mercoledì 2 giugno 2010

I dannati della terra, ovvero un discorso intorno al prosaico

Debout, les damnés de la terre
Debout, les forçats de la faim
La raison tonne en son cratère
C'est l'éruption de la fin


Ho l'emicrania e la nausea e il sonno. Prima leggevo la vita di Carmelo Bene, un libro del quale posseggo due copie, identiche in tutto e che, se questo fosse davvero il migliore dei mondi, dovrebbero risolversi a occupare la medesima posizione in ossequio a Occam e alle dita sclerotiche degli enciclopedisti. So per certo che Carlo Magno diede un pugno a un vescovo. Carmelo Bene sputò in faccia a un disoccupato. Di Schopenhauer potrei dire che rovesciò una serva per le scale. Come sono facili tutte queste cose, amici miei! È che, di questi tempi, trovo tutto facile. Qualcosa come la sensazione di Tiresia, sparato ad alzo zero attraverso i sette veli progressivi dell'alterità sessuale, qualcosa come la bonaccia al ritorno da un periplo, sigillo alla conclusione del mondo, death-in-life. Lacrime nell'Indo, ma nemmeno. Come sono vuoti i nostri baracconi! Giganti e nani votati al pareggio dalla moltiplicazione insensata degli enti, queste ottiche ipertrofiche dei nostri giorni, mirini montati sugli ICBM, colpire l'indistinguibile che è l'esatta natura della morte, il motivo per cui trasla da omicidio a genocidio, l'altro risvolto del gemito della specie. Bergson dice che l'azione meccanica secerne il ridicolo. E ogni azione che sia ripetuta più di una volta – ovvero, oltre lo stadio in cui non è mai avvenuta, secondo Borges – diviene necessariamente meccanica, istanza basilare dell'esistenza. Ribadire l'evento è l'inferno mediano dell'uomo, tra la reiterazione del diavolo a molla e la condanna liricizzata di Sisifo. Temo si debba, oramai, decostruire la potenzialità stessa dell'assurdo e restituire al mondo il cilicio del bigottismo empirico, giacché l'evento non sfugge mai alla propria carne e al proprio sangue e non muta di stato. Semmai si scinde in costituenti sempre più elementari, affonda nella palude del quantitativo: nei regni fossili degli elementi, laddove l'unica ontologia possibile è l'addizione. Dicevo al maestro che c'è un motivo per cui gli stupidi comandano, ed è che gli stupidi fanno le cose. Gli stupidi sono quantitativi per definizione. Si arrampicano sui corpi dei compagni caduti. Tirano le stampelle contro il nemico. Accerchiano la Sesta Armata a Stalingrado con le dita dei piedi mangiate dall'inverno. Vincono la guerra, perché la guerra realizza la condanna biblica dell'occhio per occhio, il comunismo della morte – a ciascuno secondo la sua sola vita. Questo è l'estremo disdegno di un Dio che non riconosce i suoi oltre l'Adamo inteso come primo e unico, il Dio arreso alle mandrie, non a torto invocato come pastore, che comanda la moltiplicazione avendo disperato di ogni completezza, nel cui orecchio Kierkegaard bela il proprio nome in un parossismo di tragedia animale. Camminando dalle parti di San Pietro ho visto una scritta sul muro, e questa scritta diceva “Odia gli stupidi”. The words of the prophets... A noi, fatalmente esclusi dall'ingresso nell'aritmetica consolatoria, non resta che la speranza dell'azione assoluta, un semicosciente sogno nietzschiano. Fare tutto in tutte le maniere che non è collezionismo, ma rivelazione istantanea di quell'altro dal mondo che è la completezza del mondo, regressione ad un farsi implicante tutti i semi, lo stadio larvale dell'individuazione, il tempo di grazia in cui la crisalide segna i confini dell'evento. Ma di questo altrove.

La forgia segreta del prosaico, questo abisso ardente dei Nibelunghi, è l'azione, nel modo e nella misura in cui è possibile all'uomo. E tutto questo si risolve, capirete, nell'inesauribile contraddizione tra oggetto e macchina. Se il primo riceve il proprio significato come una grazia mariana, la seconda lo genera in una sequenza ordinata di spasmi uterini. L'azione che non si redime saturando tutte le possibilità e tutti gli scopi affonda nel gorgo della teratologia, procede per aborti progressivi fino al numero concordato di occhi e braccia. C'è un motivo per cui i ruderi conservano la propria dignità, per cui questo Colosseo, simile a un molare cariato, non si decide a crollare: la rovina è l'equivalente architettonico della reliquia, segno tangibile dell'ascensione da uomo a santo, da macchina a oggetto. La buddhità di chi ha sconfitto il proprio fine, più ancora che la propria fine.

@ Fiffo: ma la mia risposta è arrivata?

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