annuale dei nomi, e questo è quanto. Dunque parliamo della morte, come se ne avessimo lo stesso disperato bisogno di sempre. Mi chiedevo quanto a lungo si possa giocare con l'idea di sconfitta, prima che si consumi. Per quanti secoli disporre i ranghi nella pianura, serrare le fila e attendere. E poi a che punto il respiro della nostra giustizia diventa troppo corto, e siamo allora parte del medesimo evento, un organo del nemico o il coniglietto d'ombra proiettato dalle sue dita.
La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.
Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.
Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.
D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.
La cifra del mio tempo, e la meditazione a tasso d'usura che lascio ai posteri, è il fallimento dell'alterità. Ovvero l'impossibilità della sua manifestazione somma, che è il martirio. Che il dire tenda, come l'acqua di cui è un'altra forma, allo straripamento, questo è un fatto. E l'estremo, l'ultimo colore dello spettro, non è più il simbolo nella sua lettura da greco evangelico, il Simbolo degli Apostoli. Così andiamo a far legna nella foresta di simboli baudelairiana, questa foresta di martiri inchiodati agli alberi, raccogliamo le reliquie per il fuoco.
Perché la nostra ontologia terrificante è degradata dal principio, alla persona, all'ideologia, alla sensazione: l'estremo della nostra parola è lo schiamazzo che barrica il portone contro il freddo, questo inferno strisciante che disossa i piedi e ci ricaccia dentro l'artropode come in un castello assediato.
Dev'esserci un racconto di Sartre in cui un tizio uccide cinque persone a caso: l'omicidio è una soluzione, con tutta probabilità la migliore. Non solo per la sua esattezza matematica di diminuzione, o per lo squarcio che apre dietro l'ucciso, smascherandone l'immanenza. Ma soprattutto per difendere l'ultimo luogo dell'alterità, l'unico evento biologico davvero semantizzabile: testimoniare la distanza tra i vivi e i morti, la differenza che non si addomestica. Chiamare al mondo un abisso pieno dei nostri rispettivi nomi, ergere contro la confusione una muraglia di cadaveri, invece che di rumori. C'è qualcosa di singolarmente reale, storicamente ineccepibile, nell'idea di forzare il martirio come si forza lo stupro o il battesimo.
D'altra parte, siamo costretti a pensare che l'unica trascendenza che ci resta è la trascendenza dal precedente, l'atto di disfare e l'impresa di spezzare. Forse, invece, è ancora altro: far sparire le carcasse. L'omicidio, il nostro caro omicidio, dovrebbe infine essere cosa da avvoltoi, divorare i morti per assorbirli in questo corpo unico che è il bersaglio possibile della distanza: superare così l'infernale impossibilità di essere altro dagli altri. La strage, la grande strage, l'olocausto, la purga staliniana, l'avvelenamento di tutti i pozzi, è la speranza di recuperare l'estremo del dire, la fine (altrui) che (ci) qualifica, il cosmo gnostico per cui possiamo esorcizzare la natura combinatoria ergendoci sopra le tibie rosicchiate delle nostre vittime. Come sempre, oremus.
giovedì 5 agosto 2010
Il nudo sidonita.
Venuto a Roma, Serapione intese parlar di una vergine che da vent'anni viveva reclusa senza ricevere né parlare a nessuno. Riuscì a vederla.
«Cosa fai - chiese - seduta lì tutta sola?»
«Io non sto seduta - rispose - io sono in cammino.»
«In cammino verso chi?»
«Verso Dio.»
«Sei morta o viva?»
«Spero di essere morta al mondo e viva in Dio.»
«In questo caso - disse Serapione - scendi in strada e vieni a passeggio».
Ella protestò, ma il "pazzo" le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto ad una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi».
Scandalizzata, la vergine rifiutò.
«La gente penserà che io sia pazza!»
«E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?» Ella rifiutò.
«Vedi sorella - disse Serapione - fa attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».
«Cosa fai - chiese - seduta lì tutta sola?»
«Io non sto seduta - rispose - io sono in cammino.»
«In cammino verso chi?»
«Verso Dio.»
«Sei morta o viva?»
«Spero di essere morta al mondo e viva in Dio.»
«In questo caso - disse Serapione - scendi in strada e vieni a passeggio».
Ella protestò, ma il "pazzo" le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto ad una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi».
Scandalizzata, la vergine rifiutò.
«La gente penserà che io sia pazza!»
«E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?» Ella rifiutò.
«Vedi sorella - disse Serapione - fa attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».
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mercoledì 4 agosto 2010
Choralyst si sposa
Ammutinamento
L'ultima volta che abbiamo visto Choralyst, era già grandicello. Si trovava da qualche parte tra la matematica e l'esistenza, se non ricordo male, mentre ad oggi Choralyst ha venti anni, età in cui a quel paese lì, bisogna prendere moglie.
Così una buona volta si mise in cammino per quel giardino di notte e di vecchi con il cappello, che poi è sempre il solito giardino con i lampioni curvi dell'altra volta. Ascoltando le papere allo stagno, pensava che sarebbe stata l'occasione per imparare a parlare, e poi che sarebbe stata proprio l'occasione per imparare a parlare a dissiparsi per nulla, quel giorno. E che si, bisognava proprio cambiare aria, per Choralyst.
Bisogna tener presente come è fatto un Choralyst. Uno scansafatiche da taschino, perchè con Choralyst d'impulso ci si metteva la giacca ed un apposito cappello, ed era forse la bruttezza il suo distintivo, visto che Choralyst (per chi non l'avesse capito) era il Brutto tempo.
Un provincialotto, figlio bastardo di una pioggia acida di città ed il suo temporale occasionale. Da piccolo la madre lo portava spesso a visitare i bei monumenti, gli alti obelischi e i campanili a zonzo sulle chiese. Lo teneva per mano, insensibile alla sequela di sguardi in tralice, alle frequenti offese che, da sgualdrina, costanentemente la perseguitavano. Così Choralyst aveva imparato la storia, aveva imparato a leggere grazie alle iscrizioni tombali di certi papi con il naso all'ingiù. Vi si appassionò con esagerato entusiasmo e quando al decimo compleanno ricevette in regalo un piccolo cimitero in periferia, Choralyst tuonava di gioia.
Dalle tombe, aveva imparato il silenzio.
Sebbene il padre fosse sempre stato in giro per lavoro, la vita di Choralyst è in generale una comune vita da brutto tempo: un po' più di una pioggerella, un po' meno di un acquazzone. Ebbe anch'esso le proprie disgrazie: aveva sedici anni quando per via di un'ordinanza comunale il piccolo cimitero agreste fu distrutto in favore di una nuova Kiko e Choralyst si ritrovò a piagnucolare per qualche tempo ed in diverse direzioni. Come tutti i tutti i pellegrini, cercava ospitalità, del pane, forse una candela.
Ma quando chiedeva: -Avreste un piccolo cantuccio per un brutto tempo?-
Tutti rispondevano più o meno la stessa cosa: -Vogliamo solo aria pulita e belle giornate, torni quando avrà un po' più di sole-
Dunque, una alla volta tutte le porte si chiusero. E Choralyst, triste e sconsolato, vide bene di sistemarsi dietro il primo cancello che vide.
Il parchetto comunale: qui lo ritroviamo; con papere.
Per quanto ci avesse riflettuto, Choralyst non aveva proprio idea di come si potesse trovare moglie. In compenso aveva una minima idea di chi fosse Cesare Pavese.
-Ma a che serve- oscillò tra i rami -A che serve avere una moglie, picchio artistico?-
-Oh- sfrattando un'ala dal proprio buco, l'amico apparve. -serve se vuoi imparare a parlare-
-E noi, non stiamo forse parlando?-
-Si, ma non stiamo dicendo niente.-
Il picchio artistico accese il piumaggio un po' troppo nero (mentre affievolì quello un po' troppo bianco). Il picchio era un artista, sosteneva che nessuno avrebbe mai rotto il suo silenzio. Poteva solo picchettare.
-In ogni caso, se si deve..che se serva o non serva..si deve. Dove si trovano le mogli, allora, amico?-
-Ho letto che in un giardino come questo tanto tempo fa c'era qualcosa di simile.-
-Quindi crescono anche nei giardini-
- Pare. E pare che si chiamasse Eva.-
-E come fai a dire che assomigliava ad una moglie?-
-Il Doktoro Serpertivago mi ha detto che è stata la prima moglie della storia-
Il dott. Serpentivago era (ed è) un grande lettore.
-Bene!- Esclamò Choralyst battendo i nembi. -Mi diresti, amico rumoroso, come si arriva a questo giardino?-
-Mi pare si chiami Eden, dovresti andare alle stalle e prenderti un buon destriero. Dal nome sembra un posto molto lontano.-
-D'accordo. Allora, batteresti una mezza per me, picchio artistico?-
-Senz'altro.- Il picchio artistico battè la mezza e come una saetta Choralyst pervenne alla stalla.
Nella stalla di quel piccolo paese dimoravano tre cavalli.
Choralyst aprì la pesante porta di legno. La prima cosa che vide, fu che ne mancava uno e che gli altri due sembravano in qualche modo parenti, non proprio gemelli, ma forse fratelli, o sorelle. Choralyst non perse tempo, ma successivamente accolse l'occasione di perderlo; pertanto si interessò inutilmente di dove fosse il terzo cavallo.
-Il tevzo cavallo..-ghignò quello nel lotto centrale -quel buono a nulla!-
-Non essere così severo. Il cavallo estetico sarà di ritorno appena lo vorrà il vento, io sono il cavallo religioso, lui è il cavallo etico.-
Il cavallo etico si inchinò. Choralyst fece altrettanto.
-Ti andrebbe- proruppe Choralyst - di accompagnarmi al giardino dell'Eden?-
-io?!-
Bisogna tenere di conto che il cavallo etico ha gli zoccoli così pesanti che non può assoutamente essere utilizzato nelle passeggiate. A parte questo, fa tutto ciò che fanno gli altri cavalli, ma spesso è di cattivo umore, perchè appunto, non può fare tutto quello che fanno gli altri cavalli.
-Infatti non può trottare, nè correre-
-io?! senti cosa dice questo. Io mi sono risoluto di essere un cavallo che vive nella sua stalla, non altro.-
Nell'accostarsi a Choralyst, l'altro ridusse il tono della voce.
-Non si lasci ingannare dal paraocchi, sa...soffre molto per non poter galoppare e battere lo zoccolo se non arriva il fieno. Ne soffre davvero molto, così quel paraocchi gli serve per non aver sempre innanzi l'evidenza. Insomma, lo fa sentire più normale. Non vede il sole se non da qui..del resto.-
Choralyst fece cenno di aver capito, si scusò profusamente con il cavallo etico e domandò al disponibile quadrupede infine, dove avrebbe potuto trovare un mezzo per arrivare al giardino dell'Eden.
-l'accompagnerò io, allora.-
Senza dilungarsi in melliflui ringraziamenti, Choralyst si pose sopra il cavallo religioso per dirigersi assieme verso il tanto atteso amore dell'Eden.
Dispera e Melanconia: i frutti dello spirito
Galoppa, galoppa, i due arrivarono innanzi alla Piana delle talpe.
Le talpe, come si sa (grazie signor Beckett), non sono mai sobrie; infatti anzichè costruire sulla terra, costruiscono sotto terra. In questa Piana, tuttavia, si radunavano tutte le talpe che volevano uscire dal giro dell'alcool, e che qui si ritrovavano a loro disposizione una grande quantità di sabbia offerta dallo Stato (per questo è più un deserto che una piana, ma in fondo la talpa è ubriaca anche nel dare i nomi) con cui costruivano i loro primi castelli di sabbia in superficie.
Choralyst non si aspettava affatto uno spettacolo così arido: di giardini non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Prima che ponesse qualsiasi questione, il cavallo religioso prese accordi con una vecchia talpa dall'aria solenne. Fattisi tre, essi scesero fin dentro un vecchio tunnel sacro cosparso di rum e Porto (presumibilmente il Porto di Jurambalco), il quale tra l'altro, oltre ad essere piuttoso melmoso, emanava un certo cattivo odore.
In fondo al tunnel c'era un grande tappo di sughero. La talpa estrasse il tappo e scappò.
Nè Choralyst, tantomeno il cavallo religioso, trovarono in loro stessi la risposta alla domanda "che cosa accadde dopo?". Furono avvolti da diversi vini, poi a poco a poco il vino venne prosciugato dal Mar Rosso. E l'Eden apparve.
-Si- Pensò Choralyst -ora sono nel posto giusto, ma come faccio a sapere cosa devo cercare?-
-So io cosa cerchi- soggiunse d'un fiato il cavallo religioso. Trotterellava piano mentre parlava, così la sua criniera azzurra prendeva riflessi neri.
-E come, se non lo so nemmeno io?- obiettò Choralyst.
-Vedi la mia criniera? Ha preso riflessi neri perchè tu, che sei uno spirito nero, sei sopra la mia groppa. Quando qualcuno sale sopra di me, diventa parte di me, ed io posso trovare in me le sue risposte. Per questo non ho la sella nè le briglie, ma dirigo il viaggio nel migliore dei modi possibili.-
-Grazie a DIO!- Esclamò Choralyst in preda all'euforia. -Allora, dimmi, dove andiamo?-
-A cogliere una dispera o una melanconia: i frutti dello spirito-
Prima che l'altro potesse aprir bocca, il cavallo religioso assunse un andatura un po' più dinamica ed in una decina di minuti, occorsi al fine di una accurata ricerca, i due trovarono l'albero delle dispere e delle melanconie.
C'era un frutto giallo molto simile ad una pera.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Dispera.
C'era anche un frutto rosso simile ad una mela.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Melanconia.
-E qual'è la differenza?- chiese Choralyst.
Gli fu subitamente spiegato che molto tempo fa un altro essere fu portato in quel giardino, gli fu chiesto di scegliere, ma scelse male e da quel momento è entrato il male nel mondo.
-Quindi anche a lui fu chiesto di scegliersi una moglie?-
-In un certo senso- rispose il cavallo -in un certo senso aveva già una moglie, ma doveva scegliere se invitare o no il dott. Serpentivago al matrimonio.-
-Ma allora-Choralyst esclamò -io dovrei avere già una moglie per cogliere...-
-No, lui era una cosa diversa. Qui ci sono i due frutti che ti si addicono, uno porta da una parte, uno porta dall'altra.-
-Ce n'è uno più buono dell'altro?-
-No, fanno ugualmente schifo-
-Allora in base a cosa posso scegliere?-
-Dipende se ti vuoi sposare in giallo o in rosso...-
-"L'uccello di Minerva esce sempre al tramonto"-
-"Meglio una gallina oggi che un uovo domani"-
Choralyst scelse la dispera. Era gialla, e gli era sempre mancato il sole, gli avevano detto.
-Hai fatto la tua scelta- disse il cavallo religioso. Ed insieme si avviarono finalmente verso casa.
Salutato l'ardente destriero, Choralyst varcò i cancelli del suo giardino. Decise di tenere la dispera con sè tra le nuvole. A vederla così sembrava una macchiolina gialla, ma con il tempo raggiunse le dimensioni del sole, poi di tutto il cielo, rendendo Choralyst decisamente più luminoso.
Forse avrebbe dovuto mangiarla, però, perchè dopo qualche mese prese i vermi e Choralyst rimase lì, addolorato, sospeso a mezz'aria.
Avrebbe potuto trovarsi un'altra moglie, ma aveva paura di fare la scelta sbagliata. Fu costretto a gettare la dispera al picchio artistico, perchè le concedesse degna sepoltura. Da lì poi crebbe una fogliolina, ma veniva sempre calpestata dai ragazzini del quartiere, che adesso che c'era sempre bel tempo venivano a giocare nel giardinetto comunale tutti i giorni.
Più bello e più infelice.
Nessuno ha dubbi sul fatto che Choralyst sia il cielo più disperato della storia.
POSSIBILE MURALES: Chi semina vento raccoglie tempesta. Chi esamina vento raccoglie i frutti dello spirito.
L'ultima volta che abbiamo visto Choralyst, era già grandicello. Si trovava da qualche parte tra la matematica e l'esistenza, se non ricordo male, mentre ad oggi Choralyst ha venti anni, età in cui a quel paese lì, bisogna prendere moglie.
Così una buona volta si mise in cammino per quel giardino di notte e di vecchi con il cappello, che poi è sempre il solito giardino con i lampioni curvi dell'altra volta. Ascoltando le papere allo stagno, pensava che sarebbe stata l'occasione per imparare a parlare, e poi che sarebbe stata proprio l'occasione per imparare a parlare a dissiparsi per nulla, quel giorno. E che si, bisognava proprio cambiare aria, per Choralyst.
Bisogna tener presente come è fatto un Choralyst. Uno scansafatiche da taschino, perchè con Choralyst d'impulso ci si metteva la giacca ed un apposito cappello, ed era forse la bruttezza il suo distintivo, visto che Choralyst (per chi non l'avesse capito) era il Brutto tempo.
Un provincialotto, figlio bastardo di una pioggia acida di città ed il suo temporale occasionale. Da piccolo la madre lo portava spesso a visitare i bei monumenti, gli alti obelischi e i campanili a zonzo sulle chiese. Lo teneva per mano, insensibile alla sequela di sguardi in tralice, alle frequenti offese che, da sgualdrina, costanentemente la perseguitavano. Così Choralyst aveva imparato la storia, aveva imparato a leggere grazie alle iscrizioni tombali di certi papi con il naso all'ingiù. Vi si appassionò con esagerato entusiasmo e quando al decimo compleanno ricevette in regalo un piccolo cimitero in periferia, Choralyst tuonava di gioia.
Dalle tombe, aveva imparato il silenzio.
Sebbene il padre fosse sempre stato in giro per lavoro, la vita di Choralyst è in generale una comune vita da brutto tempo: un po' più di una pioggerella, un po' meno di un acquazzone. Ebbe anch'esso le proprie disgrazie: aveva sedici anni quando per via di un'ordinanza comunale il piccolo cimitero agreste fu distrutto in favore di una nuova Kiko e Choralyst si ritrovò a piagnucolare per qualche tempo ed in diverse direzioni. Come tutti i tutti i pellegrini, cercava ospitalità, del pane, forse una candela.
Ma quando chiedeva: -Avreste un piccolo cantuccio per un brutto tempo?-
Tutti rispondevano più o meno la stessa cosa: -Vogliamo solo aria pulita e belle giornate, torni quando avrà un po' più di sole-
Dunque, una alla volta tutte le porte si chiusero. E Choralyst, triste e sconsolato, vide bene di sistemarsi dietro il primo cancello che vide.
Il parchetto comunale: qui lo ritroviamo; con papere.
Per quanto ci avesse riflettuto, Choralyst non aveva proprio idea di come si potesse trovare moglie. In compenso aveva una minima idea di chi fosse Cesare Pavese.
-Ma a che serve- oscillò tra i rami -A che serve avere una moglie, picchio artistico?-
-Oh- sfrattando un'ala dal proprio buco, l'amico apparve. -serve se vuoi imparare a parlare-
-E noi, non stiamo forse parlando?-
-Si, ma non stiamo dicendo niente.-
Il picchio artistico accese il piumaggio un po' troppo nero (mentre affievolì quello un po' troppo bianco). Il picchio era un artista, sosteneva che nessuno avrebbe mai rotto il suo silenzio. Poteva solo picchettare.
-In ogni caso, se si deve..che se serva o non serva..si deve. Dove si trovano le mogli, allora, amico?-
-Ho letto che in un giardino come questo tanto tempo fa c'era qualcosa di simile.-
-Quindi crescono anche nei giardini-
- Pare. E pare che si chiamasse Eva.-
-E come fai a dire che assomigliava ad una moglie?-
-Il Doktoro Serpertivago mi ha detto che è stata la prima moglie della storia-
Il dott. Serpentivago era (ed è) un grande lettore.
-Bene!- Esclamò Choralyst battendo i nembi. -Mi diresti, amico rumoroso, come si arriva a questo giardino?-
-Mi pare si chiami Eden, dovresti andare alle stalle e prenderti un buon destriero. Dal nome sembra un posto molto lontano.-
-D'accordo. Allora, batteresti una mezza per me, picchio artistico?-
-Senz'altro.- Il picchio artistico battè la mezza e come una saetta Choralyst pervenne alla stalla.
Nella stalla di quel piccolo paese dimoravano tre cavalli.
Choralyst aprì la pesante porta di legno. La prima cosa che vide, fu che ne mancava uno e che gli altri due sembravano in qualche modo parenti, non proprio gemelli, ma forse fratelli, o sorelle. Choralyst non perse tempo, ma successivamente accolse l'occasione di perderlo; pertanto si interessò inutilmente di dove fosse il terzo cavallo.
-Il tevzo cavallo..-ghignò quello nel lotto centrale -quel buono a nulla!-
-Non essere così severo. Il cavallo estetico sarà di ritorno appena lo vorrà il vento, io sono il cavallo religioso, lui è il cavallo etico.-
Il cavallo etico si inchinò. Choralyst fece altrettanto.
-Ti andrebbe- proruppe Choralyst - di accompagnarmi al giardino dell'Eden?-
-io?!-
Bisogna tenere di conto che il cavallo etico ha gli zoccoli così pesanti che non può assoutamente essere utilizzato nelle passeggiate. A parte questo, fa tutto ciò che fanno gli altri cavalli, ma spesso è di cattivo umore, perchè appunto, non può fare tutto quello che fanno gli altri cavalli.
-Infatti non può trottare, nè correre-
-io?! senti cosa dice questo. Io mi sono risoluto di essere un cavallo che vive nella sua stalla, non altro.-
Nell'accostarsi a Choralyst, l'altro ridusse il tono della voce.
-Non si lasci ingannare dal paraocchi, sa...soffre molto per non poter galoppare e battere lo zoccolo se non arriva il fieno. Ne soffre davvero molto, così quel paraocchi gli serve per non aver sempre innanzi l'evidenza. Insomma, lo fa sentire più normale. Non vede il sole se non da qui..del resto.-
Choralyst fece cenno di aver capito, si scusò profusamente con il cavallo etico e domandò al disponibile quadrupede infine, dove avrebbe potuto trovare un mezzo per arrivare al giardino dell'Eden.
-l'accompagnerò io, allora.-
Senza dilungarsi in melliflui ringraziamenti, Choralyst si pose sopra il cavallo religioso per dirigersi assieme verso il tanto atteso amore dell'Eden.
Dispera e Melanconia: i frutti dello spirito
Galoppa, galoppa, i due arrivarono innanzi alla Piana delle talpe.
Le talpe, come si sa (grazie signor Beckett), non sono mai sobrie; infatti anzichè costruire sulla terra, costruiscono sotto terra. In questa Piana, tuttavia, si radunavano tutte le talpe che volevano uscire dal giro dell'alcool, e che qui si ritrovavano a loro disposizione una grande quantità di sabbia offerta dallo Stato (per questo è più un deserto che una piana, ma in fondo la talpa è ubriaca anche nel dare i nomi) con cui costruivano i loro primi castelli di sabbia in superficie.
Choralyst non si aspettava affatto uno spettacolo così arido: di giardini non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Prima che ponesse qualsiasi questione, il cavallo religioso prese accordi con una vecchia talpa dall'aria solenne. Fattisi tre, essi scesero fin dentro un vecchio tunnel sacro cosparso di rum e Porto (presumibilmente il Porto di Jurambalco), il quale tra l'altro, oltre ad essere piuttoso melmoso, emanava un certo cattivo odore.
In fondo al tunnel c'era un grande tappo di sughero. La talpa estrasse il tappo e scappò.
Nè Choralyst, tantomeno il cavallo religioso, trovarono in loro stessi la risposta alla domanda "che cosa accadde dopo?". Furono avvolti da diversi vini, poi a poco a poco il vino venne prosciugato dal Mar Rosso. E l'Eden apparve.
-Si- Pensò Choralyst -ora sono nel posto giusto, ma come faccio a sapere cosa devo cercare?-
-So io cosa cerchi- soggiunse d'un fiato il cavallo religioso. Trotterellava piano mentre parlava, così la sua criniera azzurra prendeva riflessi neri.
-E come, se non lo so nemmeno io?- obiettò Choralyst.
-Vedi la mia criniera? Ha preso riflessi neri perchè tu, che sei uno spirito nero, sei sopra la mia groppa. Quando qualcuno sale sopra di me, diventa parte di me, ed io posso trovare in me le sue risposte. Per questo non ho la sella nè le briglie, ma dirigo il viaggio nel migliore dei modi possibili.-
-Grazie a DIO!- Esclamò Choralyst in preda all'euforia. -Allora, dimmi, dove andiamo?-
-A cogliere una dispera o una melanconia: i frutti dello spirito-
Prima che l'altro potesse aprir bocca, il cavallo religioso assunse un andatura un po' più dinamica ed in una decina di minuti, occorsi al fine di una accurata ricerca, i due trovarono l'albero delle dispere e delle melanconie.
C'era un frutto giallo molto simile ad una pera.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Dispera.
C'era anche un frutto rosso simile ad una mela.
Il cavallo religioso spiegò che quella era una Melanconia.
-E qual'è la differenza?- chiese Choralyst.
Gli fu subitamente spiegato che molto tempo fa un altro essere fu portato in quel giardino, gli fu chiesto di scegliere, ma scelse male e da quel momento è entrato il male nel mondo.
-Quindi anche a lui fu chiesto di scegliersi una moglie?-
-In un certo senso- rispose il cavallo -in un certo senso aveva già una moglie, ma doveva scegliere se invitare o no il dott. Serpentivago al matrimonio.-
-Ma allora-Choralyst esclamò -io dovrei avere già una moglie per cogliere...-
-No, lui era una cosa diversa. Qui ci sono i due frutti che ti si addicono, uno porta da una parte, uno porta dall'altra.-
-Ce n'è uno più buono dell'altro?-
-No, fanno ugualmente schifo-
-Allora in base a cosa posso scegliere?-
-Dipende se ti vuoi sposare in giallo o in rosso...-
-"L'uccello di Minerva esce sempre al tramonto"-
-"Meglio una gallina oggi che un uovo domani"-
Choralyst scelse la dispera. Era gialla, e gli era sempre mancato il sole, gli avevano detto.
-Hai fatto la tua scelta- disse il cavallo religioso. Ed insieme si avviarono finalmente verso casa.
Salutato l'ardente destriero, Choralyst varcò i cancelli del suo giardino. Decise di tenere la dispera con sè tra le nuvole. A vederla così sembrava una macchiolina gialla, ma con il tempo raggiunse le dimensioni del sole, poi di tutto il cielo, rendendo Choralyst decisamente più luminoso.
Forse avrebbe dovuto mangiarla, però, perchè dopo qualche mese prese i vermi e Choralyst rimase lì, addolorato, sospeso a mezz'aria.
Avrebbe potuto trovarsi un'altra moglie, ma aveva paura di fare la scelta sbagliata. Fu costretto a gettare la dispera al picchio artistico, perchè le concedesse degna sepoltura. Da lì poi crebbe una fogliolina, ma veniva sempre calpestata dai ragazzini del quartiere, che adesso che c'era sempre bel tempo venivano a giocare nel giardinetto comunale tutti i giorni.
Più bello e più infelice.
Nessuno ha dubbi sul fatto che Choralyst sia il cielo più disperato della storia.
POSSIBILE MURALES: Chi semina vento raccoglie tempesta. Chi esamina vento raccoglie i frutti dello spirito.
venerdì 30 luglio 2010
Il cavallo estetico e la scoperta della roulette russa
Inflazione galoppante:
(...) In una situazione di inflazione galoppante la moneta è trattenuta dai soggetti per periodi non superiori a quelli necessari per gli acquisti giornalieri, e ciò provoca un vertiginoso aumento della velocità di circolazione del denaro che, a sua volta, causa un nuovo aumento dei prezzi.(...)
Anni fa sul nostro pianeta viveva anche un altro animale leggendario, oltre le grandi bestie alate delle vette e dei grandi vulcani innevati. C'è da dire che questo animale era leggendario, si, ma in ritardo; nel senso che anzichè stabilirsi sulle grandi penisole ricoperte dall'era glaciale (che a sua volta è un tempo ricoperto di ghiaccio), questo esemplare unico e schivo aveva caratteri molto più urbani: una creatura di mondo. Non sapeva fare a meno della cravatta, per esempio, delle palme d'oro di Niece e dei casinò.
Generalmente si stabilisce che il cavallo estetico si sia estinto solo pochi anni fa.
La cosa andò più o meno così:
Il cavallo estetico tende generalmente a mantenere il passo e la sinistra, anzi, pende proprio a sinistra, e cammina sulle orecchie, benchè in lui prevalgano decisamente gli zoccoli sul numero dei nasi. Quando qualcuno si confonde nel momento in cui arriva un carro trainato, rischiando di essere investito, al mio paese si dice che "ha tante zampe da non sentirne il rumore". Tale proverbio si riferisce proprio all'andatura vorticante del cavallo estetico, la quale fa sì che sia talmente disattento da sembrare sordo.
I cerchi nel grano sono le orme del cavallo estetico: le sue orecchie sono lunghe quasi come quelle dei conigli, perchè in fondo è un po' vile (infatti ha la coda di paglia, anche se non sta bene l'espressione), però non sono orecchie di coniglio, sono di cavallo, ma tirate fin all'inverosimile ed utilizzate a mo di elica. La sostanza è sempre la stessa. In fondo potete immaginare il cavallo estetico come un tema stirato due o tre volte fino alla lunghezza della quarta colonna.
Se vi passa davanti e non lo salutate potete stare tranquilli che la vostra distrazione non sarà punita per due ragioni: il cavallo ritorna sempre negli stessi luoghi, inoltre gli gira continuamente la testa, quindi il vostro cenno sarà facilmente scambiato con quello di qualsiasi altro possibile o impossibile.
Questo perchè il cavallo estetico è in larga misura un indifferente abitatore di circoli d'aria. E mangiatore di vento.
Un giorno arrivò per il cavallo estetico il momento di trovarsi una casa, dacchè il freddo cominciava ad intorpidire tutta la sua coda d'oro. Consapevole delle propria conoscenza del mondo metropolitano, decise per il momento di provvedere personalmente, rifiutando l'aiuto degli amici.
Gira una casa e girane un'altra, il cavallo estetico rimaneva sempre scontento in qualche cosa: un abbaino che sembra un naso storto, una finestra troppo lontana dal lago, qualche nido di troppo sotto il porticato fiorito.
Alla sera faceva molto freddo, ma ancora nessun rifugio, quindi il cavallo estetico stabilì di adagiarsi per riposare alla prima finestra illuminata. Sembrava tutto chiuso, era tardi.
Fu allora che girando a zonzo per la città, il cavallo estetico venne per la prima volta in contatto con un casinò.
Appena entrato attirarono subito la sua attenzione certe ruote variopinte dall'aspetto vagamente matematico che giravano per la grande gioia di molti. C'era anche una pallina, che piroettava da una cifra all'altra con grande precisione e professionalità.
-Una casa! Una casa trottola!- Bastò un secondo al cavallo estetico, subito si informò sul nome di quella cosa. Chiedeva: -come si chiama quella?-
-Oh, ma si chiama roulette-
-Ed è libera?-
-In che senso- sospirava il vecchio scommettitore con le palpebre venose -in che senso è libera?-
Il cavallo estetico è un tipo di poche parole, ma di grande fiducia recettiva. -In fin dei conti-, si disse, - io la vedo senza inquilino, da molto. Dunque sarà disabitata.-
Ora bisogna sapere che il cavallo estetico non supera in altezza un gattino di qualche anno, per questo ha perpetuamente una visione distorta delle cose. Par contre le vede tutte senza fine.
In virtù della sua minuta statura, si lanciò a capofitto nella roulette. Da lì ebbe inizio tutta la sua errante felicità: il cavallo estetico girava, in mondo girava, la gente rideva alla sua vista, o lo osservava estremamente interessata fino a quando non si fermava per ringraziare. Allora c'era sempre uno che lo acclamava a gran voce.
Il cavallo estetico era molto contento perchè aveva una casa che girava e anche lui girava, anche se non sapeva molte cose. Intanto i suoi ammiratori crescevano, a dismisura, oramai riempivano tutta la stanza e tutte le altre ruote, tranne la sua, erano state rimosse o spostate.
Presto anche il cavallo estetico fu rimosso e spostato nei più famosi casinò del mondo. Andò a Nizza, a Montecarlo a Las Vegas. La gente pagava per vederlo, lui si sentiva unico (ed in effetti lo era, ma questo è tra le cose che non sapeva).
Corse quasi su tutte le roulette del mondo, anzi, lo avrebbe fatto davvero, avrebbe davvero corso su tutte le roulette del mondo se un giorno non avesse preso quella sbagliata.
Era capitato nel bel mezzo di una roulette russa.
(...) In una situazione di inflazione galoppante la moneta è trattenuta dai soggetti per periodi non superiori a quelli necessari per gli acquisti giornalieri, e ciò provoca un vertiginoso aumento della velocità di circolazione del denaro che, a sua volta, causa un nuovo aumento dei prezzi.(...)
Anni fa sul nostro pianeta viveva anche un altro animale leggendario, oltre le grandi bestie alate delle vette e dei grandi vulcani innevati. C'è da dire che questo animale era leggendario, si, ma in ritardo; nel senso che anzichè stabilirsi sulle grandi penisole ricoperte dall'era glaciale (che a sua volta è un tempo ricoperto di ghiaccio), questo esemplare unico e schivo aveva caratteri molto più urbani: una creatura di mondo. Non sapeva fare a meno della cravatta, per esempio, delle palme d'oro di Niece e dei casinò.
Generalmente si stabilisce che il cavallo estetico si sia estinto solo pochi anni fa.
La cosa andò più o meno così:
Il cavallo estetico tende generalmente a mantenere il passo e la sinistra, anzi, pende proprio a sinistra, e cammina sulle orecchie, benchè in lui prevalgano decisamente gli zoccoli sul numero dei nasi. Quando qualcuno si confonde nel momento in cui arriva un carro trainato, rischiando di essere investito, al mio paese si dice che "ha tante zampe da non sentirne il rumore". Tale proverbio si riferisce proprio all'andatura vorticante del cavallo estetico, la quale fa sì che sia talmente disattento da sembrare sordo.
I cerchi nel grano sono le orme del cavallo estetico: le sue orecchie sono lunghe quasi come quelle dei conigli, perchè in fondo è un po' vile (infatti ha la coda di paglia, anche se non sta bene l'espressione), però non sono orecchie di coniglio, sono di cavallo, ma tirate fin all'inverosimile ed utilizzate a mo di elica. La sostanza è sempre la stessa. In fondo potete immaginare il cavallo estetico come un tema stirato due o tre volte fino alla lunghezza della quarta colonna.
Se vi passa davanti e non lo salutate potete stare tranquilli che la vostra distrazione non sarà punita per due ragioni: il cavallo ritorna sempre negli stessi luoghi, inoltre gli gira continuamente la testa, quindi il vostro cenno sarà facilmente scambiato con quello di qualsiasi altro possibile o impossibile.
Questo perchè il cavallo estetico è in larga misura un indifferente abitatore di circoli d'aria. E mangiatore di vento.
Un giorno arrivò per il cavallo estetico il momento di trovarsi una casa, dacchè il freddo cominciava ad intorpidire tutta la sua coda d'oro. Consapevole delle propria conoscenza del mondo metropolitano, decise per il momento di provvedere personalmente, rifiutando l'aiuto degli amici.
Gira una casa e girane un'altra, il cavallo estetico rimaneva sempre scontento in qualche cosa: un abbaino che sembra un naso storto, una finestra troppo lontana dal lago, qualche nido di troppo sotto il porticato fiorito.
Alla sera faceva molto freddo, ma ancora nessun rifugio, quindi il cavallo estetico stabilì di adagiarsi per riposare alla prima finestra illuminata. Sembrava tutto chiuso, era tardi.
Fu allora che girando a zonzo per la città, il cavallo estetico venne per la prima volta in contatto con un casinò.
Appena entrato attirarono subito la sua attenzione certe ruote variopinte dall'aspetto vagamente matematico che giravano per la grande gioia di molti. C'era anche una pallina, che piroettava da una cifra all'altra con grande precisione e professionalità.
-Una casa! Una casa trottola!- Bastò un secondo al cavallo estetico, subito si informò sul nome di quella cosa. Chiedeva: -come si chiama quella?-
-Oh, ma si chiama roulette-
-Ed è libera?-
-In che senso- sospirava il vecchio scommettitore con le palpebre venose -in che senso è libera?-
Il cavallo estetico è un tipo di poche parole, ma di grande fiducia recettiva. -In fin dei conti-, si disse, - io la vedo senza inquilino, da molto. Dunque sarà disabitata.-
Ora bisogna sapere che il cavallo estetico non supera in altezza un gattino di qualche anno, per questo ha perpetuamente una visione distorta delle cose. Par contre le vede tutte senza fine.
In virtù della sua minuta statura, si lanciò a capofitto nella roulette. Da lì ebbe inizio tutta la sua errante felicità: il cavallo estetico girava, in mondo girava, la gente rideva alla sua vista, o lo osservava estremamente interessata fino a quando non si fermava per ringraziare. Allora c'era sempre uno che lo acclamava a gran voce.
Il cavallo estetico era molto contento perchè aveva una casa che girava e anche lui girava, anche se non sapeva molte cose. Intanto i suoi ammiratori crescevano, a dismisura, oramai riempivano tutta la stanza e tutte le altre ruote, tranne la sua, erano state rimosse o spostate.
Presto anche il cavallo estetico fu rimosso e spostato nei più famosi casinò del mondo. Andò a Nizza, a Montecarlo a Las Vegas. La gente pagava per vederlo, lui si sentiva unico (ed in effetti lo era, ma questo è tra le cose che non sapeva).
Corse quasi su tutte le roulette del mondo, anzi, lo avrebbe fatto davvero, avrebbe davvero corso su tutte le roulette del mondo se un giorno non avesse preso quella sbagliata.
Era capitato nel bel mezzo di una roulette russa.
venerdì 16 luglio 2010
Fiffo, dici le cose sagge con parole semplici
Fiffo: dici le cose sagge con parole semplici. Acqua: riposi in un sorso e non ti sappiamo. Luna: mendichi luce e offendi la vista. Fiffo: dici le cose con parole semplici.
Ethan: a via Ugo Foscolo non arriva l'alluvione; Melchior: sei proprio simpatico. Vento: sempre ti muovi e sempre resti fermo. Aria: sempre sei mossa e sempre resti ferma. Luce: non so se ti muovi, fiffo: dici cose con parole semplici.
Imago: dici cose. Immagino che siano nuove. Luca: scegli di tenere ancora. Mario: non c'entri niente. Scida: uccidi i tuoi figli come le cattive notizie. Famedoro: Fiffo: offendi il cielo con parole semplici.
Scida: dici cose. Imago che siano fermi. Luca: sei proprio sotto. Mario: mendichi vento. Luce: non so se riposi. Vento: ti fai dire le cose con parole semplici. E per questo: io ti-Accarezzo: Imago: sei buono con tutti noi.
Scida: fai una brutta fine. Fine: sei arrivata presto, ti aspettavo per le quattro. Marica: sei un po' in ritardo. Ritardo: scida, stai tranquillo. Famedoro: Imago: dice cose. Non le sento: sono buone notizie. Scida: sono buone notizie, hai sentito? Scida? Scida?
Scida: ti uccidono come la luna. Luna: perdonalo, non sa quel che l'acqua. Famedoro: Marica: sono un po' triste. Stai tranquillo: è solo scida.
Ripeto, neanche le ore mortali: potrebbero sottrarci a questo incanto. Melchior: sei simpatico. Cose: dite fiffo con parole semplici. Foto: dico fiffo. Raffreddore: Famedoro: Scida: Mario.
Enixa: sceglie di tenere ancora. Webster: secondo lui no. Fiffo: ha il naso otturato. È l'arancia: o la Svizzera, non lo so.
Scrima: grazie di tutto. Scrima: non piangere. Scrima: scida: Marica dice di no. Secondo Webster.
Ethan: a via Ugo Foscolo non arriva l'alluvione; Melchior: sei proprio simpatico. Vento: sempre ti muovi e sempre resti fermo. Aria: sempre sei mossa e sempre resti ferma. Luce: non so se ti muovi, fiffo: dici cose con parole semplici.
Imago: dici cose. Immagino che siano nuove. Luca: scegli di tenere ancora. Mario: non c'entri niente. Scida: uccidi i tuoi figli come le cattive notizie. Famedoro: Fiffo: offendi il cielo con parole semplici.
Scida: dici cose. Imago che siano fermi. Luca: sei proprio sotto. Mario: mendichi vento. Luce: non so se riposi. Vento: ti fai dire le cose con parole semplici. E per questo: io ti-Accarezzo: Imago: sei buono con tutti noi.
Scida: fai una brutta fine. Fine: sei arrivata presto, ti aspettavo per le quattro. Marica: sei un po' in ritardo. Ritardo: scida, stai tranquillo. Famedoro: Imago: dice cose. Non le sento: sono buone notizie. Scida: sono buone notizie, hai sentito? Scida? Scida?
Scida: ti uccidono come la luna. Luna: perdonalo, non sa quel che l'acqua. Famedoro: Marica: sono un po' triste. Stai tranquillo: è solo scida.
Ripeto, neanche le ore mortali: potrebbero sottrarci a questo incanto. Melchior: sei simpatico. Cose: dite fiffo con parole semplici. Foto: dico fiffo. Raffreddore: Famedoro: Scida: Mario.
Enixa: sceglie di tenere ancora. Webster: secondo lui no. Fiffo: ha il naso otturato. È l'arancia: o la Svizzera, non lo so.
Scrima: grazie di tutto. Scrima: non piangere. Scrima: scida: Marica dice di no. Secondo Webster.
Forgive them, even if they are not sorry

Esistono momenti, nella vita di un essere umano. Esistono. Forse non sarebbe il caso di scrivere un resoconto di ieri sera, anche perché ne ho già letti troppi e nessuno di questi mi sembrava degno, anzi: diciamo che tutti questi mi hanno fatto a loro modo incazzare come una biscia. Forse non sarebbe il caso, sì, ma io non ho mai dato ascolto al mio orgoglio o alla mia razionalità.
Si è tenuto un concerto, a Vigevano, ieri sera. L'artista in questione si chiama Julian, Julian Casablancas e non ho intenzione di descrivere "quanto fosse dannatamente sexy" nè "quanto le sue mani fossero morbide" nè "quanto i suoi capelli fossero gialli" (cito testualmente, non me ne vogliate.).
No, questo è già stato scritto, e mi pare superfluo.
Al concerto di ieri ho pianto, ho pianto moltissimo, appoggiata alla transenna (conquistata con un'attesa di ore), la macchina fotografica tra le mani che tremavano senza sosta, la voce bloccata in gola, il respiro sospeso.
Julian casablancas è un po' il mio mito, un po' quello che perdonerei sempre, anche se trattasse male i fan, o se steccasse di continuo. Lui è quello che ha scritto le canzoni che hanno segnato i momenti migliori della mia vita, e forse anche i peggiori, quelle canzoni che sono, come credo di aver già detto, il mio dolcevita quando ho il mal di gola e il ghiaccio quando il caldo mi opprime.
Io mi ci rifugio nella sua voce, accogliente bassa e un po' ruvida, è stata la mia compagna quando il mondo fuori pareva non volermi, nonchè la cura ad ogni mio sbalzo d'umore.
Lui è forse un po' quello che mi ha fatto diventare quella che sono adesso.
Ieri sera, per la prima volta in vita mia, l'ho visto, davvero, davanti a me, in carne ed ossa, non dentro ad uno schermo, nè su una piatta pagina di giornale.
Lui era lì, in pantaloni rossi e maglietta da metallaro sfigato, ad un metro da me.
E non me ne fregava nulla di "palaparlo" piuttosto che di "urlargli un sonoro Julian I love you" (sempre citazioni), avrei piuttosto voluto abbracciarlo, in silenzio, come si fa con un vecchio amico.
E dirgli grazie, grazie di tutto.
Non l'ho fatto, non l'ho neppure aspettato dopo il concerto. Avrei potuto, avrei voluto, ma non l'ho fatto e benché non avrei minimamente saputo cosa dirgli e benché il comportamento di alcune persone mi avrebbe irritato infinitamente, continuo a chiedermi perché io non l'abbia fatto.
Ma forse i miti devono rimanere tali, oppure, semplicemente, c'è tempo. Per ora mi accontento di un live visto in prima fila, con la sicurezza del fatto che almeno una volta mi abbia guardato negli occhi. E forse ce l'ha visto un "grazie", chissà...
Questa è la mia esperienza di ieri sera. Ma ora, col vostro consenso, mi piacerebbe trattare un argomento più attuale e interessante: l'originalità e la normalità.
Vi risparmio l'introduzione, perché ho un poco di timore. Cominciamo in medias res.
C'è stato un periodo in cui anche io guardavo le belle fotografie, anche io cercavo di essere parte integrante della gente figa. Poi, quando sono stato ad un passo dal riuscirci, mi sono reso conto che facevo già parte della gente figa, quella sulla quale si potrebbe scrivere libri, quella di cui adoro scoprire pian piano i contrasti e stupirmene, quella che va a creare le migliori citazioni, e non si tratta di scopiazzati ossimori ad hoc, ma di frasi vere, sentite, vissute e che conservano quell'istante di vita vissuta fino a quando memoria riuscirà a ripescarle.
Questo fa di me una persona unica. Tutti noi siamo persone uniche, pienamente piene, originali e irripetibili: non dobbiamo avere paura di crescere e di affermarci per la nostra originalità. Voi, voi indie, siete tutti uguali. Io rido di voi perché sono diversa, e non mi importa se anche voi ridete di me. Mi sembra che sia il giusto prezzo da pagare per avere scelto di non aderire ai vostri grembiuli e alle vostre demoralizzanti etichette: anzi, sapete una cosa? Lo pago con piacere, se questo può aiutare a farmi sentire più viva di voi.
Quando parlo di gente figa, parlo di gente come quella ragazza timidissima che balla il valzer, escogita battute assurde e sa ancora amare la musica; come quella ragazza bella di una bellezza che ricorda le fiabe, con l'amore per i sentimenti puri e una lealtà incorruttibile; come quello che un gioca con la propria pazzia, lasciandomi sempre basita; quella che ha mille cotte al giorno e poi si innamora sempre dello stesso; quello che parla attraverso le note di un violino; quello perfetto, forse troppo e che non vorrebbe esserlo; quella che sogna i musical e quando ti abbraccia ti salva la vita; quella che vorrebbe essere sempre qualcun altro solo perché in realtà si piace troppo come è davvero e si crede pazza; quella che ama il romanticismo ai concerti ska; quella che in ogni foto è più bella e a volte incanta anche gli sconosciuti; quello che fa il filosofo moderno ma infondo so che ci crede davvero. Con una particolare attenzione a quello che fa il filosofo moderno.
Io, ragazzi, ragazzi miei (entro nello specifico: Alice, Riccardo, Giulio, Giulia, Federica, Aurora, Matteo, Giacomo, Francesca, Luca, Marco, Arianna, Nicola, Andrea, Stefania, Fabio, Greta, Beatrice, Paolo, Lucas, Veronica, Giada, Marta, Davide, Jacopo, Simona, Enrico, Maria...ma soprattutto LUCAS), apprezzo il vostro modo di essere così spontanei eppure così particolari. Siete la dimostrazione vivente che non servono un paio di jeans attillati e un nome storpiato all'inglese per essere originali. Vi voglio bene,sul serio.
Postfazione:
Quando cominciamo a scrivere un libro, non sappiamo mai dove la nostra penna ha deciso di portarci. Ci capita di partire con in testa una sola idea, spesso abbozzata appena, e di stupirci del prodotto finale. Io penso che scrivere sia doveroso: e tutti, anche quelli in apparenza meno portati, dovrebbero dedicarvisi. Non è mai facile dare forma ai nostri pensieri e fissarli sul foglio: il linguaggio, all'inizio, può sembrare una sciocca limitazione, una gabbia o un canale di trasmissione insufficiente; è solo con la pratica che impariamo ad apprezzarne la infinita varietà, a scorrerne le infinite sfumature, a plasmarlo a nostro piacimento: a educarlo, finanche, per condurci alle più alte vette dell'espressione. Allora lo scrivere, da puro esercizio che era, diventa la porta di ingresso alla nostra anima, un mezzo, finalmente efficace, per aprirci agli altri e al mondo. L'abilità dello scrittore non risiede nella sua straordinaria immaginazione, poiché, di quella, tutti ne siamo dotati in egual misura; egli è scrittore quando si mostra in grado di aprire lo scrigno dei nostri pensieri e riesce cavare qualcosa di nuovo dalla loro inarrestabile confusione. Lo scrittore, insomma, è un surfista della mente: imparate anche voi a cavalcare quest'onda che siete voi stessi, conoscetevi, scrivete! Siamo tutti nella stessa barca, babies!
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venerdì 9 luglio 2010
Una nota a margine da cancellare tra qualche giorno
Perec è moderno (Io cerco in una volta l'effimero e l'eterno), cioè già vecchissimo.
Lorca, invece, nelle prose indovina già, leggermente ambiguo, come piegare i suoi cattolicissimi coltelli alla sfrontatezza agitata del demone; cioè: è un passo più avanti senza saperlo (Per controllare: Bisogna schierarsi contro la carne. Incoraggiare il sorgere di fabbriche di coltelli. Ma: afinchè l'orrore faccia avanzare il suo bosco intravenoso.)(Coltelli al servizio del sangue)
Lorca, invece, nelle prose indovina già, leggermente ambiguo, come piegare i suoi cattolicissimi coltelli alla sfrontatezza agitata del demone; cioè: è un passo più avanti senza saperlo (Per controllare: Bisogna schierarsi contro la carne. Incoraggiare il sorgere di fabbriche di coltelli. Ma: afinchè l'orrore faccia avanzare il suo bosco intravenoso.)(Coltelli al servizio del sangue)
mercoledì 7 luglio 2010
La buona azione di un micino.
Tentare di scampare al Tempo frantumando le clessidre e chiudendo le finestre.
martedì 6 luglio 2010
Forteressecourage
il polso è frequente, prende aria, sbracciato
e così arreso, prova la combinazione in gesti
e lacere estensioni: nervi che si sommano
agli arresti, alle macchie e alla linfa
ibridata al quando senza rischi
di chiusura, a tutto ciò che tiene, focolaio
che è lesione, tolleranza, grazia a perdere
– per l'attimo che è cantico e chiamata, scarto
e madonna noia delle usanze stazionarie,
tesa ancora a una sembianza: sosta al cono
d'ombra dei tratti volti nella pietra,
arresa la sete da una vena esplosa
come scorza piegata e distrazione;
tempie e mani di una scelta: è qui,
non si va mai per cime spezzate –
(una testa in pietra per l'Arno – a sciacquare
i panni – come il Modigliani sommerso
al taglio della tela, per le prossime cornici
lasse, disusate – un così semplice, banale
fibroblasto rotolato dal monte Falterona
verso mercati chiusi; gli levino i graffi,
i segni del tempo a questo velo
incancrenito, la piena di un sudario
che lascia verticali attonite, allarmi
spenti, posti all'entrata sotto
il semplice peso di una grata)
e così arreso, prova la combinazione in gesti
e lacere estensioni: nervi che si sommano
agli arresti, alle macchie e alla linfa
ibridata al quando senza rischi
di chiusura, a tutto ciò che tiene, focolaio
che è lesione, tolleranza, grazia a perdere
– per l'attimo che è cantico e chiamata, scarto
e madonna noia delle usanze stazionarie,
tesa ancora a una sembianza: sosta al cono
d'ombra dei tratti volti nella pietra,
arresa la sete da una vena esplosa
come scorza piegata e distrazione;
tempie e mani di una scelta: è qui,
non si va mai per cime spezzate –
(una testa in pietra per l'Arno – a sciacquare
i panni – come il Modigliani sommerso
al taglio della tela, per le prossime cornici
lasse, disusate – un così semplice, banale
fibroblasto rotolato dal monte Falterona
verso mercati chiusi; gli levino i graffi,
i segni del tempo a questo velo
incancrenito, la piena di un sudario
che lascia verticali attonite, allarmi
spenti, posti all'entrata sotto
il semplice peso di una grata)
lunedì 5 luglio 2010
Facilità di un giorno
già un passo già un nome e bastano a far più concrete le cose anche lontane, altro che fumo se c’è un male e quest’afa delle cose che circondano: come le telefonate a ore stabilite in grida o a non alzare la cornetta il freddo di un nevaio futuro che slavina
e a negare invece: la facilità dei movimenti tellurici inavvertiti sfiorati a fior di pelle, l’accumularsi dei passi invisibili all’altra stanza, il rimuginare di corvi e cicale arrampicarsi per la grondaia rovente al sottotetto
in sintesi: la fuga dell’acqua attorcigliata per la superficie e brevi gorghi, la somma dello svenimento tra il passo del sangue allentato e il gesto come una sfasatura tra la periferia ed il centro
finale il colorio di tre piume a fondovasca, e in alto non visto il corpo tondo se rilassato o satollo, slegato, come appesa metamorfosi incompleta e appena un po’ più vuota.
e a negare invece: la facilità dei movimenti tellurici inavvertiti sfiorati a fior di pelle, l’accumularsi dei passi invisibili all’altra stanza, il rimuginare di corvi e cicale arrampicarsi per la grondaia rovente al sottotetto
in sintesi: la fuga dell’acqua attorcigliata per la superficie e brevi gorghi, la somma dello svenimento tra il passo del sangue allentato e il gesto come una sfasatura tra la periferia ed il centro
finale il colorio di tre piume a fondovasca, e in alto non visto il corpo tondo se rilassato o satollo, slegato, come appesa metamorfosi incompleta e appena un po’ più vuota.
mercoledì 30 giugno 2010
Asino e Gisella: una scoria nera
-Sai perchè gli asini ragliano?
Perchè sono innamorati-
cit.
C'era una volta Asino. Asino era gonfio e tozzo, con gli occhi di un'aquila grande, ispezionava i buchi della luna groviera solamente saltellando,i capelli del sole che scende quando è stanco e, mentre tutti gli altri asini si addormentavano contando le pecore, Asino ci vedeva così bene che non poteva fare a meno di contarne i riccioli anzichè le teste.
Sotto i ciuffi che Asino numerava, una notte in cui faceva troppo brutto per contare le stelle (cosa che ad Asino piaceva molto), proprio sotto alcuni di quei ciuffi, venne a trovarsi una grossa matassa di pelo e sventura, vagamente riconducibile ad uno zucchero filato con quattro mouse penzoloni: una grossa Gisella.
La cosa strana di Gisella era che non aveva una sola ciocca scomposta, pareva fosse passata sotto un'enorme piastra. Non appena si accorse di essere osservata, quella notte quasi tutta nera, Gisella rimbalzò fino al recinto riuscendo a scrutare sommariamente Asino.
Fu così che Asino e Gisella si innamorarono perdutamente l'uno dell'altra, l'altra dell'uno. Saltellavano assieme per colline e colline e se Asino andava un po' troppo avanti, si fermava in attesa di Gisella, mentre se Gisella andava un po' troppo avanti, si fermava aspettando Asino.
Ora, però, c'era un problema, perchè Gisella era una pecora tonda con gli occhi tondi e diversi. Gisella aveva l'iride azzurra, che è un bel colore, ma non se ne era mai vantata perchè ci vedeva così male da non sapere nemmeno cos'era l'azzurro. Quando Gisella rifletteva le sue orbite cominciavano a gonfiarsi e sgonfiarsi ad alternanza; e questo era terribile.
Asino sapeva davvero un mucchio di cose: sapeva quante piume hanno gli usignoli, quante api abitano l'alveare del Re-contadino, quante zampe di mucca ci sono in una mandria di mucche e tutte le sfumature del cielo che si addormenta. Però Asino era anche un filosofo, quindi come tutti i filosofi soffriva molto quando passando sopra un formicaio veniva a sapere l'intero ammontare delle sue vittime, oppure quando dopo aver terminato (quindi molto presto) di contare i fiori del pesco in festa era costretto a contare anche il numero dei nidi abbandonati che ispiravano i canti tristi delle civette. Asino era molto triste, era sempre molto triste e Gisella, che non vedeva quasi nulla, lo capiva dal suo passo leggermente ripiegato su se stesso.
Allora Gisella chiedeva: "Sono molto belle le ciliegie che dondolano sugli alberi grandi?"
E Asino rispondeva: "si, ma sono rosse come le gocce di sangue che lascia la volpe che torna dal pollaio e dal filo spinato"
A queste parole, Gisella, che benchè fosse molto ignorante, era un tipo molto riflessivo, iniziava a dilatare e restringere complusivamente gli occhi, assumendo un'aria vagamente svampita. Gisella non sapeva che quel suo modo di fare faceva diventare pazzo qualunque animale la osservasse, lo sapeva solo Asino, Gisella pensava che tutti fuggissero alla sua presenza solo perchè un manto senza boccoli era la cosa più brutta del mondo.
Un giorno il Re-contadino andò in vacanza. Tornò dopo una settimana con una buffa cartolina in mano. La agitava verso Asino dicendo:
:-Guarda qui che bel posto, Asino, guarda, guarda. Sono stato in una grande casa piena di altre case, davvero molto bizzarro. Vendevano molte cose, così ho chiesto specificatamente qualsiasi oggetto che mi ricordasse la casa più grande di tutte. Loro hanno detto che ce ne stanno davvero tante di case in città. Io, vedi, non so cosa significhi "città", ma ho immaginato fosse la grande casa che conteneva tutte le altre case; quindi ho detto ancora una volta di volere la città più grande e loro sai cosa mi hanno detto? Che al mondo di città ce ne sono tante. Da qui ho dedotto che "mondo" deve essere una casa veramente immensa. Visto come andava la storia ho terminato domandando se ci fosse qualcosa più grande di "mondo" e si, hanno detto che c'era e che ce n'erano veramente di più grandi altrove. -Si, d'accordo, ma non altrove, io dico qui, sotto questo sole- ho replicato.-
-Ecco Asino- Proseguì il contadino-Re sventolando sotto gli occhi di Asino una foto satellitare della terra, -ecco dove sono stato, ecco, e che bellezza!-
A quella vista Asino fu colto da un infinito dolore: vedeva continenti e dentro i continenti le guerre, dentro le guerre le nazioni e dentro le nazioni le città in fiamme e dentro le città in fiamme la gente che muore di fame, poi le case con la gente che muore di noia, nella noia la morte, e nella morte rivedeva tutti i continenti, tutte le nazioni, tutte le città e tutte le case.
Era come se tutte quelle cose avessero tirato tutti i capelli del sole e apposto un epitaffio a tutte le fosse della luna, occhiaie della notte. In preda alla nuova paura, Asino corse da Gisella che dall'angoscia dello zoccolo carpì un forte spavento.
Allora Gisella lo interrogò: "Sono meravigliosi i boschi che costruiscono i castori sui fiumi?"
Dunque Asino: "Oh, si, sono boschi rubati, però"
Detto questo la fissò deliberatemente negli occhi ed impazzì.
Perchè sono innamorati-
cit.
C'era una volta Asino. Asino era gonfio e tozzo, con gli occhi di un'aquila grande, ispezionava i buchi della luna groviera solamente saltellando,i capelli del sole che scende quando è stanco e, mentre tutti gli altri asini si addormentavano contando le pecore, Asino ci vedeva così bene che non poteva fare a meno di contarne i riccioli anzichè le teste.
Sotto i ciuffi che Asino numerava, una notte in cui faceva troppo brutto per contare le stelle (cosa che ad Asino piaceva molto), proprio sotto alcuni di quei ciuffi, venne a trovarsi una grossa matassa di pelo e sventura, vagamente riconducibile ad uno zucchero filato con quattro mouse penzoloni: una grossa Gisella.
La cosa strana di Gisella era che non aveva una sola ciocca scomposta, pareva fosse passata sotto un'enorme piastra. Non appena si accorse di essere osservata, quella notte quasi tutta nera, Gisella rimbalzò fino al recinto riuscendo a scrutare sommariamente Asino.
Fu così che Asino e Gisella si innamorarono perdutamente l'uno dell'altra, l'altra dell'uno. Saltellavano assieme per colline e colline e se Asino andava un po' troppo avanti, si fermava in attesa di Gisella, mentre se Gisella andava un po' troppo avanti, si fermava aspettando Asino.
Ora, però, c'era un problema, perchè Gisella era una pecora tonda con gli occhi tondi e diversi. Gisella aveva l'iride azzurra, che è un bel colore, ma non se ne era mai vantata perchè ci vedeva così male da non sapere nemmeno cos'era l'azzurro. Quando Gisella rifletteva le sue orbite cominciavano a gonfiarsi e sgonfiarsi ad alternanza; e questo era terribile.
Asino sapeva davvero un mucchio di cose: sapeva quante piume hanno gli usignoli, quante api abitano l'alveare del Re-contadino, quante zampe di mucca ci sono in una mandria di mucche e tutte le sfumature del cielo che si addormenta. Però Asino era anche un filosofo, quindi come tutti i filosofi soffriva molto quando passando sopra un formicaio veniva a sapere l'intero ammontare delle sue vittime, oppure quando dopo aver terminato (quindi molto presto) di contare i fiori del pesco in festa era costretto a contare anche il numero dei nidi abbandonati che ispiravano i canti tristi delle civette. Asino era molto triste, era sempre molto triste e Gisella, che non vedeva quasi nulla, lo capiva dal suo passo leggermente ripiegato su se stesso.
Allora Gisella chiedeva: "Sono molto belle le ciliegie che dondolano sugli alberi grandi?"
E Asino rispondeva: "si, ma sono rosse come le gocce di sangue che lascia la volpe che torna dal pollaio e dal filo spinato"
A queste parole, Gisella, che benchè fosse molto ignorante, era un tipo molto riflessivo, iniziava a dilatare e restringere complusivamente gli occhi, assumendo un'aria vagamente svampita. Gisella non sapeva che quel suo modo di fare faceva diventare pazzo qualunque animale la osservasse, lo sapeva solo Asino, Gisella pensava che tutti fuggissero alla sua presenza solo perchè un manto senza boccoli era la cosa più brutta del mondo.
Un giorno il Re-contadino andò in vacanza. Tornò dopo una settimana con una buffa cartolina in mano. La agitava verso Asino dicendo:
:-Guarda qui che bel posto, Asino, guarda, guarda. Sono stato in una grande casa piena di altre case, davvero molto bizzarro. Vendevano molte cose, così ho chiesto specificatamente qualsiasi oggetto che mi ricordasse la casa più grande di tutte. Loro hanno detto che ce ne stanno davvero tante di case in città. Io, vedi, non so cosa significhi "città", ma ho immaginato fosse la grande casa che conteneva tutte le altre case; quindi ho detto ancora una volta di volere la città più grande e loro sai cosa mi hanno detto? Che al mondo di città ce ne sono tante. Da qui ho dedotto che "mondo" deve essere una casa veramente immensa. Visto come andava la storia ho terminato domandando se ci fosse qualcosa più grande di "mondo" e si, hanno detto che c'era e che ce n'erano veramente di più grandi altrove. -Si, d'accordo, ma non altrove, io dico qui, sotto questo sole- ho replicato.-
-Ecco Asino- Proseguì il contadino-Re sventolando sotto gli occhi di Asino una foto satellitare della terra, -ecco dove sono stato, ecco, e che bellezza!-
A quella vista Asino fu colto da un infinito dolore: vedeva continenti e dentro i continenti le guerre, dentro le guerre le nazioni e dentro le nazioni le città in fiamme e dentro le città in fiamme la gente che muore di fame, poi le case con la gente che muore di noia, nella noia la morte, e nella morte rivedeva tutti i continenti, tutte le nazioni, tutte le città e tutte le case.
Era come se tutte quelle cose avessero tirato tutti i capelli del sole e apposto un epitaffio a tutte le fosse della luna, occhiaie della notte. In preda alla nuova paura, Asino corse da Gisella che dall'angoscia dello zoccolo carpì un forte spavento.
Allora Gisella lo interrogò: "Sono meravigliosi i boschi che costruiscono i castori sui fiumi?"
Dunque Asino: "Oh, si, sono boschi rubati, però"
Detto questo la fissò deliberatemente negli occhi ed impazzì.
giovedì 17 giugno 2010
According to Webster - come ho disimparato le mie fortune
Quando parlavo al telefono non capivo mai se la voce che sentivo era quella di un uomo di una donna. Dovetti praticare un foro all'altezza dell'intestino. Per sentirci di meno. Ma ora è uscito il sole. È arrivato senza preavviso, distruggendo le mie logiche, i miei ragionamenti, portandomi via l'ultimo residuo di coerenza. Lui, solo, a boicottare le stelle: e un solo maledetto sorriso mi ha sconvolto dentro.
Ma non erano uguali. Erano solamente le parole a imporci questa contiguità, a trainarci in un coagulo di moltiplicazione dei punti critici per arruolare le nebulose. Fiffo, spero che tu...io non perdo colpi, ero impegnato a cercare questo per voi.
Ma non erano uguali. Erano solamente le parole a imporci questa contiguità, a trainarci in un coagulo di moltiplicazione dei punti critici per arruolare le nebulose. Fiffo, spero che tu...io non perdo colpi, ero impegnato a cercare questo per voi.
Hanno dato l'orario di inizio preciso della gara mentre mi stavo riscaldando. Mortificato. Davvero.
mercoledì 2 giugno 2010
I dannati della terra, ovvero un discorso intorno al prosaico
Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin
Ho l'emicrania e la nausea e il sonno. Prima leggevo la vita di Carmelo Bene, un libro del quale posseggo due copie, identiche in tutto e che, se questo fosse davvero il migliore dei mondi, dovrebbero risolversi a occupare la medesima posizione in ossequio a Occam e alle dita sclerotiche degli enciclopedisti. So per certo che Carlo Magno diede un pugno a un vescovo. Carmelo Bene sputò in faccia a un disoccupato. Di Schopenhauer potrei dire che rovesciò una serva per le scale. Come sono facili tutte queste cose, amici miei! È che, di questi tempi, trovo tutto facile. Qualcosa come la sensazione di Tiresia, sparato ad alzo zero attraverso i sette veli progressivi dell'alterità sessuale, qualcosa come la bonaccia al ritorno da un periplo, sigillo alla conclusione del mondo, death-in-life. Lacrime nell'Indo, ma nemmeno. Come sono vuoti i nostri baracconi! Giganti e nani votati al pareggio dalla moltiplicazione insensata degli enti, queste ottiche ipertrofiche dei nostri giorni, mirini montati sugli ICBM, colpire l'indistinguibile che è l'esatta natura della morte, il motivo per cui trasla da omicidio a genocidio, l'altro risvolto del gemito della specie. Bergson dice che l'azione meccanica secerne il ridicolo. E ogni azione che sia ripetuta più di una volta – ovvero, oltre lo stadio in cui non è mai avvenuta, secondo Borges – diviene necessariamente meccanica, istanza basilare dell'esistenza. Ribadire l'evento è l'inferno mediano dell'uomo, tra la reiterazione del diavolo a molla e la condanna liricizzata di Sisifo. Temo si debba, oramai, decostruire la potenzialità stessa dell'assurdo e restituire al mondo il cilicio del bigottismo empirico, giacché l'evento non sfugge mai alla propria carne e al proprio sangue e non muta di stato. Semmai si scinde in costituenti sempre più elementari, affonda nella palude del quantitativo: nei regni fossili degli elementi, laddove l'unica ontologia possibile è l'addizione. Dicevo al maestro che c'è un motivo per cui gli stupidi comandano, ed è che gli stupidi fanno le cose. Gli stupidi sono quantitativi per definizione. Si arrampicano sui corpi dei compagni caduti. Tirano le stampelle contro il nemico. Accerchiano la Sesta Armata a Stalingrado con le dita dei piedi mangiate dall'inverno. Vincono la guerra, perché la guerra realizza la condanna biblica dell'occhio per occhio, il comunismo della morte – a ciascuno secondo la sua sola vita. Questo è l'estremo disdegno di un Dio che non riconosce i suoi oltre l'Adamo inteso come primo e unico, il Dio arreso alle mandrie, non a torto invocato come pastore, che comanda la moltiplicazione avendo disperato di ogni completezza, nel cui orecchio Kierkegaard bela il proprio nome in un parossismo di tragedia animale. Camminando dalle parti di San Pietro ho visto una scritta sul muro, e questa scritta diceva “Odia gli stupidi”. The words of the prophets... A noi, fatalmente esclusi dall'ingresso nell'aritmetica consolatoria, non resta che la speranza dell'azione assoluta, un semicosciente sogno nietzschiano. Fare tutto in tutte le maniere che non è collezionismo, ma rivelazione istantanea di quell'altro dal mondo che è la completezza del mondo, regressione ad un farsi implicante tutti i semi, lo stadio larvale dell'individuazione, il tempo di grazia in cui la crisalide segna i confini dell'evento. Ma di questo altrove.
La forgia segreta del prosaico, questo abisso ardente dei Nibelunghi, è l'azione, nel modo e nella misura in cui è possibile all'uomo. E tutto questo si risolve, capirete, nell'inesauribile contraddizione tra oggetto e macchina. Se il primo riceve il proprio significato come una grazia mariana, la seconda lo genera in una sequenza ordinata di spasmi uterini. L'azione che non si redime saturando tutte le possibilità e tutti gli scopi affonda nel gorgo della teratologia, procede per aborti progressivi fino al numero concordato di occhi e braccia. C'è un motivo per cui i ruderi conservano la propria dignità, per cui questo Colosseo, simile a un molare cariato, non si decide a crollare: la rovina è l'equivalente architettonico della reliquia, segno tangibile dell'ascensione da uomo a santo, da macchina a oggetto. La buddhità di chi ha sconfitto il proprio fine, più ancora che la propria fine.
@ Fiffo: ma la mia risposta è arrivata?
Debout, les forçats de la faim
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin
Ho l'emicrania e la nausea e il sonno. Prima leggevo la vita di Carmelo Bene, un libro del quale posseggo due copie, identiche in tutto e che, se questo fosse davvero il migliore dei mondi, dovrebbero risolversi a occupare la medesima posizione in ossequio a Occam e alle dita sclerotiche degli enciclopedisti. So per certo che Carlo Magno diede un pugno a un vescovo. Carmelo Bene sputò in faccia a un disoccupato. Di Schopenhauer potrei dire che rovesciò una serva per le scale. Come sono facili tutte queste cose, amici miei! È che, di questi tempi, trovo tutto facile. Qualcosa come la sensazione di Tiresia, sparato ad alzo zero attraverso i sette veli progressivi dell'alterità sessuale, qualcosa come la bonaccia al ritorno da un periplo, sigillo alla conclusione del mondo, death-in-life. Lacrime nell'Indo, ma nemmeno. Come sono vuoti i nostri baracconi! Giganti e nani votati al pareggio dalla moltiplicazione insensata degli enti, queste ottiche ipertrofiche dei nostri giorni, mirini montati sugli ICBM, colpire l'indistinguibile che è l'esatta natura della morte, il motivo per cui trasla da omicidio a genocidio, l'altro risvolto del gemito della specie. Bergson dice che l'azione meccanica secerne il ridicolo. E ogni azione che sia ripetuta più di una volta – ovvero, oltre lo stadio in cui non è mai avvenuta, secondo Borges – diviene necessariamente meccanica, istanza basilare dell'esistenza. Ribadire l'evento è l'inferno mediano dell'uomo, tra la reiterazione del diavolo a molla e la condanna liricizzata di Sisifo. Temo si debba, oramai, decostruire la potenzialità stessa dell'assurdo e restituire al mondo il cilicio del bigottismo empirico, giacché l'evento non sfugge mai alla propria carne e al proprio sangue e non muta di stato. Semmai si scinde in costituenti sempre più elementari, affonda nella palude del quantitativo: nei regni fossili degli elementi, laddove l'unica ontologia possibile è l'addizione. Dicevo al maestro che c'è un motivo per cui gli stupidi comandano, ed è che gli stupidi fanno le cose. Gli stupidi sono quantitativi per definizione. Si arrampicano sui corpi dei compagni caduti. Tirano le stampelle contro il nemico. Accerchiano la Sesta Armata a Stalingrado con le dita dei piedi mangiate dall'inverno. Vincono la guerra, perché la guerra realizza la condanna biblica dell'occhio per occhio, il comunismo della morte – a ciascuno secondo la sua sola vita. Questo è l'estremo disdegno di un Dio che non riconosce i suoi oltre l'Adamo inteso come primo e unico, il Dio arreso alle mandrie, non a torto invocato come pastore, che comanda la moltiplicazione avendo disperato di ogni completezza, nel cui orecchio Kierkegaard bela il proprio nome in un parossismo di tragedia animale. Camminando dalle parti di San Pietro ho visto una scritta sul muro, e questa scritta diceva “Odia gli stupidi”. The words of the prophets... A noi, fatalmente esclusi dall'ingresso nell'aritmetica consolatoria, non resta che la speranza dell'azione assoluta, un semicosciente sogno nietzschiano. Fare tutto in tutte le maniere che non è collezionismo, ma rivelazione istantanea di quell'altro dal mondo che è la completezza del mondo, regressione ad un farsi implicante tutti i semi, lo stadio larvale dell'individuazione, il tempo di grazia in cui la crisalide segna i confini dell'evento. Ma di questo altrove.
La forgia segreta del prosaico, questo abisso ardente dei Nibelunghi, è l'azione, nel modo e nella misura in cui è possibile all'uomo. E tutto questo si risolve, capirete, nell'inesauribile contraddizione tra oggetto e macchina. Se il primo riceve il proprio significato come una grazia mariana, la seconda lo genera in una sequenza ordinata di spasmi uterini. L'azione che non si redime saturando tutte le possibilità e tutti gli scopi affonda nel gorgo della teratologia, procede per aborti progressivi fino al numero concordato di occhi e braccia. C'è un motivo per cui i ruderi conservano la propria dignità, per cui questo Colosseo, simile a un molare cariato, non si decide a crollare: la rovina è l'equivalente architettonico della reliquia, segno tangibile dell'ascensione da uomo a santo, da macchina a oggetto. La buddhità di chi ha sconfitto il proprio fine, più ancora che la propria fine.
@ Fiffo: ma la mia risposta è arrivata?
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lunedì 31 maggio 2010
Clivage
il richiamo, la coazione a ripetere
dei farisei; le percorrenze, la curva
e lo sbrego nello schienale, i fogli
delle prescrizioni feudali, gli ovuli
infiniti, di fibra in fibra: la ferocia
che dissipa il calco, l'avantreno,
lo scarto pneumatico di un solco
monocorde, scollato, all'asintoto
- il rasoio di Occam, l'indicazione
da fraintendere, l'accorgimento
ripreso al suo contrario -
una firma numerata per lo scavo
delle mani; gli accidenti del canto,
le spallucce degli altri, il contro
vento che porta a farsi bastare
il mozzicone: il porfido acclarato,
la cordatura del mondo, presa
allo slancio, concessa alla parte
del dileguo, attesa all'amnesia
dei farisei; le percorrenze, la curva
e lo sbrego nello schienale, i fogli
delle prescrizioni feudali, gli ovuli
infiniti, di fibra in fibra: la ferocia
che dissipa il calco, l'avantreno,
lo scarto pneumatico di un solco
monocorde, scollato, all'asintoto
- il rasoio di Occam, l'indicazione
da fraintendere, l'accorgimento
ripreso al suo contrario -
una firma numerata per lo scavo
delle mani; gli accidenti del canto,
le spallucce degli altri, il contro
vento che porta a farsi bastare
il mozzicone: il porfido acclarato,
la cordatura del mondo, presa
allo slancio, concessa alla parte
del dileguo, attesa all'amnesia
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Un applauso a quest'uomo: è facile attirare la gente dicendo cose comuni a tutti. Più difficile segnare un goal all'Olanda: e questo infatti non accade, andiamo ad Amsterdam senza capirla, la sfioriamo soltanto. Stiamo lì, appoggiati all'uscio, a leccarle il campanello: senza trovare il coraggio di suonarlo, senza trovare quella pressione che non ci faccia sentire in colpa. Perché non importa l'effetto, è una cosa formale. Mi raccomando, ragazzi: non presentatevi in pantaloncini corti o in costume da bagno. I peli.
A me fanno ugualmente cagare. Questa immaginetta parlava di te, che ancora rifiuti i pomelli e non prenoti le fermate. So bene cos'è una derivata, non conosco gli integrali.
Quest'uomo, io dico, merita più di un applauso, perché è grazie a lui che l'anno scorso sei riuscito ad annettere la Lituania. I campi seminati a sangue non regalano i frutti più succosi. Certo! ma il castello dov'è? che fermata? quanto ci metto?
Here comes goodbye. La presenza del piantone è innecessaria, a patto che la sorveglianza. Siamo come due satelliti: abbiamo bisogno di gravitare vicino. Vaglielo a spiegare, poi, che un satellite ha già rinunciato ai suoi bisogni. Allora io e te dobbiamo fidanzarci. xD
Lo scatolone dei ricordi. Ci trovo un super liquidator. In strada tutti a sparare.
Io ricordo il nascondino. Un nascondino estraneo alle metafore, un nascondino vero, di te e me, quando contare fino a cento era davvero il mio pensiero più abissale. Ci troviamo in quel giardino, con le pistole ad acqua. Ora tu dirai: a che punto credi, se prima eri solo lì, come tutti, non serve scriverlo, a me sembri un po' paralizzato, se penso che io rifletto sulle scritte dei muri e invece tu ancora non puoi permetterti di firmare le strade.
Io sono uno che si diverte con poco. Ancora augurissimi, Silvia.
Bellissimo intervento, assolutamente da leggere. Scegliamo di tenere ancora.
We choose to draw again.
We choose to draw again.
We choose to draw again.
But Evil keeps his hand as do we...