venerdì 4 dicembre 2009

Processo di estrapolazione delle condizioni di tangenza(?)

il pleut dans mon cœur sans âme
et la glace sous les mes basses mouillés
c’est la circumnavigation d’une étoile.

La betoniera rullante e immonda è una circonferenza che ribolle l'inferno. Un suo periplo potrebbe esprimere il rantolo delle capocchie bolse affacciate sulla cima dei domini di steli, le agonie plurime barcollanti che in qualche andito di mondo chiamano fiori, oppure fleures, magari flowers, tumuli sporgenti simili alle maniglie con le braccia conserte di porte andate in pezzi, suorine impaurite al cospetto di una ghigliottina gigante, poi un ragno d'argento che si culla su una tela bigia, la fumea dei cieli anneriti e le ossa di draghi di ferro. Tutto questo entra stamattina dalla feritoia sul Tempo come un immenso quadro meccanico, un impianto sommerso di sabbie orticanti, scorpioni di cera, occhi di tartaruga ed orbite inconciliabili, un golem arrugginito scrostato dal cielo azzurro, ricordo immortale del passaggio dei pavoni.
Superstite ancora una volta dalla mancanza nel cuore, sento il bisogno irrefrenabile di un ordine, la sensazione ingenita della divinità sta procacciandosi la sua rivincita: uno spirito silenzioso che ogni notte da tempo sfiora la mia soglia come la morte d'Egitto ha attraversato il sonno, ritorna la coscienza, il formicolio peculiare delle gravi amputazioni e nel dolore queste sono cose che si cercano.
Un'equazione è l'uguaglianza sostanziale di contrapposizioni algebriche involta attorno ad un ignorato ingiustamente ricoperto d'attenzioni, segno perenne di cambiamenti troppo deboli per significare qualcosa in meno se traslati un po' più in basso nel foglio.
X=3
Non c'è scampo, l'ho immaginato in mille luoghi, accollato alle onde lunghe per sinusoidi invisibili tra l'Equatore e il Polo Sud e i leoni gelati continuavano ad avere la criniera e i pinguini sotto le palme il torace imbiancato e ancora X=3. Le costanti si muovono a lentezza indicibile, quasi per forza, solamente grazie a quella bella invenzione del "coefficiente di adattabilità", la matematica che si batte il pugno sul petto. Mea culpa.
Di per sè l'operazione è un processo analitico fortemente avulso alle variazioni qualitative, ammesso che si possa sempre parlare di analisi; un Socrate, forse, o un Pitagora potevano permettersi di investigare per rappresentazioni immutabili rispetto alle forme fisiche perchè fisiche lo erano davvero, salde, non come adesso che appena tentiamo di elaborarle già avviliscono, volatili ed inconsistenti.
Ho inciso il mio sistema, tre coagulazioni dell'esistenza connesse in un'istanza improvvisa di sistemazione, tre convergenze visive che, cerco di persuadermene, non possono essere casuali, viaggi davanti agli occhi su treni d'ametista, no, so che qui è la loro fermata definitiva, nel mio giardino alle otto di mattina: la betoniera, un fiore e un mattone.
Testimoniano l'istituzione di questa inedita trinità una matita, un pezzo di carta Fabriano e i quattro cantoni operativi pronti a battermi il frustino sul polso qualora mancassi il calcolo. Si stendevano gli dei dentro i nuovi confini del potere coordinativo congruente alla circonferenza neofita; un certo quantitativo di sole, di acqua, una certa ammonizione del vento, il filo d'erba esattamente accanto alla pietra, la pietra, non una fotocopia proveniente dall'incontro di bagliori verdi con archetipi alieni, un petalo esattamente nella tredicesima posizione di una corolla dorata, anch'essa situata all'incrocio di precisi meridiani e paralleli srotolati per detonazioni variopinte, sulla margherita prossima ad una crudele scomparsa dentro grigi mari pietrificati, la sua scomparsa. E in questo microcosmo l'evento ha una durata compresa tra estremi reali, armonici, determinati, involontariamente ho creato Dio e l'Eden, un angolo di mondo dal quale oltre si può prescindere, dove si può morire perché la destinazione è unica, la terra, anche le cose sono uniche,una proporzione senza orizzonti a cui ho elargito un metro di cielo soltanto.
Betonierafioremattone è da abitare. Mi sono piccata di poter fare lo stesso con la mia vita, mettendo a sistema gli avvenimenti principali, scrivo sul mio straccio cartaceo: Nascitavitamorte, ma termino l'ultima lettera con prematuro sconforto. Il mattone esiste, eccolo là tra i cespugli verdeggianti, anche il fiore e la betoniera esistono, proprio lì, sforzando un poco gli occhi, ma la mia nascita, dov'è? Da qualche parte la sento sobbalzare nella tasca impressa in caratteri neri sulla carta d'identità, e la mia vita, la mia morte? Mi sfuggono i capi di questa sequenza fatale, la bruma dell'oblio preme indefessamente ai vetri del principio, fluttuante l'atto ammutolisce il resoconto complessivo sul trascorso, un documento ideale che tutti ci consegniamo all'uscita dal tunnel mondano.
Bel risultato, eccomi, un'origine incarnata su piani cartesiani apparentemente disabitati, lo spirito mi gira intorno come effusioni fantasma affezionati alla tomba. Mi sono ricreduta, temo che tornerò a cercare almeno di partecipare alla beatitudine del piccolo regno di Betonierafioremattone. Mi appiccico al muro, la zanna del sole ferisce i panneggi confusi sulla felpa bluastra e lo squarcio abbacinante che stampa su questa promiscua scultura crepuscolare. Fuori quelle presenze esistono subissate nel loro gaio non-essere, forse col sole anche un'anima abbandonata può godere della completa omogeneità della perdita, forse può dimenticare d'essere, rompere la funzione e aver fame di oggetti invece che d'infinito. Perchè se così fosse le parole mi penetrerebbero di nuovo come sostanze amiche, smetterei di cercarlo ovunque, lui e l'infinito (che poi sono la stessa cosa), imparerei a contare gli arcobaleni che cadono, a staccare gli occhi da volte sempre bianche costellate da astri carbonici.
Niente, invece. Mi accorgo di essere immobile, avverto le distanze oltrepassarmi indisturbate come bestie ai piedi della vedetta, semplicemente mi risale dallo stomaco il roboare dei sentimenti tristi rammentandomi il carico simbiotico che nessuno spazio potrà mai risanare, bensì io lo riempirei di incubi, persino là, accanto alla betoniera che uccide il prato il cuore continuerebbe a morire senza tregua, questa cittadinanza che è quasi l’anatema delle nuvole sutura soluzioni infinite tra me e il tutto, apre precipizi invalicabili ed estremità che non si possono toccare risorgono dalla riflessione illuminate dal giallo acido di una tangente fittizia costituita da corrispondenze tra telefoni isolati, un’esistenza che ho, un’esistenza deformata dalla nebbia ontologica nostalgica dell’insofferenza consunta di una montagna. Col dito disegno sul muro la traiettoria dell’avvicinamento, l’immaginaria propulsione numerica che realmente potrebbe approssimare i centri, traversare le intermittenze grafiche immune al crollo mediante la codificazione dell’esperienza in estensione, trasponendo la dimestichezza con la materia inanimata in un prodotto capace di stabilire nessi empirici elevati al punto di potersi definire conoscenza, interiorizzazione, mutuo travaso.
Non mi arrendo, riacchiappo il foglio squadrato scarabocchiando valori sopra lo zero, il graffio che mi feci da piccola cadendo dalla bicicletta, una schiacciata al muro, le riflessioni attinenti (ecco perché moltiplico invece di aggiungere) , tutto pianamente assume il suo profilo matematico. E anche qui mi interrompo in un’attenuazione dell’euforia, una scheggia presaga deve essermi schizzata addosso dallo sfreghio della punta sul piano di lavoro, mi prende d’un tratto la consapevolezza d’una stupidità tale che vorrei cancellare tutto quello che ho scritto fino ad ora. Bisognava redarre un prospetto delle proprie ricordanze cavandone fuori un avanzamento decente, invece copro una lacrima con la frangetta scomposta perché vedo che ogni anima si chiude con un desiderio inconfessabile, una defezione straziante o un promettente progetto a metà, lo zero incolmabile di chi ha perso, continuamente perde e deve perdere così, per uno zero terminale ed annichilente, uno zero soltanto! La lontananza impercorribile dall’amorfo ha un nome, si chiama bisogno. Oggi non avrò scovato i casi soddisfacenti le condizioni di tangenza, ma almeno ho capito una cosa: che continuerò a cercarle per sempre, aggiungendo altre caffettiere allo spazio tra due tower, altri quaderni, cartelli, sacchetti di plastica, album da disegno, accumulerò compagnie su compagnie. E tuttavia tutte contempleranno sempre il solito inestinguibile metro di distacco tra due tower.

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5 commenti:

  1. interessante, davvero.

    il disegno è suo?

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  2. ah, un'ulteriore curiosità: perchè tra le tag appare l'amabile conte di locri? sembrerebbe un mistero... un omaggio? un avvertimento? uno scarabocchio su foglio quadrato? sentiamo, sentiamo...

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  3. Penso sia un aereo di carta con la punta infradiciata, una deviazione di rotta, il casuale scambio di destinatari. In fin dei conti si, un omaggio della pioggia.

    Alle bozze si allegano schizzi, a volte sono così crudele con i miei personaggi da straziarli prima dell'inchiostrazione, infierire sull'incompiutezza..(però se ti piace sono contenta)

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  4. Credo ci sia molto nell'intrico di questa scrittura autoreferenziale e greve, che poi è uno dei pochi modi del dire nell'inverno del nostro scontento. Cercavo le somiglianze: Landolfi, alcuni luoghi di Joyce. C'è del futuro, qui, ed è terribile. E lei dorma bene, Ipazia-creatura.

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  5. Il sogno è il tremore dei futuri, notti senza visioni hanno la stessa inconsistenza del passato. In un certo qual modo la nostra presenza si esaurisce interamente nell'atto di mettersi le ciabatte.
    Ogni sguardo consiste in sovrapposizioni fantastiche tra la retina e lente, in definitiva c'è del futuro ovunque,e questo è ancora più terribile.
    Riposi bene anche lei, Cavo.

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